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venerdì 7 gennaio 2011

Nuove malattie: la Sindrome di Quirra

mercoledì 5 gennaio 2011

La Nintendo 3DS può essere pericolosa per i bambini al di sotto dei 6 anni: lo dice la Nintendo



L' uso di tali dispositivi, da parte di bambini che hanno gli organi ancora in formazione, può causare danni cerebrali e alla vista.


Nintendo 3DS could be hazardous for children under 6, company says

martedì 4 gennaio 2011

L'antieroe Enzo Bearzot, un piccolo omaggio ad un grande commissario tecnico (quarta ed ultima parte)

La vittoria al Bernabeu ed il tramonto di una generazione




L'affermazione ai mondiali di Spagna fu, per molti versi, il trionfo di una generazione nata sotto l'egida del nostro commissario tecnico.
Con la sola eccezione di Zoff - già campione d'Europa nel '68 nonchè, inspiegabilmente, riserva di Albertosi nel '70 e nuovamente titolare nel '74 - e di Franco Causio - impiegato, assai marginalmente in verità, anche dallo stesso Valcareggi - il telaio della squadra che partecipò ai mondiali sudamericani del '78 fu quello che consentì di fregiarci del titolo di campioni del mondo quattro anni dopo con, naturalmente, qualche fisiologico innesto ovvero Gabriele Oriali, Fulvio Collovati e Bruno Conti al posto di Romeo Benetti, Mauro Bellugi e Franco Causio.
Ma, nello specifico, vorrei ricordare anche i meriti di Fulvio Bernardini che accompagnò la gestione bearzottiana nei primi due anni - dal 1974 al 1976 - e che pose le basi per una rifondazione della Nazionale puntando sulla nuova generazione che, a metà degli anni '70, andava affacciandosi sul proscenio del calcio italiano a cominciare, proprio, da Francesco Graziani e Giancarlo Antognoni.
I messicani, intendendo con questa espressione la generazione di calciatori che ci consentì di laurearci campioni d'Europa nel '68 e vicecampioni del mondo nel '70, avrebbero potuto chiudere la loro avventura in azzurro in ben altro modo a Monaco ma, al di là di queste considerazioni già ampiamente esposte, il vuoto che lasciarono fu immediatamente colmato da una nuova generazione di talenti.
Pensiamo, ad esempio, a Roberto Bettega - un giocatore completo che definire attaccante potrebbe risultare riduttivo -, ad Antonio Cabrini - il più forte esterno difensivo sinistro di sempre, mancino naturale, secondo solamente a Paolo Maldini -, a Caudio Gentile - il più forte francobollatore del calcio italiano in compagnia di Tarcisio Burgnich ma con in più, rispetto al friulano, l'attitudine a sovrapporsi sulla fascia come ala aggiunta -, a Gaetano Scirea - il libero per antonomasia appena dietro a Franco Baresi -, a Marco Tardelli - versatile, eclettico, degnissimo epigono di un fuoriclasse come Overath -, a Paolo Rossi - un opportunista della migliore specie nel solco del grandissimo Gerd Muller -, ed a Bruno Conti senza citare, peraltro, coloro i quali restarono, per un motivo o per un altro, esclusi dal giro azzurro : Paolino Pulici su tutti.
Il trionfo al Santiago Bernabeu fu il coronamento di un certosino lavoro durato, quindi, otto anni nel quale il calcio italiano espresse, progressivamente, il meglio di sè sotto tutti gli aspetti. La semifinale contro la Polonia fu vissuta, da noi tifosi non certo dai giocatori azzurri, quasi come una fastidiosa marginalità accessoria laddove, in finale, patimmo alquanto per tutto il primo tempo complici un rigore sbagliato da Cabrini ma, soprattutto, l'uscita anzitempo di Graziani per una distorsione alla spalla destra che costinse Bearzot ad avvicendarlo con Alessandro Altobelli.
Rispetto ai tedeschi noi ci presentammo in condizioni fisiche migliori e, per di più, maggiormente freschi perchè mentre la pratica Polonia, per quanto ostica, fu regolata all'inglese - un gol per tempo - la semifinale Germania-Francia, giocata peraltro il giorno dopo, si protrasse fino ai calci di rigore. Era, dunque, fisiologico aspettarsi un calo dei nostri avversari nella seconda frazione di gioco ma, ciò nonostante, patimmo oltremodo i nostri avversari. D'altro canto noi ci presentammo con una formazione decisamente anomala perchè l'infortunio patito da Antognoni nella semifinale con i polacchi indusse il nostro commissario tecnico a ridisegnare completamente l'assetto della squadra inserendo un terzino in più, Giuseppe Bergomi, e proponendoci, dunque, in un insolito 5-3-2 ma alzando il baricentro di Cabrini, a sinistra, che svolgeva, dunque, una funzione, di esterno sinistro onde per cui se, sulla carta, il nostro modulo era quello dianzi citato in realtà giocammo con il consolidato e tradizionale 4-4-2 anche se leggermente corretto alla bisogna.
Bearzot si affidò, quindi, a tre marcatori puri - Claudio Gentile, Giuseppe Bergomi e Fulvio Collovati - che piantonò alle calcagna, rispettivamente, di Littbarski, Rumenigge e Fisher. Pur non disponendo del bagaglio tecnico di Maradona e Zico, Littbarski era il classico trequartista che giocava dietro le punte dettando, talora, l'ultimo passaggio e, talaltra, proponendosi come attaccante aggiunto ed era, senza meno, l'uomo di maggior tasso tecnico della compagine tedesca. Reiterando un modulo già sperimentato con successo, il nostro commissario tecnico affidò alle cure di Gentile questo funambolico giocatore che fu ostaggio del nostro e non riuscì ad incidere in alcuna maniera nel corso di tutto l'incontro. I tedeschi, però, schieravano, in prima linea, due prime punte naturali entrambe possenti sul piano fisico e molto temibili ; Klaus Fisher era il classico centroavanti d'area di rigore forte nel gioco acrobatico - ricorderete tutti, spero, il suo spettacolare gol in sforbiciata contro i francesi nella semifinale di Siviglia - e nel gioco aereo laddove Karl Heinze Rummenigge - giocatore tecnicamente completo e, senza meno, uno dei più grandi attaccanti di sempre del calcio tedesco - soleva partire in posizione più decentrata, facendo leva sulla sua progressione e su un controllo della palla in velocità davvero fuori ordinanza, per sovrapporsi al compagno in fase di realizzazione. Se Collovati appariva, sin da subito, come il naturale destinatario della marcatura di Fisher, quella di Rummenigge creava non pochi grattacapi al nostro commissario tecnico perchè il difensore azzurro che più di ogni altro aveva le carte in regola per neutralizzare il fuoriclasse tedesco era proprio Gentile.
Ma se Bearzot avesse dirottato Gentile su Rummenigge avrebbe, poi, dovuto sacrificare Tardelli, in condizioni di forma smaglianti, su Littbarski perdendo, in tal modo, uno dei cardini più preziosi del suo centrocampo delegando, così, al solo Oriali la mansione di ribaltare il fronte del gioco. Un pò poco se teniamo di conto che la mediana tedesca era costituita da giocatori del calibro di Paul Breitner e Wolfgang Dremmler supportati dall'ex decatleta Hans Peter Briegel.
Bearzot temeva, a ragione, che i tedeschi avrebbero impostato l'incontro sul piano fisico ed allestì, così, un centrocampo molto robusto atto a contrastare le presumibili sfuriate dei nostri avversari che avrebbero potuto schiacciarci, fisicamente intendo, nella nostra metà campo. L'impiego di Bergomi su Rummenigge, invece, avrebbe affrancato da compiti di copertura proprio Antonio Cabrini che fu, oculatamente, spostato sulla mediana sicchè a centrocampo ci presentammo con tre interdittori molto forti fisicamente ovvero Tardelli, Oriali e, appunto, Antonio Cabrini supportati da Bruno Conti.
D'altro canto il disegno tattico del nostro commissario tecnico prevedeva una prima fase di contenimento, in concomitanza di una partenza lanciatissima dei nostri avversari, contando, nella ripresa, di imprimere quel cambio di marcia che aveva piegato sia l'Argentina che il Brasile frutto, naturalmente, di una condizione fisica smagliante.
Purtroppo l'infortunio patito da Francesco Graziani al 7' del primo tempo scombussolò alquanto i piani tattici di Bearzot che fu costretto ad inserire Alessandro Altobelli.
Altobelli, infatti, era una prima punta - alla stregua di Rossi dunque - e mal conciliava le sue proposizioni offensive con le incombenze di filtro in mezzo al campo per cui, per tutto il primo tempo, patimmo come dannati le spinte propulsive dei nostri avversari perchè, a centrocampo, giocavamo, di fatto, con un uomo in meno. La Germania, è vero, non creò reali occasioni da gol ma, ciò nondimeno, ci schiacciò, letteralmente, nella nostra metà campo accorciando i reparti ed impedendo, sul nascere, le nostre ripartenze. Il rigore, sacrosanto peraltro, concessoci per fallo di Briegel su Conti, che si inseriva da dietro, fu un mero episodio di un primo tempo nel quale giocammo, obiettivamente, male.
Fu una prima frazione, dunque, tatticamente sofferta nella quale salì in cattedra la nostra difesa - Scirea, Gentile, Collovati e Bergomi - che impastoiò le velleità offensive dei nostri avversari; ma se, d'altro canto, eravamo riusciti ad impastoiatre la Germania non riuscivamo però, nel contempo, ad imporre il nostro gioco. E lo 0 a 0 del primo tempo rispecchiò, fedelmente, l'andamento tattico di un incontro nervoso e bloccato.
Fu solo a seguito degli sviluppi di un calcio di punizione sulla nostra trequarti che il solito Rossi sbloccò la partita costringendo i tedeschi ad aprirsi per cercare di riequilibrare le sorti dell'incontro ma, a quel punto, i giochi erano fatti perchè i nostri avversari cominciarono, inevitabilmente, ad accusare i postumi della semifinale con la Francia, la squadra si disunì e nè Stielike nè Breitner, sulle cui sapienti geometrie si reggevano gli equilibri fra i reparti della compagine tedesca, riuscirono più a preservare, inalterate, le distanze fra le linee col risultato di creare, alle loro spalle, paurosi vuoti nei quali, finalmente, si inserirono i nostri giocatori : Oriali, Tardelli e Conti su tutti.
Il resto è retorica.
Vincemmo i mondiali perchè arrivammo al meglio delle nostre condizioni fisiche e giocammo un ottimo calcio, sicuramente meno spettacolare di quello espresso quattro anni prima in Argentina, speculativo e molto redditizio.
Vincemmo i mondiali perchè Bearzot lesse meglio degli altri gli incontri decisivi : se l'Argentina aveva un commissario tecnico assolutamente inadeguato - Menotti - il Brasile, di contro, aveva in panchina uno dei migliori selezionatori carioca di sempre.
Vincemmo i mondiali perchè fummo anche fortunati : il terzo gol al Brasile lo realizzammo in maniera fortunosa sugli sviluppi di un calcio da fermo in un momento dell'incontro particolarmente delicato nel quale sembrava avessimo gettato la spugna ; ma l'attitudine a creare opportunità interessanti dai calci da fermo era una connotazione della nostra compagine : il primo gol alla Polonia, in semifinale, ed il primo alla Germania, in finale, sono lì a rammentarcelo. E, d'altro canto, non rammento nessuna compagine campione del mondo, ad eccezione, forse, del Brasile del '70 e di quello del '58, che non sia stata assistita dalla buona sorte in una kermesse intercontinentale.
Ma io penso che vincemmo i mondiali perchè Bearzot era riuscito a creare, unico commissario tecnico in Italia, una vera e propria squadra intendendo questa terminologia in una accezione assai più ampia del mero significato sportivo e che gli consentì di ottenere il massimo, ed anche di più, da una rosa di buoni giocatori ma non certo, con qualche eccezione, di veri e propri fuoriclasse.
Se guardiamo, infatti, al panorama sportivo del calcio di quegli anni il novero di coloro che si fregiavano del pallone d'oro e del titolo di fuoriclasse non dimoravano nel nostro campionato.
Il calcio italiano dovrà aspettare, ancora, uno scarso decennio prima di vedere, in Italia, dei veri e propri fuoriclasse nostrani : la generazione di Roberto Baggio, Franco Baresi, Paolo Maldini, Roberto Donadoni, Gianluca Vialli, Roberto Mancini era di là da venire.
Ma il trionfo al Bernabeu segnò, inevitabilmente, anche l'inizio del declino di quella generazione e di Enzo Bearzot accusato, a posteriori, di non essere riuscito a rinnovare il tessuto della Nazionale poichè, legato emotivamente agli eroi di Spagna nonchè ai valori umani di cui sopra reiterati indebitamente, non ebbe il coraggio di cambiare fisonomia alla compagine azzurra.
Anche questo è il solito, sterile, luogo comune da sfatare nel modo più assoluto.
Lo vedremo, in dettaglio, nel prossimo ed ultimo post.


Il dignitoso commiato di Enzo Bearzot



L'epitaffio allegorico di quella generazione di talenti fu inciso dal girone di qualficazione agli Europei dell'86 alla cui fase finale non riuscimmo neanche ad accedere. In un gruppo, oggettivamente non facile ma neanche probitivo visto che in virtù dell'affermazione ai mondiali di Spagna eravamo testa di serie nei sorteggi, che contemplava la Romania, la Cecoslovacchia, la Svezia, e Cipro arrivamo penultimi perdendo, praticamente, tutte le trasferte - ad eccezione di quella giocata a Nicosia dove rimediammo un pareggio dopo essere passati, addirittura, in svantaggio - e vincendo, unicamente, la partita giocata in casa contro la già menzionata rappresentativa cipriota.
Non andammo oltre il pareggio con la Cecoslovacchia, a Genova, e con la Romania, a Firenze, perdendo malamente a Napoli con la Svezia - 0 a 3 - che ci rifilò altri due gol nel ritorno ad Helsinki.
Dopo le prime tre partite - con la Cecoslovacchia, la Romania e Cipro - Bearzot si rese conto che eravamo, oramai, fuori dai giochi e, perso per perso, prese a convocare nuovi giocatori che fece debuttare nel prosieguo della fase eliminatoria attirandosi contro, e non senza qualche ragione, gli strali del commissario tecnico cecoslovacco che lo accusò di antisportività perchè, ad un certo punto, la nostra compagine falsò l'esito delle qualificazioni schierando giocatori di seconda fascia ed interpretando come mere amichevoli gli incontri che le restavano da disputare.
D'altro canto, va riconosciuto, una cosa era impattare, a Genova, con una squadra che schierava Scirea ed un'altra era giocare al tirassegno con una compagine che, con tutto il rispetto, schierava come libero Ubaldo Righetti.
Questa piccola precisazione va fatta ad uso e consumo di coloro i quali accusarono, a posteriori, il nostro commissario tecnico di non aver avuto il coraggio di cambiare la rosa dei nostri giocatori prigioniero, per così dire, dei valori umani citati dianzi e che il nostro selezionatore avrebbe tenuto in considerazione prima di ogni altra cosa manco Bearzot fosse un vecchio rimbambito nostalgico e sentimentale.
Purtroppo in un paese poco avvezzo alla matematica ed assai più incline alla sterile logorroicità tipica dei retaggi di una cultura forense - la civiltà del diritto propugnata dalla Roma imperiale - le parole, a vanvera, proferite dagli opinionisti sportivi incidono molto di più di un semplice calcolo alfanumerico.
Numeri alla mano, invece, Bearzot convocò, tra il 1982 ed il 1986 una cinquantina di giocatori nuovi un numero, cioè spropositatamente alto. Anzi se c'è un appunto da muovere a Bearzot è proprio quello, a mio giudizio, di averne convocati sin troppi denotando una precarietà di intenti.
In realtà cambiare subito dopo l'affermazione ai mondiali di Spagna non avrebbe avuto senso alcuno. Tentare degli innesti in corso d'opera, specie poi quando la qualificazione alla fase finale degli Europei si era definitvamente eclissata, era l'unica cosa da fare.
E Bearzot, correttamente, la fece.
C'era, inoltre, un altro aspetto importante che non è stato mai particolarmente rimarcato. Uno dei punti di forza della nostra nazionale era il blocco juventino a cui il nostro commissario tecnico attinse a piene ottenendo, lo abbiamo letto sopra, un equilibrio all'interno dello spogliatoio e, soprattutto, quegli automatismi di gioco tipici di una squadra di club.
Ma tra il 1982 ed il 1986 il panorama geopolitico del calcio italiano subì un profondo mutamento di assetti ed accanto alla Juventus, campione d'Italia nelle stagioni 1983-84 e 1985-86, si affacciarono la Roma - vincitrice nella edizione 1982-83 e seconda nella stagione successiva nonchè in quella 1985-86 -, il Verona - campione d'Italia nel 1984-85 -, ed il Napoli. L'ingresso, inoltre, dei migliori giocatori stranieri - che passarono da 1 a 2 per squadra - che portarono, in Italia, Maradona, Zico e Rumenigge, ovvero il gotha del football mondiale, soffocarono, nell'immediato, la contestuale affermazione dei giovani del nostro vivaio.
Ma l'aspetto più importante, e mai sottolineato a sufficienza, fu che il movimento del nostro calcio non riuscì ad esprimere, in tempi brevi, una nuova generazione in grado di reggere il confronto con quella che nacque a cavallo degli anni '70. Mancò, cioè, un ricambio ; se Bernardini, prima, e Bearzot, poi, posero le basi su un novero di giocatori che si chiamavano Antognoni, Graziani, Cabrini, Tardelli, Scirea e Rossi adesso, viceversa, i nuovi si chiamavano Tricella, Galderisi e Di Gennaro. E Tricella, Galderisi e Di Gennaro, non dimentichiamocene, erano quanto di meglio offriva il panorama del nostro calcio di quegli anni tant'è che con una squadra, da un punto di vista tecnico, oggettivamente non irresistibile Osvaldo Bagnoli si laureò campione d'Italia.
Dati alla mano, quindi, i migliori giocatori italiani che Bearzot avrebbe potuto annoverare nella rosa della nazionale, in previsione dei mondiali prossimi venturi che si sarebbero disputati nuovamente in Messico, furono, effettivamente, cooptati dal nostro selezionatore.
Basta dare, in proposito, una rapida scorsa al novero dei ventidue che parteciparono a quel mondiale : accanto ai veterani di Spagna, il nostro selezionatore convocò, come estremi difensori, Giovanni Galli (Fiorentina), Franco Tancredi (Roma) e Walter Zenga (Inter) ; come difensori Sebastiano Nela (Roma), Roberto Tricella (Verona) e Pietro Vierchowod (Sampdoria) ; come centrocampisti Carlo Ancelotti (Roma), Salvatore Bagni (Napoli), Fernando De Napoli (Avellino), Antonio Di Gennaro (Verona), e Giuseppe Baresi (Inter) ; e come attaccanti, infine, Giuseppe Galderisi (Verona), Gianluca Vialli (Sampdoria) ed Aldo Serena (Inter) ovvero 14 nuovi giocatori su 22.
14 su 22 significa, numeri alla mano, che Bearzot modificò la rosa azzurra per il 63,33 % alla faccia di coloro che lo accusarono di essere legato ai valori umani e di non aver avuto il coraggio e la forza di cambiare pelle alla nostra Nazionale. Per non parlare, infine, della formazione base che il nostro commissario tecnico schierò in Messico la quale preservò, di quella spagnola, appena tre - dico tre ! - elementi ovvero Antonio Cabrini, Gaetano Scirea e Bruno Conti tenendo, doverosamente, di conto che Giuseppe Bergomi ed Alessandro Altobelli, titolari nell'86, quattro anni addietro erano dei meri rincalzi. Tre undicesimi equivale al 27,27 % per cui ciò significa che Bearzot modificò la nostra rappresentativa per il 72,72 %.

I numeri parlano chiaro : il resto sono cialtronerie messe in bocca ad una utenza di sprovveduti.
Ancora una postilla a beneficio di coloro i quali, strumentalmente mi pare, accusano, ancora oggi, Bearzot di essere stato succubo dell'asse Milano-Torino ; nel 1986 i giocatori facenti parte del novero delle squadre albergate sotto la Mole e sotto il Duomo furono, nell'ordine, Giuseppe Baresi (Inter), Aldo Serena (Inter), Walter Zenga (Inter), Paolo Rossi (Milan), Alessandro Altobelli (Inter), Marco Tardelli (Inter), Gaetano Scirea (Juventus), Giuseppe Bergomi (Inter), Fulvio Collovati (Inter) ed Antonio Cabrini (Juventus) vale a dire sette giocatori dell'Inter, uno del Milan e tre della Juventus per un totale complessivo di, appena, dieci calciatori ; e dieci su ventidue equivale ad, appena, il 45,45 %.
E questa percentule, fra l'altro, scende ulteriormente se diamo una rapida scorsa alla formazione tipo che contemplava, di questo famigerato asse sopra menzionato, appena quattro giocatori ovvero Giuseppe Bergomi, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea ed Alessandro Altobelli.
4 su 11 equivale, in percentuale, ad, appena, il 36,36 % il che, specularmente, equivale a dire che Bearzot attinse per il 63,64 % - dico : 63,64 % ! - da un novero di calciatori che esulavano dalla direttrice Torino-Milano ; un pò pochino, mi pare, per parlare, a ragion veduta, di indebite pressioni di cui il nostro commissario tecnico sarebbe stato vittima. E dire che, probabilmente, c'era ancora qualche altro giocatore - penso a Franco Baresi del Milan - che avrebbe, senza meno, dovuto far parte della spedizione azzurra al posto, magari, di Roberto Tricella. D'altro canto, l'amico Alfonso Liguori mi perdonerà, persino l'accusa di settentrionalismo, reiteratamente e strumentalmente portata avanti, per dodici anni, contro Bearzot da quel crocchio di giornalisti, in malafede, che Brera etichettava come facenti parte di una sedicente scuola napoletana viene, ampiamente, confutata dai numeri. La direzione tecnica di Bearzot si protrasse in un lasso di tempo nel quale il nostro massimo campionato di calcio fu appannaggio della Juventus nelle stagioni 1974-75, 1976-77, 1977-78, 1980-81, 1981-82, 1983-84 e 1985-86 (sette scudetti), del Torino nella stagione 1975-76 (uno scudetto), del Milan nella stagione 1978-79 (uno scudetto), dell'Inter nella stagione 1979-80 (uno scudetto), del Verona nella stagione 1984-85 (uno scudetto) e della Roma nella stagione 1982-83 (uno scudetto).
Su 12 stagioni, dunque, ben 11 furono appannaggio di compagini del nord ed una sola di una squadra del sud (se la Roma può considerarsi tale...) il che significa, in termini percentuali, che il 91,66 % degli scudetti di quegli anni gravitarono oltre la linea del Po. Se noi scorporiamo questi dodici anni e li abbiniamo, correttamente, alle nazionali del '78, dell'82 e dell'86 abbiamo dati alquanto sorprendenti. La nazionale azzurra che partecipò ai mondiali in Argentina era epigona delle stagioni 1976-1977 e 1977-78 nelle quali, rammentiamocelo, la Juventus si aggiudicò entrambi gli scudetti facendo registrare uno score, appannaggio delle squadre del nord, pari, dunque, al 100 %. Bearzot convocò, dunque, nove giocatori della Juventus - Dino Zoff, Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea, Franco Causio, Marco Tardelli, Roberto Bettega, Antonello Cuccureddu e Romeo Benetti -, uno del Milan - Aldo Maldera -, uno dell'Inter - Ivano Bordon -, sei del Torino - Claudio Sala, Patrizio Sala, Eraldo Pecci, Francesco Graziani, Paolino Pulici e Renato Zaccarelli -, uno del Bologna - Mauro Bellugi -, uno della Fiorentina - Giancarlo Antognoni - uno del Lanerossi Vincenza - Paolo Rossi -, uno della Roma - Paolo Conti - ed uno della Lazio - Lionello Manfredonia - per un totale, quindi, di 22 giocatori (pari al 91,6 %) del nord e 2 giocatori (pari all'8,4 %) del sud. Ciò significa, dunque, che a fronte del 100 % di assegnazioni di scudetti a compagini del nord, abbiamo una rappresentanza nazionale fedele riflesso dell'andamento del nostro calcio in un rapporto, quindi, di 91,6 % vs. 8,4 %. La nazionale italiana campione del mondo in Spagna era epigona di quattro stagioni nelle quali lo scudetto se lo erano aggiudicate il Milan, l'Inter e la Juventus (due volte) per un totale, anche qui, del 100 % appannaggio di squadre del nord. La diramazione delle convocazioni di Bearzot fu la seguente : sei giocatori della Juventus - Dino Zoff, Claudio Gentile, Antonio Cabrini, Gaetano Scirea, Marco Tardelli, Paolo Rossi -, due del Milan - Franco Baresi e Fulvio Collovati -, cinque dell'Inter - Giuseppe Bergomi, Gabriele Oriali, Ivano Bordon, Alessandro Altobelli e Giampiero Marini -, uno dell'Udinese - Franco Causio -, cinque della Fiorentina - Daniele Massaro, Giovanni Galli, Pietro Vierchowod, Francesco Graziani e Giancarlo Antognoni -, uno del Torino - Giuseppe Dossena -, uno della Roma - Bruno Conti - ed uno del Cagliari - Franco Selvaggi - per un totale, dunque, di 22 giocatori del nord e 2 del sud. Le percentuali sono, dunque, esattamente le stesse di quattro anni prima. La Nazionale del 1986 era epigona di un quadriennio nel quale lo scudetto lo avevano vinto la Juventus (due volte), il Verona e la Roma. Abbiamo, quindi, una percentuale, dunque, del 75 % di scudetti ancora appannaggio di compagini del nord e del 25 % in favore del sud. La Nazionale che difese il titolo di campione del mondo in Messico era costitutita da tre giocatori della Juventus - Antono Cabrini, Aldo Serena e Gaetano Scirea -, sei dell'Inter - Giuseppe Baresi, Giuseppe Bergomi, Alessandro Altobelli, Walter Zenga, Fulvio Collovati e Marco Tardelli -, uno della Fiorentina - Giovanni Galli -, tre del Verona - Roberto Tricella, Antonio Di Gennaro e Giuseppe Galderisi -, due della Sampdoria - Pietro Vierchowod e Gianluca Vialli -, uno del Milan - Paolo Rossi -, quattro della Roma - Sebastiano Nela, Carlo Ancelotti, Franco Tancredi e Bruno Conti -, uno del Napoli - Salvatore Bagni - ed uno dell'Avellino - Fernando De Napoli - per un totale, quindi, di 16 giocatori del nord e 6 del sud. Questi numeri danno uno score, in percentuale, del 72,72 % appannaggio di compagini del nord e del 27,28 % in favore di squadre del sud e sono un fedelissimo riflesso del nostro campionato di calcio alla faccia di coloro che accusavano Bearzot di non tenere in debito conto i valori espressi nel massimo campionato di calcio. La sedicente accusa di settentrionalismo, dunque, viene clamorosamente a cadere perchè, c'è poco da fare, con i numeri sotto mano la percezione della realtà cambia drasticamente. E fa, altresì, specie un'altra considerazione ovvero che quella medesima accusa non fosse stata rivolta, dai medesimi cialtroni e lestofanti di cui sopra, che impazzavano dalle colonne di quotidiani come Il Mattino di Napoli, ad Azeglio Vicini che guidò la nostra rappresentativa in un lasso di tempo nel quale, invece, proprio il Napoli fu una delle squadre, se non la squadra, protagonista. Vicini assunse le redini della nazionale all'indomani dei mondiali di Messico dell'86 ; le stagioni seguenti videro, in Italia, l'affermazione del Napoli nei campionati 1986-87 e 1989-90 (due scudetti), del Milan nel campionato 1987-88 (uno scudetto) e dell'Inter nel campionato successico (uno scudetto). Ciò significa, quindi, che su 4 stagioni ben 2 - il 50 % - furono appannaggio di una squadra del sud la quale, nelle altre due stagioni, si piazzò seconda alle spalle delle milanesi. Se noi, adesso, diamo una scorsa all'elenco dei convocati che Vicini diramò in occasione dei mondiali del 1990 abbiamo che, dei ventidue, solamente tre giocatori napoletani - Ciro Ferrara, Fernando De Napoli ed Andrea Carnevale - facevano parte del novero della Nazionale. 3 su 22 equivale, in termini percetuali, ad appena, il 13,63 %. E se, poi, andiamo a dare una rapida sbirciata alla formazione base abbiamo che dei tre solamente uno, dico uno !, faceva parte dell'undici titolare ovvero Fernando De Napoli. Ed 1 su 11 equivale al 9.09 %. Ancora : nell'ambito dei ventidue che furono convocati da Vicini c'erano, nell'ordine, cinque giocatori dell'Inter - Walter Zenga, Giuseppe Bergomi, Riccardo Ferri, Nicola Berti ed Aldo Serena -, quattro del Milan - Franco Baresi, Paolo Maldini, Carlo Ancelotti e Roberto Donadoni -, tre della Juventus - Roberto De Agostini, Stefano Tacconi e Giancarlo Marocchi -, quattro della Sampdoria - Pietro Vierchowod, Roberto Mancini, Gianluca Vialli e Gianluca Pagliuca - ed uno della Fiorentina ovvero Roberto Baggio. Il sud, se vogliamo usare questa definizione strumentale, era rappresentato da, appena, quattro giocatori : oltre ai già menzionati Ferarra, Carnevale e De Napoli c'era, infatti, il solo Giuseppe Giannini della Roma. 4 su 22 significa che in quella nazionale il nord era rappresentato per l'81,81 % mentre il sud per, appena, il 18,19 %. Quando lo scrivente si scaglia, anche violentemente, contro i sedicenti opinionisti sportivi definendoli una banda di mascalzoni non lo fa per partito preso o per pregiudizio ma a fronte di numeri. Numeri che, beninteso, erano appannaggio, a maggior ragione, anche di questi signori che però, lungi dal presentarli all'opinione pubblica per svolgere deontologicamente il loro mestiere che è - meglio, dovrebbe essere - quello di informare, preferivano aizzare i propri lettori per cercare di far registrare un aumento delle tirature dei loro fogli. Ed ecco, quindi, spiegate, analiticamente, le ragioni per le quali ancora oggi molte persone, in buonissima fede come l'amico Alfonso, continuino a tacciare Bearzot di settentrionalismo proprio perchè non hanno mai avuto modo di leggere i numeri di cui sopra. L'ho scritto dianzi ma val la pena di ripeterlo : con i numeri sotto mano la percezione delle cose cambia drasticamente.
Un'altra accusa mossa a Bearzot fu quella di non aver attinto, a piene mani, dal serbatoio della Under 21 di Azeglio Vicini che, in quegli anni, dettava legge in ambito continentale.
A questa larvata accusa, dettata da addetti ai lavori in assoluta malafede, rispondo facendo notare che pescare a piene mani da un vivaio e portare in Messico dei ragazzini - perchè tali erano, allora - a difendere il titolo di campioni del mondo sarebbe equivalso, allegoricamente, a mandare al macello una generazione di talenti con il rischio, concreto, di bruciarli anzitempo ed attendere, magari, altri dieci anni per un nuovo ricambio generazionale.
Bearzot aveva della Nazionale una concezione, direi, trascendentale ; la Nazionale, nel senso ontologico del termine, volava più in alto di tutte le contingenze fenomeniche del momento ed anche dello stesso commissario tecnico. Sapientemente, quindi, Bearzot lasciò a casa quella nuova generazione di talenti che sarebbe stata una grande protagonista del mondiale del '90 ed a cui solamente la dabbenaggine di uno dei più insulsi commissari tecnici della storia azzurra, Azeglio Vicini, avrebbe precluso quella consacrazione che, senza meno, avrebbe meritato.
L'ultima accusa, e con questa digressione termino, rivolta ad Enzo Bearzot concerne il fatto di essere rimasto, tatticamente, al palo e non aver impostato la nostra compagine a zona.
Anche qui vanno fatte alcune precisazioni di ordine, squisitamente, tattico.
Premesso che non è scritto da nessuna parte che il gioco a zona sia, di per sè, migliore e più redditizio di quello nostrano, la Nazionale di Bearzot mutuava quanto di meglio, in quegli anni, esprimeva il nostro calcio ed in quegli anni, rammentiamocene, tutte le nostre compagini, con la sola eccezione di Roma e Milan, giocavano a uomo.
Prendere, quindi, giocatori come Gentile, Collovati, Bergomi, Cabrini etc. ed imporre loro una marcatura a zona avrebbe significato, da un lato, rinunciare a quelle caratteristiche che li consacrarono fra i migliori francobollatori del mondo e, dall'altro, snaturarne le migliori attitudini.
D'altro canto non è affatto vero che la nostra Nazionale giocasse a uomo ; la nostra compagine applicava una zona mista perchè se è vero, come è vero, che i nostri difensori, con la sola eccezione di Scirea che stazionava alle loro spalle, marcavano ad uomo i nostri centrocampisti, viceversa, erano disposti, salvo rare eccezioni dettate dalla contingenza, rigorosamente a zona.
E, d'altra parte, anche le squadre che applicano la zona mutano, repentinamente, la natura delle marcature negli ultimi sedici metri impostando, rigorosamente, quella ad uomo.
Nessuna squadra, neanche il Brasile per intenderci, ha mai applicato, integralisticamente intendo, la zona pura.
Il calcio è un gioco pragmatico ; le ideologie sono confusioni fuorvianti ad uso e consumo di una platea di non addetti ai lavori.
Le colpe che, in tutta sincerità, mi sento di attribuire a Bearzot sono, essenzialmente, due ; la prima fu quella di non aver fatto una scelta netta e chiara dell'erede di Zoff sin da subito ma di aver tentennato, sino alla fine, fra Giovanni Galli e Franco Tancredi con il risultato, nefasto, di svuotare, psicologicamente intendo, il portiere viola che ai mondiali risultò, in più di una occasione, assolutamente inadeguato.
Ed il secondo di non aver puntato, sin da subito, su Franco Baresi ma di aver cercato improbabili alchimie tattiche nel tentativo, disperato, di trovare una coesistenza fra lui e Scirea facendo giocare il milanista come centromediano metodista.
Ma al di là di questi appunti, doverosi, va sottolineato che la nostra compagine dell'86 era quanto di meglio Bearzot potesse schierare in Messico ed era fedele espressione di una involuzione del nostro calcio.
Se, in Spagna, la nostra Nazionale era una buona squadra ma era, correttamente, annoverata fra le outsider qui, in Messico, era una rappresentativa poco più che mediocre.
Ma quel che mi piace ricordare di quella compagine fu il modo, dignitoso, con il quale abbandonò il proscenio.
Annichilita dalla Francia di Platini, non si scompose nè dette adito ad un calcio violento e rissoso uescendo di scena come il suo commissario tecnico ovvero con estrema dignità.
E Dio solo sa se questo paese ne necessita oltremodo.


Post-scriptum



Queste note a latere sono un tentativo di ristabilire alcune verità cercando di sfatare troppi luoghi comuni ad uso e consumo di una platea profondamente suggestionabile e distratta. Al protagonista di queste note va, naturalmente, un pensiero particolare ; in allegato a quest'ultima nota ho montato e pubblicato su YouTube un piccolo cortometraggio che vuole essere un piccolo tributo alla figura di Enzo Bearzot.
Ma ci sono altre due persone alle quali voglio dedicare quanto ho riportato, pazientemente, in questi undici post.
Il primo è Telè Santana prematuramente scomparso qualche anno addietro e colpevolmente dimenticato.
Su questo sfortunato commissario tecnico ci sarebbe da scrivere un romanzo. Proverò, tempo permettendo, a ricordarne la figura con qualche nota su questo social network.
E l'ultimo, ma primo in ordine di affetto e considerazione, è l'amico Flavio Caputo senza il quale, probabilmente, queste note non avrebbero mai visto la luce.
Il ricordo, indelebile, delle nostre diatribe calcistiche sin dai tempi del liceo resterà sempre con me come uno dei più cari.
Ed è a lui, ed alla piccola Alice, che voglio dedicare questo piccolo sunto.



Christian Luongo



130.000 anni fa l'uomo era già padrone dei mari



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Attenti al Neotame: il nuovo dolcificante tossico della Monsanto

Neotame, New Neurotoxic Sweetener: FDA Says No Label Needed, Not Even in Organics

L'antieroe Enzo Bearzot, un piccolo omaggio ad un grande commissario tecnico (parte terza)

Le reiterate falsità sui brasiliani



L'esposizione, nella nota precedente, delle caratteristiche salienti della compagine brasiliana non era un mero esercizio di retorica ma rispondeva all'esigenza di rendere edotti coloro i quali di calcio masticano poco o punto su quale squadra abbiamo mandato a casa.
L'ho scritto dianzi e lo ripeto : il Brasile del 1982 è stato, in assoluto, uno dei migliori Brasili di sempre ed il fatto di averlo eliminato fu una impresa, anzi l'impresa, del calcio italiano nel corso di tutta la sua storia perchè se è vero, come è vero, che la vittoria con l'Argentina campione del mondo uscente ci poteva anche stare, una affermazione contro i carioca era, oggettivamente, del tutto improponibile per tutto quel novero di considerazioni esposte, sommariamente, poc'anzi. Nel corso della sua storia, la nazionale si era resa protagonista, in verità, anche di un'altra impresa ; la vittoria contro i tedeschi nella celeberrima semifinale dell'Azteca, in Messico, fu, oggettivamente, un grandissimo risultato. Ma, con il senno di poi e cercando di esulare da connotazioni puramente emotive, va riconosciuto che, nei novanta regolamentari, il pareggio strappato in piena zona Cesarini da Schnellinger fu una beffa : per loro, non per noi intendo, visto che nella seconda frazione di gioco si giocò ad una porta sola : la nostra !
Un paio di interventi miracolosi di Albertosi, una traversa piena di Overath ed un salvataggio circense, in mezza rovesciata, effettuato da Rosato a ridosso della linea di porta la dicono lunga sul predominio esercitato dai nostri avversari nei secondi quarantacinque minuti. L'Italia, a questo forcing forsennato dei tedeschi, oppose un velleitario tiro dal limite di Rivera ; poi il nulla assoluto. Se, quindi, al termine dei tempi regolamentari la Germania avesse chiuso l'incontro in vantaggio non ci sarebbe stato, temo, davvero nulla da eccepire. Nei supplementari, invece, complice anche la stanchezza dei tedeschi che avevano sul groppone i supplementari con l'Inghilterra campione del mondo uscente nonchè la menomazione del capitano Beckembauer che giocò con una vistosa fascia alla spalla destra, la nostra nazionale se la giocò, tutto sommato, alla pari. Ma i tedeschi non erano, neanche lontanamente aggiungo, paragonabili ai brasiliani di Spagna nè a quelli di Messico '70. Erano, per la verità, già allora una compagine moderna che giocava un calcio molto fisico basato su ritmi vertiginosi e, di lì a poco, si sarebbero fregiati del titolo di campioni d'Europa, nel 1972, e di campioni del mondo nel '74.
Ma in Messico, in altura, la rarefazione dell'aria precludeva l'impostazione di un gioco basato su ritmi frenetici favorendo, di fatto, le squadre più tecniche. Ed il Brasile del 1970 era una squadra che di tecnica ne aveva da vendere. L'impresa allo stadio Azteca, dunque, si connota, invero, di un pathos fortissimo ma, tecnicamente parlando, non può essere paragonata a quella dell'Italia di Bearzot. L'unica impresa che, paradossalmente, può accostarsi a quella dell'82 fu quella del '66 quando la nostra Nazionale riuscì a farsi eliminare dalla Corea del Nord.
E, a memoria almeno, non mi sovviene alcuna altra impresa compiuta dai nostri giocatori visto che la vittoria ai mondiali di Germania del 2006 - e qui mi tirerò dietro gli improperi di mezzo mondo - fu un furto perpetrato ai danni della Francia.
A proposito di quel Brasile, quello dell'82 intendo, si sono, nel tempo, annoverati una serie di luoghi comuni, falsi, volti, in qualche modo, a sminuire la valenza della nostra affermazione.
Si è detto, più volte, che se il Brasile avesse giocato un pò più all'europea speculando, cioè, sulla possibilità di poter disporre di due risultati utili su tre - il pareggio avrebbe consentito ai carioca di eliminarci - le cose sarebbero andate diversamente.
Questo è, vergognosamente, falso !
Il Brasile speculò, oggettivamente, pochino ma non per scelta bensì per necessità trovandosi già sotto di un gol dopo appena cinque minuti. E tra il pareggio di Socrates ed il secondo gol di Rossi passarono, appena, tredici minuti nei quali la squadra di Santana fece, effetivamente, possesso palla tentando di addomesticare la partita abbassando il ritmo tant'è che il secondo gol venne a seguito di un disimpegno errato di Cerezo sulla linea difensiva brasiliana. E tra il pareggio di Falcao ed il terzo gol di Rossi passarono, appena, sette minuti.
Ancora, mi perdonerete spero, due numeri perchè nulla meglio dei numeri riesce a fornire una panoramica scevra da pregiudizio alcuno.
Se sommiamo, dunque, gli intervalli di tempo nei quali il Brasile fu effettivamente qualficato abbiamo cinque minuti - i primi - più tredici - lo spazio fra il pareggio di Socrates ed il secondo gol di Rossi, appunto - più sette - ovvero il tempo intercorrente fra il pareggio di Falcao ed il terzo gol di Rossi - per un totale, quindi, di appena venticinque minuti su novanta il che vuol dire che la squadra di Santana potè speculare sull'esito della partita per, appena, il 27,7 % della durata dell'incontro e fu costretta, di contro, ad impostare il match per il restante 72,3 %.
Si è rimarcato, inoltre, che se Telè Santana avesse schierato, al posto di Valdir Peres, un estremo difensore all'altezza, l'esito dell'incontro sarebbe stato molto diverso : parimenti falso !
Premesso che, in quegli anni, l'unico portiere in Brasile degno di questo nome era il pastore cattolico Joao Leite che soleva regalare al portiere avversario una copia della Bibbia prima di ogni incontro e che, oggettivamente, non era certo Gilmar, faccio sommessamente notare che, nelle specifiche circostanze dei tre gol, Rossi era posizionato a ridosso dell'area di porta - il primo - appena dentro l'area di rigore e solo davanti al portiere - il secondo - e ad un metro dalla linea bianca - il terzo - per cui, temo, che neanche la dea Kali, la quale in molte iconografie veniva raffigurata con, almeno, quattro braccia, avrebbe potuto fare molto di più. di quanto fatto da Valdir Peres.
Si è sottolineato, infine, che la presenza di un centroavanti di spessore in sostituzione dello stralunato Serginho avrebbe deciso altrimenti l'esito di quell'incontro. Ma anche qui va rimarcata una considerazione di ordine tattico. Il Brasile, lo abbiamo letto dianzi, fu costretto ad inseguire l'Italia per quasi tutto il decorso dell'incontro e privarsi di un giocatore dotato nel gioco aereo in previsione di un forcing e di un novero di traversoni dalla linea di fondo sarebbe stato, a dir poco, suicida. E Telè Santana non era uno sprovveduto per cui, correttamente, tenne in campo il suo attaccante salvo, poi, avvicendarlo con Paulo Isidoro ma per altre considerazioni, sempre di ordine tattico, che esamineremo, nel dettaglio, più avanti.
Tutte queste falsità propinate, a mezza voce, da sedicenti professionisti della carta stampata ad uso e consumo di un pubblico di non adetti ai lavori era un larvato tentativo di sminuire, in qualche modo, il lavoro svolto dal nostro commissario tecnico di cui si riconsceva, esclusivamente, il merito di aver creduto, lui solo, in Paolo Rossi quando, oggettivamente, era oltremodo difficile non dare credito ad Alessandro Altobelli che scalpitava dietro le quinte. La stampa milanese, in quei giorni, ingaggiò una furiosa campagna a sostegno del centravanti dell'Inter ma Bearzot tenne duro seguendo delle considerazioni di ordine tecnico-tattiche e non certo umane.
Paolo Rossi era un brevilineo che aveva nell'intuito di leggere l'azione prima degli altri, nell'opportunismo e nello scatto breve i suoi punti di forza. Al termine della preparazione, ed a seguito di quasi due anni di inattività per la nota vicende del calcio-scommesse, Rossi era, naturalmente, più arrugginito degli altri ma il nostro commissario tecnico contava che, alleggerendo i carichi di lavoro, il nostro centroavanti avrebbe, nel breve periodo, recuperato quella elasticità, quella lucidità e quella forma fisica che gli avrebbe consentito di ritornare letale negli undici metri. La chiave di volta fu proprio la partita con l'Argentina dove Rossi, pur mangiandosi un gol davanti a Fillol, dette inequivocabili segnali di ripresa spaziando lungo tutto il fronte d'attacco e coadiuvando un generosissimo Graziani. Era, per intenderci, un altro giocatore rispetto a quella pallida controfigura che aveva giocato contro il Perù ed avvicendarlo prima dell'incontro decisivo contro il Brasile sarebbe stata pura follìa. E Bearzot non era un folle.
Va detto, altresì, che il primo gol al Brasile lo sbloccò anche psicologicamente. Ma, fisicamente, il giocatore era ritrovato e non da quel momento. La sua tripletta ai verdeoro passò agli annali della storia del calcio. Ma il vero artefice della sua rinascita, sul campo, fu Francesco Graziani.



Italia-Brasile 3-2 ovvero la consacrazione di Bearzot e la rivincita di Graziani (parte prima)



L'ho reiteratamente sottolineato nel corso di queste note : se Bearzot, dalla panchina, vinse il suo duello con il commissario tecnico Telè Santana, sul campo il recondito protagonista del miracolo azzurro fu Francesco Graziani.
Graziani, rammentiamolo, era il centravanti titolare durante tutta la fase eliminatoria in vista dei mondiali di Argentina del 1978 e formava, insieme allo juventino Roberto Bettega, un duo di punta del tutto atipico perchè entrambi erano, sostanzialmente, delle seconde punte naturali. Ma in Argentina Graziani arrivò in uno stato di forma precario e Bearzot gli preferì, per il debutto prima e per il prosieguo della competizione poi, Paolo Rossi. E, ironia della sorte, Rossi fu uno dei protagonisti assoluti di quel mondiale.
In tutta la rassegna sudamericana, ed anche negli anni immediatamente a venire, Graziani non rilasciò mai una dichiarazione polemica o lesiva nei confronti del nostro commissario tecnico ma, disciplinatamente, accettò l'esautorazione e la panchina, prima, e l'esclusione dal novero dei ventidue poi.
Questo comportamento fu, a dir poco, ineccepibile ed il centravanti si guadagnò, agli occhi del nostro selezionatore, una grandissima considerazione come uomo ancor prima che come atleta. Nulla a che vedere, insomma, con quello tenuto quattro anni addietro da Giorgio Chinaglia il quale, per una mera sostituzione, mandò platealmente alla berlina il commissario tecnico dell'epoca, Ferruccio Valcareggi, davanti agli occhi, esterrefatti, di milioni di telespettatori che seguivano, trepidanti, le sorti di un debutto assai più problematico del previsto contro la matricola Haiti.
Ma la sorte, sportiva, aveva un debito da saldare nei confronti di Graziani.
Il gravissimo infortunio patito durante la stagione 1981-82 da Roberto Bettega che tenne lontano, per mesi, lo juventino dai campi di gioco, indusse Bearzot a richiamare immediatamente Graziani ed a schierarlo nuovamente titolare e, soprattutto, nel ruolo a lui più congeniale ovvero quello di seconda punta a supporto, ancora ironia della sorte, proprio di Paolo Rossi.
Graziani ripagò la rinnovata fiducia concessagli dal commissario tecnico come meglio non avrebbe potuto e si sobbarcò, da solo, il peso di tutto il reparto offensivo in particolar modo nella prima fase quella, cioè, di Vigo dove portò la croce e, per così dire, cantò ; suo fu, ricordiamocelo, il gol contro il Cameroon del momentaneo 1 a 0. E se in occasione della sfida contro l'Argentina Graziani dette il meglio di sè contro il Brasile andò, per così dire, anche oltre.
L'incontro, lo abbiamo scritto dianzi, si presentava, a dir poco, assolutamente proibitivo.
Ad ogni modo l'Italia poteva far leva su un aspetto psicologico : rispetto ai carioca gli azzurri non avevano nulla da perdere !
Se, ad esempio, i brasiliani ci avessero rifilato tre gol dubito fortemente che si sarebbero scatenate furibonde polemiche contro la nostra rappresentativa visto che, parimenti, anche ai campioni del mondo uscenti i verdeoro di Santana avevano riservato il medesimo trattamento. Per una volta, insomma, per quanto paradossale possa sembrare, la mera constatazione di partire battuti ab initio si trasformava in un vantaggio.
Ma Bearzot contava, naturalmente, di impostare l'incontro cercando di sfruttare i pochissimi punti deboli della compagine sudamericana e puntò sull'accorciamento della squadra a ridosso della linea dei centrocampisti per cercare di sfruttare, al meglio, le ripartenze dei nostri giocatori : Tardelli, Conti ed Antognoni, in primis, ma anche dello stesso Oriali e, all'occorrenza, di Antonio Cabrini. Contestualmente chiese a Graziani di portare un pressing alto sui difensori brasiliani che solevano, dalle retrovie, avviare la manovra lasciando scevri da impegni di copertura i soli Rossi ed Antognoni.
I brasiliani, secondo la filosofia di cui sopra secondo la quale se il pallone lo hai tu gli avversari non possono nuocerti, erano soliti impostare le loro manovre dalla linea difensiva a ridosso della quale stazionava Falcao. Assai di rado, infatti, Valdir Peres, l'estremo brasiliano, calciava lungo dalla propria area di rigore proprio perchè, in tal modo, si correva il rischio di regalare palla agli avversari.
La partenza degli azzurri fu, com'era da prevedersi, lanciatissima: già dopo pochi minuti l'Italia ebbe una mezza occasione da gol ma Graziani impattò male un pallone tagliato dall'out destro servitogli, se la memoria non m'inganna, da Bruno Conti. Un paio di minuti dopo, però, passammo incredibilmente in vantaggio.
Mentre i brasiliani ci stavano ancora prendendo le misure, una prolungata, ed apparentemente velleitaria, manovra sulla fascia destra di Conti divenne, improvvisamente, pericolosa perchè il romanista servì, sull'out opposto, Antonio Cabrini che si era proposto come mezzala ; uno sguardo appena e lo juventino fa partire, dalla propria trequarti. un cross tagliato all'interno verso il centro dell'area di rigore che, probabilmente, sarebbe stato del tutto innoquo se una repentina intuizione di Graziani non avesse indotto il nostro attaccante a portarsi dietro i due centrali carioca, Oscar e Luisinho, con un movimento verso l'esterno creando, all'interno, uno spazio dove, fulmineo, si inserì Rossi.
Quando Junior, l'esterno sinistro carioca, si avvide, con un attimo di ritardo, che il nostro centroavanti era completamente smarcato, provò a chiudere il buco lasciato dai compagni ma era già troppo tardi poichè Rossi aveva già impattato, solo soletto, il pallone depositandolo alla sinistra dell'incolpevole Valdir Peres.
Eravamo in vantaggio al primo vero affondo e la partita si mise immediatamente in discesa.
Il Brasile, ad ogni modo, non si scompose e cominciò a macinare gioco. La situazione tattica, però, si era capovolta per cui Santana temeva, non senza ragione, che i brasiliani cominciassero a prendere d'assedio la retroguardia azzurra intasando spazi e corridoi prestando, così, il fianco ai nostri contropiedi.
Ordinò, allora, a Zico di stazionare, stabilmente, sulla trequarti nel tentativo di portarsi dietro Gentile e creare, così, una falla nella nostra linea di difesa. Contestualmente Bearzot chiese ai suoi centrocampisti di accorciare le distanze a ridosso dei portatori di palla Falcao e Cerezo nonchè impostando, anche a centrocampo, una marcatura così asfissiante che pareva prefigurasse una francobollatura a uomo. Santana, per converso, chiese a Falcao ed agli stessi Cerezo ed Eder di arretrare il proprio baricentro di una decina di metri nel tentativo di trascinarsi dietro Tardelli ed Oriali i quali, però, non caddero nel tranello di creare, alle loro spalle, degli spazi nei quali avrebbero potuto inserirsi anche gli esterni Leandro e Junior e presidiarono, a zona, la loro fascia di campo. Con una decina di metri a disposizione, però, i brasiliani potevano, quanto meno, respirare e disporsi più larghi sul campo nel tentativo, quindi, di allargare, parimenti, le maglie del nostro schieramento favorendo, così, i tagli di Socrates. D'altro canto alzare troppo il baricentro della squadra azzurra avrebbe posto il fianco al rischio, letale, di creare spazi alle spalle della nostra linea difensiva nei quali, oltre al capitano carioca, avrebbe potuto inserirsi anche Eder il quale, pur non essendo dotato di uno scatto fulmineo, era molto potente fisicamente ed in progressione avrebbe creato non pochi problemi ad Oriali per cui, saggiamente, in fase di possesso palla i nostri difensori si mantennero, relativamente, bassi seguendo pedissequamente le direttive di Scirea, il mai troppo compianto libero azzurro, che svolgeva, sul terreno di gioco, le funzioni di allenatore in seconda mantendendo le giuste distanze fra i reparti.
L'equilibrio tattico dell'incontro era dunque, alla stregua di una partita a scacchi, alquanto precario e suscettibile, quindi, di saltare da un momento all'altro per una invenzione di questo o quel giocatore.
Purtroppo l'invenzione di cui sopra la fecero, ahinoi, i brasiliani al 12' allorquando, raccogliendo un suggerimento di Socrates, Zico si decentrò all'altezza della propria trequarti sull'out destro portandosi dietro Gentile marginalizzandosi, solo apparentemente, dal fulcro della manovra e creando, quindi, per vie centrali, uno spazio che il capitano lesse prima di tutti gli altri giocatori tant'è che, appena data via la palla al compagno, aveva già cominciato a muovere le sue lunghe leve per andarsi a posizionare in quella area di campo prendendo in contropiede i nostri centrocampisti ed, in primis, Marco Tardelli. Non si sa come, davvero, ma in maniera sincronica allo scatto di Socrates, Zico disorientò Gentile con una piccola magia, un colpetto di tacco, e finse di tagliare verso il centro servendo, invece, con un esterno destro vellutato in verticale, il capitano che, in progressione, aveva lasciato alle sue spalle Tardelli ed aveva saltato anche lo stesso Scirea, parimenti in ritardo, presentandosi, così, completamente solo davanti al nostro portiere seppur in posizione leggermente decentrata sul fronte destro dello schieramento offensivo sudamericano.
Zoff, com'era ovvio, cercò di coprire, alla sua destra, il palo più lontano ed invece, con un colpo di carambola, il brasiliano lo trafisse con una rasoiata proprio su quello più vicino facendo passare il pallone in uno spazio davvero millimetrico fra il piede sinistro del nostro portiere ed il legno della nostra porta.
Uno a uno, dunque, e tutto da rifare. Erano passati, appena, dodici minuti.
A questo punto, con una situazione tattica nuovamente capovolta ed a favore dei nostri avversari, Santana ordinò ai suoi di addormentare l'incontro. Tessere una ragnatela per linee orizzontali presentava alcuni indiscutibili vantaggi : il primo era che, in questo modo, il pallone stazionava, sempre, tra i piedi dei nostri avversari soffocando sul nascere qualunque nostra velleità offensiva ; il secondo era che questo fraseggio reiterato abbassava il ritmo della partita ; il terzo era che i nostri giocatori avrebbero dovuto alzare il baricentro ed aumentare il pressing anche nella metà campo carioca rischiando, in tal modo, di lasciar sguarniti ampi spazi alle loro spalle ; il quarto, infine, era che gli azzurri avrebbero corso il rischio di correre a vuoto e di esaurire molto presto le proprie energie. D'altronde quando una squadra, il Brasile naturalmente, dispone di un novero calciatori dotati di una tecnica di base sopra le righe è conseguenziale che la gestione del possesso palla divenga una caratteristica predominante del proprio modo di giocare.
Bearzot non cadde nella trappola tesagli da Santana e ridispose, in mezzo al campo, i suoi giocatori rigorosamente a zona accorciando le distanze fra la linea mediana e quella difensiva ma allargando, nel contempo, lo spazio fra la linea dei centrocampisti e quella delle punte e chiedendo al solito Graziani di sacrificarsi oltremodo e portare un pressing alto fino alla linea di difesa avversaria ottenendo, in tal modo, di disturbare, sin dall'inizio, la costruzione della manovra brasiliana e preservando l'equilibrio fra i reparti. E fu proprio in occasione di uno di questi disimpegni che la nostra squadra ritornò in vantaggio. Quando Valdir Peres rinviò, con le mani, il pallone a Leandro - l'esterno difensivo destro - questi, pressato indebitamente dal solito Graziani sino a ridosso della propria area di rigore, dette palla, per linee orizziontali, a Toninho Cerezo che, in quel frangente, si era collocato davanti alla difesa in posizione, dunque, di centromediano metodista. In fase di possesso palla, rammentiamocene, i sudamericani solevano disporsi già larghi sul terreno di gioco per cui, contestualmente a Leandro, anche i centrali carioca e l'esterno Junior si erano posizionati a ventaglio. Su Cerezo salì molto alto a portare pressing Marco Tardelli ed il brasiliano, invece di restituire nuovamente palla al proprio portiere, ovvero rilanciare lungo a scavalcare il centrocampo, bene ritenne (per noi, naturalmente, un pò meno per loro) di cercare un improbabile suggerimento, ancora per linee orizzontali, ad uno dei due centrali difensivi. La traiettoria che ne seguì fu, invece, un maldestro disimpegno a metà strada fra Oscar e Junior.
Anche qui fu questione di frazioni di secondo : mentre i due si guardavano chiedendosi chi, fra loro, dovesse intervenire a raccogliere quello strampalato suggerimento, Rossi si impadronì, come un falco, della sfera, scavalcò Junior - in ritardo perchè, come detto dianzi, posizionato troppo largo sul versante sinistro della linea di difesa sudamericana - e, appena entro l'area, battè direttamente a rete trafiggendo l'incolpevole Valdir Peres. Eravamo, quindi, di nuovo in vantaggio e, ancora una volta, la situazione si era capovolta a nostro favore. Adesso erano nuovamente i brasiliani a dover fare la partita e potevamo, così, rifiatare.
Come ho gà scritto nel post su Telè Santana, il secondo gol di Rossi al Brasile costituisce una sorta di piccolo compendio della tattica di gioco approntata dal nostro commissario tecnico. Telè Santana, nel solco della migliore tradizione brasiliana, soleva disporre la sua compagine, in fase di possesso palla, molto larga sul terreno di gioco per favorire la creazione di spazi laddove - e questa fu una novità tattica fondamentale - in fase di non possesso palla ordinava ai suoi giocatore di disporsi in formazione serrata per precludere, agli avversari, ampie zone di campo dove poter affondare le proprie incursioni.
Vista dall'alto, dunque, quella compagine disegnava una qual sorta di fisarmonica ; il nostro commissario tecnico, quindi, intuì, correttamente, che se fossimo riusciti a rubare la sfera nella loro fase di possesso palla avremmo potuto sfruttare, a nostro vantaggio, quegli spazi artatamente creati dai nostri avversari e trovarli, così, completamente sbilanciati. Era, certamente, una tattica molto dispendiosa e rischiosa ma, a conti fatti, era davvero l'unica strategia in grado di poterli mettere in serie difficoltà.
I brasiliani avevano palesato, in tutte le esibizioni antecedenti di quel mondiale, una indiscussa superiorità tecnica, tattica e di gioco ed avevano frantumato, sic et simpliciter, ogni compagine che avevano affrontato fino a quel momento utilizzando le soluzioni più svariate.
Contro l'Unione Sovietica, ad esempio, che si era chiusa a riccio nella propria metà campo chiudendo tutti gli spazi, Santana provò, dapprima, ad allargare il fronte del gioco inserendo Paulo Isidoro salvo, poi, ricorrere ai suoi formidabili stoccatori che dalla media, e dalla lunga distanza potevano risultare davvero letali. I due gol alla rappresentativa russa, che capovolsero in favore dei verdeoro l'esito dell'incontro, furono, lo rammenterete spero, due magnifiche soluzioni balistiche a ridosso dei sedici metri di Socrates e di Eder.
D'altro canto se pressati nella loro metà campo i brasiliani potevano, con tre-quattro passaggi al massimo, trasformare una fase difensiva in offensiva e risultare semplicemente devastanti. Il terzo gol rifilato alla Scozia, vanamente protesa in avanti nel disperato tentativo di riequilibrare le sorti del match, era scaturito da appena tre - dico tre ! - disimpegni - Falcao-Socrates, Socrates-Serginho, Serginho-Eder - che avevano colto compeltamente alla sprovvista i britannici.
L'unica tattica, dunque, per poterli mettere in seria difficoltà era quella che approntò Bearzot che fu l'unico commissario tecnico in tutta la kermesse iberica che lesse, al meglio, i punti di forza e di debolezza della Seleçao.
Il secondo gol di Rossi poneva, adesso, una situazione tattica nuovamente ribaltata a nostro favore. Per ridurre, al minimo, il rischio dei tagli dei centrocampisti carioca Bearzot chiese a Graziani di arretrare il proprio baricentro e di stazionare, in fase di non possesso palla, stabilmente sulla linea mediana in maniera tale da poter disporre di un uomo in più nella zona nevralgica del campo. Santana avrebbe potuto, certo, mandare a sua volta, sulla propria linea mediana, un difensore esterno, presumibilmente Junior il più dotato dei due, e giocare con una difesa a tre ma il rischio, enorme, era di esporre la propria linea difensiva, in fase di non possesso palla, alla parità numerica (Leandro-Oscar-Luisinho contro Graziani, Rossi e Conti) ed il commissario tecnico sudamericano era perfettamente consapevole che un repentino cambio di gioco sarebbe potuto essere davvero letale per la propria compagine poichè un eventuale terzo gol azzurro avrebbe chiuso, anzitempo, la partita.
D'altro canto, rammentiamocene, eravamo ancora alla metà del primo tempo e, per effetto della migliore differenza reti, ai verdeoro sarebbe bastato anche un pareggio per passare il turno. Saggiamente, quindi, Telè Santana lasciò immutato il suo assetto continuando, quindi, a giocare con quattro difensori evitando, in tal modo, di ingolfare ulteriormente la zona centrale del campo. D'altro canto anche sui palloni alti ai brasiliani non ne andava bene una perchè Collovati sovrastava, letteralmente, il povero Serginho che, completamente abulico, vagava come uno spettro in mezzo al campo cercando disperatamente di entrare in partita. Probabilmente il commissario tecnico brasiliano avrebbe avvicendato il proprio centroavanti già alla fine del primo tempo se una distorsione alla caviglia non avesse messo fuori gioco proprio il nostro centrale e costretto Bearzot ad un cambio in corsa facendo debuttare il diciassettenne Giuseppe Bergomi.
Con un centrocampo intasato oltremodo ed impossibilitato a tessere le proprie trame sfruttando il gioco aereo, al Brasile non restava altro da fare che tenere palla ed andare al riposo cercando, nella ripresa, di mettere in atto un forcing al fine di riequilibrare l'esito dell'incontro.


Italia-Brasile 3-2 ovvero la consacrazione di Bearzot e la rivincita di Graziani (parte seconda)



L'inizio del secondo tempo fu caratterizzato, com'era da prevedersi, da una partenza fulminea dei sudamericani che presero d'assalto la nostra porta. Telè Santana ruppe gli indugi e schierò una difesa a tre affiancando ai due centrali, Oscar e Luisinho, alternativamente Leandro e Junior. Quando, cioè, Junior svolgeva le mansioni di centrocampista aggiunto Leandro si sistemava in linea con i due centrali ; e viceversa.
Bearzot rispose serrando i ranghi e chiedendo, anche ad Antognoni, di pressare, nei limiti delle sue possibilità, i portatori di palla avversari. In questa fase, dunque, giocavamo con una sorta di 4-5-1 con il solo Rossi che, stabilmente, stazionava in avanti. Ma questo 4-5-1 diveniva, in fase offensiva, una sorta di 4-2-1-3 perchè sia Graziani che Conti andavano a ricoprire, larghissimi, le due fasce ed Antognoni si collocava, grosso modo, sulla medesima perpendicolare di Rossi.
E se è vero, come è vero, che in cattedra salì, senza meno, il nostro portiere protagonista di alcuni interventi spettacolosi come quello su Cerezo ai limiti dell'area di rigore che riportarono, con la memoria, lo scrivente a Monaco dove Zoff si consacrò come, in assoluto, il miglior portiere del mondo, è pur vero che rischiammo, seriamente, di chiudere anzitempo la partita quando il solito Graziani andò a recuperare una palla persa con uno scatto degno di un centrometrista e ribaltò il fronte di gioco trasformando una fase difensiva in offensiva.
Portando palla lungo l'out sinistro e trascinandosi dietro Leandro, Graziani tagliò, ad occhi chiusi, la linea di difesa brasiliana con un suggerimento rasoterra dalla parte opposta dove sopraggiungeva, di gran carriera, Rossi. In quella fase, rammentiamolo, i sudamericani giocavano con una difesa a tre per cui il nostro centroavanti, leggermente decentrato sul versante destro del nostro fronte offensivo, si venne a trovare scevro dall'asfissiante marcatura dell'esterno sinistro difensivo carioca Junior e si presentò, dunque, completamente solo davanti a Valdir Peres. Purtroppo il suo impatto con la sfera non fu dei più felici e mandò, malamente, a lato il pallone. Quando gli azzurri videro sfumare la possibilità di chiudere l'incontro un triste presagio si impadronì di tutta la comitiva azzurra. Chi ha giocato al calcio sa bene quanto, in determinati frangenti, l'aspetto psicologico rivesta un ruolo fondamentale per cui lo scampato pericolo, invece di demoralizzarli, ringalluzzì i nostri avversari che continuarono a macinare gioco seppur in spazi sempre più ristretti. Le nostre linee, ora, erano serratissime e i brasiliani stentavano a trovare spazi consoni per impostare una manovra adeguata. Graziani e, soprattutto, Bruno Conti - il più dotato tecnicamente di tutta la comitiva azzurra - cercarono, tenendo palla, di far rifiatare e risalire la squadra. Ma a quel punto subentrò, per così dire, la malasorte ad infierire contro di noi aiutata, ahinoi, da un disgraziatissimo errore di posizionamento di Scirea. Quando Falcao, profittando di un taglio verso l'interno di Toninho Cerezo, fintò il passaggio al compagno di squadra sbilanciò, naturalmente, Cabrini - che andò, correttamente, a coprire lo spazio alle sue spalle - e, mi pare, Tardelli ma disorientò, purtroppo, anche Scirea - che, invece, non avrebbe dovuto abboccare al tranello del fuoriclasse della Roma - trovandosi, così, davanti, seppure a ridosso del limite dell'area di rigore, la nostra porta spalancata.
Zoff intuì immediatamente le intenzioni del brasiliano e fece, saggiamente, quei tre passi avanti per chiudergli lo specchio della porta intuendo persino la direzione del tiro che avrebbe scoccato Falcao e lanciandosi una frazione di secondo prima del dovuto. Il nostro capitano aveva letto, e bene aggiungo, prima degli altri la prosecuzione dell'azione e avrebbe, senza meno, respinto a pugni chiusi la conclusione del brasiliano.
Purtroppo, la malasorte di cui sopra, si intromise Bergomi che sfiorò, in maniera quasi impercettibile, la sfera quel tanto che bastava, però, ad imprimerle una traiettoria arcuata leggermente diversa da quella prevista dal nostro portiere che vide scivolare, beffardamente, il pallone una ventina di centimetri al di sopra del suo braccio proteso senza, a quel punto, poter rimediare in alcun modo. In quei frangenti sembrò, davvero, che il mondo ci cascasse addosso. Il flemmatico Zoff perse le staffe e, platealmente, mandò alla berlina i suoi compagni di reparto che avevano resa lesiva una azione di gioco altrimenti velleitaria.
Eravamo al 68' minuto e, contestualmente alla ripresa del gioco, Telè Santana effettuò la prima, ed unica, sostituzione di tutto l'incontro inserendo Paulo Isidoro al posto dello spento Serginho.
La motivazione di questo avvicendamento va ricercata nel fatto che la panchina brasiliana aveva già comunicato, al quarto uomo, l'intenzione del commissario tenico sudamericano di procedere alla sostituzione del centroavanti carioca prima ancora, quindi, della marcatura di Falcao quando, cioè, eravamo ancora in vantaggio per 2 ad 1. A quel punto, il regolamento F.I.F.A. dell'epoca parlava chiaro, non era ammessa la possibilità di rinunciare a quella sostituzione programmata e Santana imprecò, certamente, alla malasorte perchè se avesse potuto sarebbe ritornato, senza meno, sui suoi passi. L'inserimento di una punta di movimento come Paulo Isidoro rispondeva, infatti, ad una logica tattica che presupponeva un forcing finale e non la gestione del pallone. L'ingresso di Paulo Isidoro avrebbe comportato lo spostamento di Socrates dalla mediana alla prima linea nella mansione di prima punta. Ma adesso, dopo aver agguantato il pareggio ed in previsione di una tattica attendista, perdere un fine palleggiatore dalla linea centrale del campo sarebbe stato un suicidio tattico.
Il commissario tecnico brasiliano, quindi, ordinò a Paulo Isidoro di giocare come punta centrale lasciando Socrates a centrocampo perdendo, però, un uomo di peso e, soprattutto, di riferimento per tutta la compagine ed ebbe a dolersene, a posteriori, perchè la nostra squadra, dopo il pareggio di Falcao, andò disunendosi. Paulo Isidoro era un brevilineo e non poteva, in alcun modo, difendere il pallone come Serginho nè costituire, alla stregua del compagno, un riferimento costante agli eventuali rilanci lunghi dalle retrovie che, presumibilmente, i brasiliani avrebbero potuto effettuare per rifiatare e far risalire la squadra e nè, tantomeno, consentire di sfruttare, adeguatamente, il gioco aereo. Il pareggio di Falcao fu per gli azzurri una doccia scozzese perchè, le componenti psicologiche di cui sopra, avevamo dissipato una possibilità più unica che rara di archiviare la partita soltanto pochi minuti prima mentre, adesso, non solo eravamo fuori dal mondiale ma avremmo dovuto cercare, in qualche modo, di rimediare in poco più di un quarto d'ora e ci furono, dunque, cinque/sei minuti scarsi nei quali i nostri giocatori andarono, davvero, alla deriva. I brasiliani, sentendo prossimi il colpo del knock-out definitivo, tennero sapientemente palla ma invece di addormentare il gioco cominciarono a premere la nostra retroguardia in palese affanno. Un tiro di Zico dalla distanza, un'altra conclusione di Falcao appena fuori area, d'altronde, ci fecero presagire il peggio.
A questo punto Bearzot aveva a disposizione due strade : la prima era quella di rischiare il tutto per tutto ed inserire una terza punta - Altobelli presumibilmente - a supporto di Rossi e Graziani. Ma modificando l'assetto tattico in una chiave maggiormente spregiudicata avrebbe fatto il gioco dei sudamericani che, a quel punto, con un uomo in più in mezzo al campo avrebbero potuto, con maggiore facilità, far girare il pallone e colpirci nelle ripartenze. L'altra strada era quella di preservare la medesima disposizione avvicendando un centrocampista, magari di contenimento, al posto di Oriali o Tardelli riservandosi, eventualmente, di rischiare il tutto per tutto solamente negli ultimi dieci minuti finali.
L'obiettivo del nostro commissario tecnico era triplice : inserire forze fresche, da un lato, far respirare la squadra che, in quei frangenti, era andata nel pallone, dall'altro, e ristabilire, infine, le corrette distanze fra i reparti visto che la nostra squadra si era pericolosamente allungata creando spazi enormi dove i brasiliani avrebbero potuto, con estrema facilità, inserirsi e divenire letali.
Bearzot, dunque, scelse, oculatamente, questa strada e la scelta, comunicata al terzo uomo, ricadde su Marini, centrocampista di contenimento dotato, nel contempo, di un discreto tiro dalla distanza che avrebbe dovuto prendere il posto di Tardelli, stremato, il quale era apparso meno lucido ed incisivo rispetto alla partita contro l'Argentina dove aveva dominato il centrocampo. Fortuna volle che, prima dell'avvicendamento, fosse proprio Tardelli ad incocciare, appena fuori dall'area di rigore, un fendente che, opportunamente corretto da Rossi un metro e mezzo al di qua della linea di porta, ci consentì di segnare il terzo gol e di aggiudicarci la partita. Da un disimpegno promosso dal sempiterno Graziani, un colpo di testa all'indietro di Cerezo - il quale, presumibilmente, aveva intenzione di servire il proprio portiere per alleggerire la manovra - terminò oltre la linea di fondo regalandoci un insperato calcio d'angolo in un momento nel quale, oggettivamente, non avevamo energie fisiche e nervose da spendere. E dagli sviluppi di quel calcio da fermo trovammo, fortunosamente per la verità, il terzo gol. A quel punto l'inserimento di Marini, al posto proprio di Tardelli, era una mossa ancor più indovinata visto che la situazione tattica si era, nuovamente, capovolta a nostro favore.
A conti fatti, dunque, Bearzot vinse il duello nei confronti di Santana proprio perchè indovinò i cambi. Santana, va detto, fu sfortunato perchè se avesse atteso cinque minuti in più non avrebbe mutato nulla del suo assetto tattico oppure avrebbe inserito un attaccante centrale di peso, non agile dunque, come Roberto Dinamite.
Il 2 a 3 invece gli scombussolò alquanto i piani ; costretto, ancora una volta, ad inseguire fece di necessità virtù spostando Paulo Isidoro sulla fascia destra in guisa di ala tornante e schierando Socrates come prima punta centrale. Il suo obiettivo era quello di creare, a destra, una superiorità numerica con Leandro, Cerezo e Paulo Isidoro, appunto, nonchè allargare il fronte del gioco e le maglie della nostra difesa. Tutto si sarebbe aspettato, credo, salvo che Graziani, ancora lui, retrocedesse sulla linea dei difensori e svolgesse la funzione di esterno difensivo aggiunto ristabilendo la parità numerica.
A quel punto salì in cattedra Bruno Conti che si sobbarcò, da solo, il peso di far respirare tutta la squadra che serrò i ranghi, ed i denti, in previsione del forcing finale furibondo dei sudamericani che, naturalmente, non si fece attendere.
Eppure, anche in quei frangenti, riuscimmo a trovare, profittando dello schieramento a tre della linea difensiva carioca, un gol, regolarissimo, di Antognoni che avrebbe archiviato definitivamente il match. Purtroppo un errore, grossolano, del collaboratore di linea dell'arbitro Klein indusse il direttore di gara ad annullare la marcatura.
Gli ultimi minuti furono al cardiopalma e soltanto un fantastico - l'ennesimo - intervento di Zoff, su colpo di testa di Oscar, riuscì ad impedire, ai carioca, di riagguantare ancora una volta quel pareggio che avrebbe significato la nostra eliminazione. A quel punto, credo, un pareggio sarebbe suonato come una beffa.
A distanza di quasi trent'anni ritengo che l'Italia abbia meritato la vittoria ; è pur vero, però, che se il Brasile fosse riuscito ad agguantare il pareggio non si sarebbe potuto, nella maniera più assoluta, parlare di furto comminato ai danni della nostra rappresentativa : beffa, magari, si ma furto proprio no.
Italia-Brasile costituisce l'archetipo di un incontro fra due compagini molto diverse fra loro nel modo di intendere e di giocare il calcio ma entrambe, seppur in modalità alquanto differenti, spettacolari.
L'arma in più fu, dalla panchina, proprio la sapiente direzione tecnica di Bearzot che si aggiudicò la tenzone con Telè Santana al quale va dato, però, l'onore delle armi.
L'arma in più sul campo fu, invece, Francesco Graziani.
E quell'incontro se, da un lato, sugellò la consacrazione delle qualità di stratega del nostro commissario tecnico dall'altro regalò proprio a Graziani quella sorta di rivincita che il giocatore aveva atteso quattro, lunghissimi, anni.

lunedì 3 gennaio 2011

L'antieroe Enzo Bearzot, un piccolo omaggio ad un grande commissario tecnico (parte seconda)

La via crucis di Vigo



I Mondiali di Spagna sono stati, ampiamente, snocciolati nel corso di tutti questi anni ma solo sotto un profilo squisitamente sportivo e, assai di rado, tattico. Obnubilati dalla conquista del titolo mondiale non ci si è chiesti il perchè la nostra compagine, tecnicamente una squadra di seconda fascia, sia riuscita a laurearsi campione del mondo ed a mettere in riga l'Argentina, campione del mondo uscente, ed il favoritissimo Brasile. Lascia, oltremodo, sconcertati la mera considerazione che l'Italia campione del mondo dell'82 era la stessa identica squadra che, non più tardi di una ventina di giorni prima, aveva miseramente impattato contro il modesto Cameroon tirandosi dietro le reiterate critiche di tutti i mezzi di informazione.
Si è detto, e scritto, che questa metamorfosi fu merito della esplosione di Paolo Rossi e l'encomio riservato al nostro commissario tecnico fu quello di aver creduto ciecamente, contro tutto e tutti e fuori da ogni logica sportiva, nel nostro centroavanti. A ben vedere, dunque, l'opera bearzottiana viene, ancora una volta, miseramente relegata a quei valori umani citati dalla agenzia Ansa e riportati all'inizio di questa disamina.
Stupidaggini, castronerie, scempiaggini dettate dall'acredine e dalla malafede di un novero di mascalzoni !
La nostra affermazione a quella kermesse mondiale è stata, di contro, la consacrazione dello stratega Enzo Bearzot che vinse, prima di tutto e tutti, tatticamente gli incontri con le compagini sudamericane.
Ma la nostra affermazione prende piede proprio da Vigo e dalla scelta di Bearzot di impostare una preparazione fisica affatto diversa da quella svolta ai mondiali di quattro anni prima. Il girone nel quale capitammo, del resto, ce lo potè consentire : accanto alla Polonia ci toccarono il modesto Perù e l'incognita Cameroon anche se questa compagine era, in realtà, tale soltanto per i non addetti ai lavori. Bearzot chiese, ed ottenne, di presenziare agli incontri amichevoli preparatori della squadra africana e si rese, immediatamente, conto che la compagine cameroonense era un avversario davvero temibile che coniugava una eccellente tecnica di base ad una potenza fisica impressionante ma che giocava un calcio alquanto cadenzato, tipicamente sudamericano per intenderci, connotato da improvvise accelerazioni. Queste motivazioni indussero, quindi, il nostro commissario tecnico a concordare con lo staff medico una preparazione atletica imperniata sul potenziamento della massa muscolare dei nostri atleti aumentando, esponenzialmente, i carichi di lavoro durante tutta la prima fase.
Bearzot, dunque, contava di avere una squadra meno brillante, fisicamente, nella prima parte del torneo ma, parimenti, in grado di superare il turno facendo leva sul fatto che sia il Perù che il Cameroon - che, in quella fase, sarebbero state, senza meno, assai più avanti nella preparazione - giocavano un calcio connotato da ritmi blandi riservandosi, dunque, nella seconda fase del mondiale di giocarsi le sue carte coniugando alla tecnica di base dei nostri giocatori, discreta, una condizione fisica ottimale.
Anche la dea bendata, questa volta, ci venne in soccorso assegnandoci la Polonia nell'incontro di apertura. Era, oltremodo, prevedibile che le due compagini, sulla carta le più accreditate a passare il turno, sottoscrivessero un tacito patto di non belligeranza chiudendo a reti bianche il primo incontro. Il risultato fu, infatti, uno scialbo 0 a 0.
Con il Perù, invece, giocammo un eccellente primo tempo ma crollammo miseramente nella ripresa. Avevamo, naturalmente, il fiato corto e soffrimmo maledettamente per tutti i secondi quarantacinque minuti. Il pareggio dei sudamericani, per quanto fortuitamente conseguito a seguito di uno sfortunato autogol di Collovati, fu ampiamente meritato. Contestualmente, però, la Polonia subì le pene dell'inferno per uscire indenne dallo scontro con il Cameroon che dominò in lungo e in largo i polacchi per tutti i novanta minuti. Furono, solamente, le reiterate prodezze di Józef Młynarczyk, l'estremo difensore polacco, ed i legni della sua porta che impedirono agli africani di aggiudicarsi, più che meritatamente, quell'incontro che terminò, parimenti, 0 a 0.
Peccato davvero che quei sedicenti giornalisti dianzi menzionati, quel crocchio di prezzolati lestofanti, non abbiano mai posto in risalto questo aspetto sicchè quando anche noi impattammo con gli africani, giocando tutt'altra partita, spararono a zero sulla Nazionale, sul nostro calcio e, naturalmente, su Enzo Bearzot. Fu, in ambito sportivo, un linciaggio mediatico senza precedenti secondo, solamente, a quello che patì il povero Marco Pantani quando le analisi gli riscontrarono un ematocrito fuori norma. Quando, infine, le critiche della carta stampata presero una piega morbosa insinuando presunte simpatie omosessuali fra Rossi e Cabrini la squadra decise di intraprendere il silenzio stampa delegando, ironia della sorte, il più laconico fra tutti i suoi componenti, il nostro capitano Dino Zoff, alle pubbliche relazioni. I giornalisti scrissero, a posteriori, che quella scelta, dettata dalle critiche della stampa, fu la chiave di volta del cambio di passo della squadra quasi a voler suggerire, al lettore, che una parte del merito della conquista del titolo mondiale potesse, seppur indirettamente, ascriversi proprio a loro.
Questi signori avevano - ed hanno... è una componente transgenica della categoria, evidentemente - una faccia simile ai loro deretani ma, avvezzi a destreggiarsi con le parole, hanno, lo riconosco, il pregio di cadere, seppur rumorosamente, sempre in piedi.
Il cambio di passo va ascritto interamente, invece, proprio alla preparazione fisica di cui sopra. Nella seconda fase del torneo, infatti, la nostra squadra veniva fuori, sistematicamente, proprio nei secondi tempi.
Con l'Argentina chiudemmo a reti bianche il primo tempo e vincemmo 2 a 1 il secondo.
Con il Brasile chiudemmo in vantaggio il primo tempo 2 a 1 e pareggiammo 1 a 1 nella ripresa anche se, in realtà, avremmo, parimenti, vinto anche il secondo tempo se un grossolano errore del collaboratore di linea dell'arbitro Klein non avesse annullato un regolarissimo gol di Antognoni.
Con la Polonia, in semifinale, vincemmo 1 a 0 nel primo ed 1 a 0 nel secondo tempo.
Con la Germania, infine, chiudemmo a reti bianche i primi quarantacinque minuti per dilagare nella seconda frazione di gioco ed aggiudicarci la finale per 3 a 1.
Avevamo, cioè, più fiato degli altri.
Giusto, oltremodo, qualche numero ad avallare quanto riportato sopra : nella prima fase, quella di Vigo, al termine dei primi quarantacinque minuti l'Italia aveva conseguito, complessivamente, due pareggi - con Polonia e Cameroon - ed una vittoria contro il Perù ottenendo, ipoteticamente, quattro punti (la vittoria allora, rammentiamolo, dava diritto ai canonici due punti).
Nei secondi quarantacinque minuti, invece, l'Italia aveva conseguito due pareggi - sempre contro Polonia e Cameroon - ed una sconfitta contro il Peru ottenendo così, sempre ipoteticamente, la miseria di soli due punti.
Questo significa, dunque, che la nostra Nazionale aveva fatto registrare uno score di 1,3 punti al termine della prima frazione di gioco e di, appena, 0,6 punti nella seconda frazione.
Nella seconda fase, invece, al termine del primo tempo gli azzurri avevano ottenuto due pareggi - contro l'Argentina e la Germania - e due vittorie contro la Polonia ed il Brasile conseguendo, così, sei punti e facendo registrare uno score di 1,5 punti partita laddove, nei secondi tempi, avevano conseguito tre vittorie - Argentina, Polonia e Germania - ed un solo pareggio con il Brasile ovvero sette punti ed un conseguente score di 1,75 punti partita rischiando di fare, addirittura, l'en plein di otto punti su otto fatto salvo l'errore, menzionato dianzi, in merito all'annullamento del gol di Antognoni contro i brasiliani.
Se noi, adesso, raffrontiamo questi score fra di loro possiamo notare che mentre nella prima frazione di gioco lo scostamento dei valori fra la prima fase, quella di Vigo per intenderci, e la seconda è minimo e si attesta su un valore pari a 0,2 punti partita quello dei secondi tempi, invece, è assai più marcato e si attesta, viceversa, nell'ordine di 1,15 punti partita. E questi numeri avallano, più di qualsiasi argomentazione, una discrasia di rendimento che può ricondursi, unicamente, alle considerazioni dianzi menzionate attinenti la preparazione fisica impostata sin dal ritiro di Vigo e che fuga il campo, dunque, da presunte ingerenze della carta stampata, dei commentatori e degli opinionisti sportivi relegando la loro funzione alla considerazione che, di loro, aveva il nostro commissario tecnico ovvero allo zero assoluto.
E quei giocatori che della dinamicità e dello scatto breve facevano la loro caratteristica predominante e che apparvero alquanto in ombra nella prima fase esplosero, letteralmente, nel prosieguo della competizione : Rossi, Tardelli e Cabrini su tutti.
Ed avvezzi, come solo noi italiani sappiamo essere, a celebrare i protagonisti principali abbiamo, purtroppo, obnubilato i meriti di coloro i quali portarono la croce sul Golgota di Vigo. Io resto convinto, a distanza di quasi trent'anni oramai, che l'artefice principale sul campo del miracolo italiano di Spagna resti, a dispetto di quanto si creda, un co-protagonista quasi misconosciuto di quella spedizione ovvero Francesco Graziani.


Il cambio di marcia degli azzurri



Il secondo posto, conseguito alle spalle della Polonia nel girone di Vigo, ci fece approdare nel minigirone a tre in compagnia di Argentina e Brasile. La compagine biancoceleste, campione del mondo uscente, era, sostanzialmente, sovrapponibile, quanto a tasso tecnico, a quella di quattro anni prima con l'aggiunta, però, del talento nascente Diego Maradona. Ma, oggettivamente, presentava alcune lacune gravi che soltanto la compiacenza delle direzioni arbitrali del 1978 avevano, spensieratamente, occultato.
Innanzi tutto la mancanza di due esterni realmente incisivi che consentissero di allargare il fronte del gioco ; ed, in second'ordine, la presenza di un solo centrocampista puro di interdizione ovvero Ardiles. Quattro anni addietro Ardiles era stata l'anima della squadra, prossima campione del mondo, nonchè, senza meno, uno dei giocatori più brillanti, e tatticamente preziosi, di tutta la rassegna mondiale sudamericana. Brevilineo e dotato di uno scatto bruciante, coniugava una eccellente tecnica di base ad una ottima visione di gioco ; fortissimo, inoltre, in fase di interdizione riusciva a ribaltare, repentinamente, il fronte di gioco trasformando una fase difensiva in offensiva. Giocatore energico, ma correttissimo, Ardiles fu, credo, l'unico che non trascese mai l'ambito prettamente sportivo della manifestazione mondiale in Argentina. I suoi contrasti, anche ruvidi, riflettevano, però, brillantemente il puro stile anglosassone contrassegnato da estrema lealtà. Quando i suoi compagni di squadra respirarono, nitidamente, il clima di assoluta impunità che avrebbe contrassegnato la direzione delle terne arbitrali cominciarono a sbizzarrirsi negli interventi più sporchi e biechi. In occasione della finale tra Argentina ed Olanda, ad esempio, il libero sudamericano Daniel Passarella spaccò, con una gomitata, due incisivi all'olandese Neskeens dopo pochi minuti di gioco sotto lo sguardo compiacente del direttore di gara, l'italiano Sergio Gonella, che fece finta di non vedere salvo, poi, ricorrere, immediatamente, al cartellino giallo per sanzionare un normale contrasto di gioco del giocatore olandese Poorvliet. Per non citare, poi, le ignobili sceneggiate di Mario Kempes & co. che, appena toccati dagli avversari, si rotolavano furiosamente come in preda a crisi epilettiche.
Ecco, Ardiles questo contegno su un campo di gioco non lo ha mai avuto riflesso, forse, proprio della sua militanza nel campionato britannico.
Un gentleman, insomma.
Ma in Spagna arrivò in condizioni di forma approssimative e, lasciato praticamente da solo in mezzo al campo, non riusciva più a coprire quegli spazi allegramente lasciati dai suoi compagni di squadra agli avversari. La prima mossa di Bearzot fu quella di affrancare Tardelli dalla marcatura di Maradona e posizionarlo nella zona mediana presidiata proprio da Ardiles limitando, in tal modo, il raggio di azione dell'argentino e puntando, nelle ripartenze, nell'uno contro uno. Ardiles, lo abbiamo detto poc'anzi, era un brevilineo dotato di uno scatto bruciante ma negli spazi larghi Bearzot era, oltremodo, convinto che la progressione di Tardelli avrebbe avuto la meglio.
Fu una intuizione vincente : tatticamente parlando quell'incontro fu deciso, sostanzialmente, proprio dal duello Tardelli-Ardiles.
Fin quando il fiato supportò l'argentino, Ardiles riuscì, in qualche modo, a contenere le spinte propulsive dell'azzurro. Ma nel secondo tempo la migliore condizione fisica di Tardelli, congiuntamente all'avventata disposizione sul campo della squadra campione del mondo allestita dal tecnico argentino Menotti, fece la differenza.
Quanto a Maradona, Bearzot pensò bene di affibbiargli alle calcagna Claudio Gentile che lo seguiva, pedissequamente, in ogni zona del campo. Francobollato a quel modo a Maradona non restava altro da fare che arretrare il proprio baricentro per cercare di risucchiare, fuori dalla linea difensiva, l'azzurro favorendo, con ciò, l'inserimento dei centrocampisti da dietro.
Ma, incredibilmente, questo non avvenne !
Per tutta la durata dell'incontro Maradona stazionò, staticamente, da prima punta e nè a lui, talento incommensurabile ma tatticamente acerbo, nè, tantomeno, a Menotti venne in mente di applicare questa semplice contromossa che avrebbe costretto Bearzot ad allestire una estemporanea gabbia a zona a ridosso della propra linea difensiva sacrificando, di volta in volta, Oriali, Tardelli e Conti oppure a dirottare, nuovamente, il solito Tardelli nella marcatura del fuoriclasse sudamericano perdendo, però, nel contempo l'unica spinta propulsiva in grado di ribaltare, repentinamente, il fronte del gioco.
Perso nelle sue oscure elucubrazioni mentali volte a dirottare Bertoni dalla fascia destra a quella sinistra nella speranza, vana, di affrancare l'argentino dalla marcatura asfissiante di Cabrini, il commissario tecnico argentino non riuscì, nel modo più assoluto, a leggere la partita.
Penso che, avocando la circonvenzione di incapace (leggi Menotti), un giudice avrebbe potuto, a tavolino, revocare il risultato e costringere i ventidue a rigiocare l'incontro ad armi pari.
Ma la differenza sostanziale fra le due compagini era, per l'appunto, la direzione tecnica. Bearzot proveniva dalla più grande Università del calcio che era Coverciano.
Menotti era, sostanzialmente, un parvenu delle panchine.
La sostanziale differenza è tutta qui.
Il primo tempo si chiuse a reti bianche e fu, oggettivamente, un incontro alquanto noioso e, per certi versi, bloccato. Ma nel secondo tempo venne fuori la maggiore freschezza degli azzurri che cominciarono a coprire il campo pedissequamente creando, sistematicamente, superiorità numerica in tutte le zone nevralgiche del campo. Impressionanti furono, ad esempio, il novero delle sovrapposizioni di Cabrini lungo l'out sinistro ; Bertoni, ala di punta, non riuscendo fisicamente a stargli dietro lasciò ad altri il compito di coprire quella zona di campo. Ad altri significava, sostanzialmente, ad Ardiles.
Ma anche l'argentino aveva i suoi grattacapi a cercare di imbrigliare Tardelli ed alla fine andò in riserva. Con il dominio assoluto del centrocampo Bearzot continuò a lasciare lo sterile possesso della palla agli avversari favorendo, in tal modo, la apertura di spazi alle spalle della linea mediana di campo onde sfruttare, al meglio, le ripartenze dei nostri centrocampisti - Tardelli, appunto, e lo stesso Oriali - e di Bruno Conti.
La mobilità di Rossi e di Graziani fece il resto.
Maradona, completamente fuori dal gioco, si spense progressivamente e tutta l'Argentina, con la sola eccezione di Passarella, perse la bussola. Un altro commissario tecnico sarebbe corso, e repentinamente aggiungo, ai ripari togliendo, magari, un attaccante ed inserendo un centrocampista di contenimento nonchè arretrando il baricentro di Maradona e provando, con un esterno, ad allargare le maglie della difesa azzurra. Menotti, invece, lasciò che l'Argentina perpetuasse le sue trame offensive nella zona centrale del campo finendo, per così dire, imbottigliato ed offrendo il destro alle ripartenze degli azzurri.
Soltanto una punizione a due, erroneamente interpretata dalla terna arbitrale che consentì a Passarella di battere direttamente a rete sorprendendo Zoff e tutta la retroguardia azzurra, e la dabbenaggine di Bruno Conti il quale, a tu per tu con l'estremo argentino Ubaldo Fillol, tentò di scavalcarlo con un improbabile e blando pallonetto non consentirono all'Italia di chiudere, serenamente, l'incontro molto prima del novantesimo facendoci vivere, come palpitanti, gli ultimi minuti nei quali, perso per perso, i campioni del mondo uscenti si buttarono allo sbaraglio rischiando il tutto per tutto.
La vittoria, comunque, fu ampiamente suffragata dal gioco espresso, dalle occasioni da goal create e dalla impostazione tattica di Bearzot che lesse, al meglio, l'incontro sin dalla antivigilia quando, bluffando, fece intuire ai suoi interlocutori che avrebbe marcato, ad uomo, Maradona ricorrendo al sempiterno Tardelli.
L'entusiasmo per la nostra affermazione contro i campioni del mondo uscenti scemò, però, repentinamente quando l'Argentina affrontò i verdeoro di Telè Santana.
Se l'Italia dominò, essenzialmente nella ripresa, l'Argentina, il Brasile, letteralmente, la annichilì.
Giocando quasi in surplace i carioca, a metà della seconda frazione di gioco, avevano già rifilato tre palloni agli, oramai, ex campioni del mondo palesando una organizzazione di gioco davvero fuori ordinanza. E per via della differenza reti per accedere alle semifinali ci occorreva, esclusivamente, una vittoria. Era pur vero che quel Brasile qualche punto debole lo aveva ma era, altresì, vero che a guidarlo c'era un commissario tecnico di statura internazionale. Bearzot avrebbe avuto, così, pane coriaceo per i suoi denti perchè, a differenza di Menotti, Telè Santana era davvero un allenatore preparato che soleva studiare l'avversario prima di disporre in campo la sua compagine.
Il nostro commissario tecnico era, dunque, consapevole che contro i verdeoro non avrebbe potuto giovarsi dell'elemento sorpresa e avrebbe dovuto ripianificare, in parte, la sua strategia.



Il Brasile di Telè Santana ovvero la quintessenza del gioco del calcio



Risulta, oltremodo, difficile disquisire su quella che fu, allegoricamente, la vera finale della edizione dei campionati del mondo in Spagna. Italia-Brasile resta, a giudizio di chi scrive, la più bella ed entusiasmante partita mai giocata dalla nostra nazionale seconda, soltanto, alla celeberrima Italia-Germania dello stadio Azteca ma con la sostanziale differenza che mentre in Messico le emozioni si concentrarono nei due tempi supplementari, complice la stanchezza delle due compagini, qui, a Barcellona, le fasi salienti si svilupparono nei soli novanta minuti e fu, da un punto di vista squisitamente tattico, un incontro ancora più emozionante.
Lo abbiamo letto dianzi : la nostra squadra si presentava, certo, forte del successo contro i campioni del mondo uscenti ma, nel contempo, raffreddata dalla speculare affermazione dei verdeoro di Santana contro la medesima rappresentativa e, soprattutto, dalla modalità con la quale il Brasile aveva liquidato il team di Menotti.
La Seleçao si era sbarazzata dell'Argentina quasi come di una fastidiosa marginalità giocando in surplace su ritmi blandi e regolando la pratica biancoceleste alla stregua di un mero incontro di allenamento.
L'epitaffio della debacle argentina fu rappresentata, metaforicamente, dalla espulsione di Maradona che perse completamente la testa rifilando, a palla lontana, un calcio allo stomaco al centrocampista brasiliano Batista.
In quel calcio, davvero un brutto gesto, sanzionato naturalmente con un rosso diretto (non si giocava, allora, sotto l'egida del regime criminale di Videla), c'era tutta la rabbia, l'amarezza e la frustrazione di vedersi piovere addosso tutta la propria impotenza.
L'Argentina fu, sic et simpliciter, annichilita dalla compagine di Telè Santana come non le era mai capitato da quattro anni a quella parte. Il terzo gol carioca di Junior, su passaggio di Zico, fu una vera e propria lezione di calcio accademico e fu, per costruzione, il più bel gol di tutta la rassegna iberica.
Quando gli azzurri, comodamente seduti in albergo, assistettero all'incontro furono presi dallo sconforto ; e non senza ragione, naturalmente.
A posteriori possiamo, senza meno, affermare che quel Brasile è stato uno dei più belli - forse il più bello - e più forti di sempre secondo, soltanto, a quello del '58 e forse ancora più forte di quello del '70.
Una compagine dotata di un altissimo tasso tecnico - basti pensare che Junior era costretto a giocare da esterno difensivo sinistro - equilibrata ed ottimamente disposta in campo da uno dei migliori, e più sfortunati, commissari tecnici brasiliani di sempre, Telè Santana, recentemente scomparso e colpevolmente dimenticato.
Quella squadra faceva del possesso palla il suo punto di forza secondo una filosofia, tutto sommato, elementare : se il pallone lo hai tu gli avversari non possono nuocerti in alcun modo. Per cui, secondo le migliori tradizioni sudamericane, il gioco del Brasile era caratterizzato da una fitta serie di passaggi per linee orizzontali - quasi a tessere una sorta di ragnatela - per, poi, partire con improvvise verticalizzazioni che solevano tagliare le linee avversarie profittando degli inserimenti da dietro dei centrocampisti - Socrates, Falcao, Cerezo, lo stesso Eder che era una punta atipica - ovvero degli esterni per allargare il fronte del gioco - Junior, Leandro - con accelerazioni micidiali che mettevano in ambasce le retroguardie rivali che si vedevano arrivare contro, come saette, frotte di giocatori in ogni zona del campo.
Se il Brasile faceva del gioco rasoterra il suo punto di forza, Santana non poteva tralasciare quello aereo : l'inserimento, nel novero degli undici titolari, di un centroavanti come Serginho rispondeva, appunto, a questa necessità perchè per quanto statico, e tecnicamente non eccelso, il giocatore aveva una forza fisica impressionante e permetteva, alla compagine, di avere un punto di riferimento costante in ogni momento ed in ogni zona del campo.
Se in affanno, dunque, i giocatori brasiliani potevano, ad occhi chiusi, rilanciare verso la trequarti di campo sapendo, a priori, che in quella zona stazionava proprio Serginho il quale, in virtù della sua mole possente, avrebbe potuto raccogliere e difendere il pallone consentendo alla squadra di rifiatare e risalire il rettangolo di gioco.
Ma le frecce nella faretra di Santana non si limitavano a queste due soluzioni ; in caso di spazi chiusi e di difese, oltremodo, abbottonate, la presenza di Zico e di Eder gli consentiva di disporre di due stoccatori, per quanto diversissimi fra loro, a dir poco formidabili.
Eder era un'ala tornante atipica in grado di svolgere il ruolo di punta esterna e, nel contempo, di ala tornante. Mancino naturale e molto forte fisicamente, Eder era dotato di una accellerazione impressionante e, in particolar modo, di un tiro dalla distanza devastante. Basti pensare che le sue stoccate arrivarono a raggiungere i centodieci - dico 110 ! - chilometri orari.
Quanto a Zico, infine, basti dire che era uno di quei giocatori che potevano, in qualunque momento, fare la differenza. Il brasiliano rientrava nel novero di quei fuoriclasse che, insieme a Maradona e pochissimi altri, hanno contrassegnato gli anni '80, in grado, in qualunque momento, di vedere la porta come pochissimi altri e di svolgere la dupice funzione di finalizzatore e rifinitore. In quegli anni, anzi, Zico era una spanna, almeno, avanti allo stesso Maradona in quanto era nel pieno della sua maturità agonistica e, rispetto all'argentino, ha sempre avuto una intelligenza tattica che lo faceva risultare decisivo financo quando, apparentemente, si marginalizzava dal fulcro del gioco. Zico, inoltre, era un magistrale battitore da fermo. Le sue punizioni dal limite erano una sorta di calci di rigore con handicap, leggi barriera, che soleva scavalcare nei modi più disparati ed, insieme a Maradona e Platini, il brasiliano era il miglior realizzatore di calci da fermo del mondo. Ma quel Brasile disponeva, altresì, di altri due formidabili battitori : il già citato Eder, impiegato quando il calcio di punizione diretto veniva sanzionato ad una trentina e passa di metri dalla linea di porta, e l'esterno sinistro Junior.
Di Junior ho scritto, sopra, che era costretto a giocare come esterno difensivo sinistro. Nella sua squadra di club, il Flamengo, il brasiliano stazionava, infatti, centralmente davanti alla difesa svolgendo la funzione di regista arretrato ; una mansione, questa, che riprese quando venne a giocare in Italia. Ma in quel team stellare il ruolo di centromediano metodista veniva svolto, essenzialmente, da Paulo Roberto Falcao, la stella della Roma di Neils Leidholm, oppure, in alternativa, da Toninho Cerezo per cui Santana lo relegò ad esterno difensivo di fascia sinistra profittando della peculiarità del giocatore che era un formidabile ambidestro. Tecnicamente completo e dotato di una eccellente visione di gioco, il brasiliano interpretò al meglio questo suo nuovo ruolo sia in fase di interdizione che di proposizione.
Quanto ai tre centrocampisti naturali carioca, Falcao, Socrates e Cerezo, basti sottolineare che erano, praticamente, intercambiali tant'è che Santana li faceva, pedissequamente, ruotare all'interno della zona mediana del campo per non dare punti di riferimento agli avversari. Il centrocampo brasiliano si posizionava seguendo uno schema, grosso modo, romboidale con Falcao al vertice basso del rombo - nella posizione classica del centromediano metodista - laddove Toninho Cerezo copriva l'angolo destro svolgendo, quindi, mansioni di esterno di centrocampo mentre il capitano Socrates soleva partire da sinistra e tagliare verso l'angolo opposto ma godeva di una sostanziale libertà di movimento per cui si proponeva, talora, come centrocampista aggiunto - specialmente nella fase di non possesso palla - talaltra come interno puro, talaltra ancora come seconda punta o trequartista ed, infine, financo come prima punta. Per quanto la sua esperienza italiana sia stata fallimentare, Socrates è stato, senza meno, in assoluto uno dei giocatori più tecnici che il Brasile, nella sua storia secolare, abbia mai espresso per cui contingentarlo in determinate aree del campo sarebbe stato, semplicemente, ridicolo onde per cui il capitano godeva della massima fiducia del commissario tecnico. D'altra parte Socrates era, a dir poco, temibilissimo quando soleva tagliare, con inserimenti da dietro, le linee difensive avversarie proponendosi come attaccante aggiunto poichè, pur non essendo particolarmente veloce, leggeva prima di tutti gli altri gli sviluppi del gioco per cui, sistematicamente, si collocava al posto ed al momento giusto un attimo prima degli avversari. Ed era, infine, molto forte anche nel gioco aereo supplendo, in taluni casi, anche alla funzione di centroavanti boa.
Ma, al di là delle caratteristiche individuali, quel che rendeva questa squadra davvero temibile era l'equilibrio e la disposizione sul rettangolo di gioco. Il Brasile riusciva a coprire tutte le zone del campo in maniera accademica come nessuna altra compagine al mondo per cui assai difficilmente risultava vulnerabile ed esposta alla inferiorità numerica. Cercare di assemblare, organicamente, un novero di calciatori così dotati non era semplice ; Telè Santana riuscì, come nessun altro prima di allora, ad amalgamare in una compagine omogenea quanto di meglio, in quegli anni, offriva il football brasiliano creando una vera e propria squadra.
E contro quella squadra dovevamo cimentarci con un unico imperativo : la vittoria !