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lunedì 3 gennaio 2011

L'antieroe Enzo Bearzot, un piccolo omaggio ad un grande commissario tecnico (parte seconda)

La via crucis di Vigo



I Mondiali di Spagna sono stati, ampiamente, snocciolati nel corso di tutti questi anni ma solo sotto un profilo squisitamente sportivo e, assai di rado, tattico. Obnubilati dalla conquista del titolo mondiale non ci si è chiesti il perchè la nostra compagine, tecnicamente una squadra di seconda fascia, sia riuscita a laurearsi campione del mondo ed a mettere in riga l'Argentina, campione del mondo uscente, ed il favoritissimo Brasile. Lascia, oltremodo, sconcertati la mera considerazione che l'Italia campione del mondo dell'82 era la stessa identica squadra che, non più tardi di una ventina di giorni prima, aveva miseramente impattato contro il modesto Cameroon tirandosi dietro le reiterate critiche di tutti i mezzi di informazione.
Si è detto, e scritto, che questa metamorfosi fu merito della esplosione di Paolo Rossi e l'encomio riservato al nostro commissario tecnico fu quello di aver creduto ciecamente, contro tutto e tutti e fuori da ogni logica sportiva, nel nostro centroavanti. A ben vedere, dunque, l'opera bearzottiana viene, ancora una volta, miseramente relegata a quei valori umani citati dalla agenzia Ansa e riportati all'inizio di questa disamina.
Stupidaggini, castronerie, scempiaggini dettate dall'acredine e dalla malafede di un novero di mascalzoni !
La nostra affermazione a quella kermesse mondiale è stata, di contro, la consacrazione dello stratega Enzo Bearzot che vinse, prima di tutto e tutti, tatticamente gli incontri con le compagini sudamericane.
Ma la nostra affermazione prende piede proprio da Vigo e dalla scelta di Bearzot di impostare una preparazione fisica affatto diversa da quella svolta ai mondiali di quattro anni prima. Il girone nel quale capitammo, del resto, ce lo potè consentire : accanto alla Polonia ci toccarono il modesto Perù e l'incognita Cameroon anche se questa compagine era, in realtà, tale soltanto per i non addetti ai lavori. Bearzot chiese, ed ottenne, di presenziare agli incontri amichevoli preparatori della squadra africana e si rese, immediatamente, conto che la compagine cameroonense era un avversario davvero temibile che coniugava una eccellente tecnica di base ad una potenza fisica impressionante ma che giocava un calcio alquanto cadenzato, tipicamente sudamericano per intenderci, connotato da improvvise accelerazioni. Queste motivazioni indussero, quindi, il nostro commissario tecnico a concordare con lo staff medico una preparazione atletica imperniata sul potenziamento della massa muscolare dei nostri atleti aumentando, esponenzialmente, i carichi di lavoro durante tutta la prima fase.
Bearzot, dunque, contava di avere una squadra meno brillante, fisicamente, nella prima parte del torneo ma, parimenti, in grado di superare il turno facendo leva sul fatto che sia il Perù che il Cameroon - che, in quella fase, sarebbero state, senza meno, assai più avanti nella preparazione - giocavano un calcio connotato da ritmi blandi riservandosi, dunque, nella seconda fase del mondiale di giocarsi le sue carte coniugando alla tecnica di base dei nostri giocatori, discreta, una condizione fisica ottimale.
Anche la dea bendata, questa volta, ci venne in soccorso assegnandoci la Polonia nell'incontro di apertura. Era, oltremodo, prevedibile che le due compagini, sulla carta le più accreditate a passare il turno, sottoscrivessero un tacito patto di non belligeranza chiudendo a reti bianche il primo incontro. Il risultato fu, infatti, uno scialbo 0 a 0.
Con il Perù, invece, giocammo un eccellente primo tempo ma crollammo miseramente nella ripresa. Avevamo, naturalmente, il fiato corto e soffrimmo maledettamente per tutti i secondi quarantacinque minuti. Il pareggio dei sudamericani, per quanto fortuitamente conseguito a seguito di uno sfortunato autogol di Collovati, fu ampiamente meritato. Contestualmente, però, la Polonia subì le pene dell'inferno per uscire indenne dallo scontro con il Cameroon che dominò in lungo e in largo i polacchi per tutti i novanta minuti. Furono, solamente, le reiterate prodezze di Józef Młynarczyk, l'estremo difensore polacco, ed i legni della sua porta che impedirono agli africani di aggiudicarsi, più che meritatamente, quell'incontro che terminò, parimenti, 0 a 0.
Peccato davvero che quei sedicenti giornalisti dianzi menzionati, quel crocchio di prezzolati lestofanti, non abbiano mai posto in risalto questo aspetto sicchè quando anche noi impattammo con gli africani, giocando tutt'altra partita, spararono a zero sulla Nazionale, sul nostro calcio e, naturalmente, su Enzo Bearzot. Fu, in ambito sportivo, un linciaggio mediatico senza precedenti secondo, solamente, a quello che patì il povero Marco Pantani quando le analisi gli riscontrarono un ematocrito fuori norma. Quando, infine, le critiche della carta stampata presero una piega morbosa insinuando presunte simpatie omosessuali fra Rossi e Cabrini la squadra decise di intraprendere il silenzio stampa delegando, ironia della sorte, il più laconico fra tutti i suoi componenti, il nostro capitano Dino Zoff, alle pubbliche relazioni. I giornalisti scrissero, a posteriori, che quella scelta, dettata dalle critiche della stampa, fu la chiave di volta del cambio di passo della squadra quasi a voler suggerire, al lettore, che una parte del merito della conquista del titolo mondiale potesse, seppur indirettamente, ascriversi proprio a loro.
Questi signori avevano - ed hanno... è una componente transgenica della categoria, evidentemente - una faccia simile ai loro deretani ma, avvezzi a destreggiarsi con le parole, hanno, lo riconosco, il pregio di cadere, seppur rumorosamente, sempre in piedi.
Il cambio di passo va ascritto interamente, invece, proprio alla preparazione fisica di cui sopra. Nella seconda fase del torneo, infatti, la nostra squadra veniva fuori, sistematicamente, proprio nei secondi tempi.
Con l'Argentina chiudemmo a reti bianche il primo tempo e vincemmo 2 a 1 il secondo.
Con il Brasile chiudemmo in vantaggio il primo tempo 2 a 1 e pareggiammo 1 a 1 nella ripresa anche se, in realtà, avremmo, parimenti, vinto anche il secondo tempo se un grossolano errore del collaboratore di linea dell'arbitro Klein non avesse annullato un regolarissimo gol di Antognoni.
Con la Polonia, in semifinale, vincemmo 1 a 0 nel primo ed 1 a 0 nel secondo tempo.
Con la Germania, infine, chiudemmo a reti bianche i primi quarantacinque minuti per dilagare nella seconda frazione di gioco ed aggiudicarci la finale per 3 a 1.
Avevamo, cioè, più fiato degli altri.
Giusto, oltremodo, qualche numero ad avallare quanto riportato sopra : nella prima fase, quella di Vigo, al termine dei primi quarantacinque minuti l'Italia aveva conseguito, complessivamente, due pareggi - con Polonia e Cameroon - ed una vittoria contro il Perù ottenendo, ipoteticamente, quattro punti (la vittoria allora, rammentiamolo, dava diritto ai canonici due punti).
Nei secondi quarantacinque minuti, invece, l'Italia aveva conseguito due pareggi - sempre contro Polonia e Cameroon - ed una sconfitta contro il Peru ottenendo così, sempre ipoteticamente, la miseria di soli due punti.
Questo significa, dunque, che la nostra Nazionale aveva fatto registrare uno score di 1,3 punti al termine della prima frazione di gioco e di, appena, 0,6 punti nella seconda frazione.
Nella seconda fase, invece, al termine del primo tempo gli azzurri avevano ottenuto due pareggi - contro l'Argentina e la Germania - e due vittorie contro la Polonia ed il Brasile conseguendo, così, sei punti e facendo registrare uno score di 1,5 punti partita laddove, nei secondi tempi, avevano conseguito tre vittorie - Argentina, Polonia e Germania - ed un solo pareggio con il Brasile ovvero sette punti ed un conseguente score di 1,75 punti partita rischiando di fare, addirittura, l'en plein di otto punti su otto fatto salvo l'errore, menzionato dianzi, in merito all'annullamento del gol di Antognoni contro i brasiliani.
Se noi, adesso, raffrontiamo questi score fra di loro possiamo notare che mentre nella prima frazione di gioco lo scostamento dei valori fra la prima fase, quella di Vigo per intenderci, e la seconda è minimo e si attesta su un valore pari a 0,2 punti partita quello dei secondi tempi, invece, è assai più marcato e si attesta, viceversa, nell'ordine di 1,15 punti partita. E questi numeri avallano, più di qualsiasi argomentazione, una discrasia di rendimento che può ricondursi, unicamente, alle considerazioni dianzi menzionate attinenti la preparazione fisica impostata sin dal ritiro di Vigo e che fuga il campo, dunque, da presunte ingerenze della carta stampata, dei commentatori e degli opinionisti sportivi relegando la loro funzione alla considerazione che, di loro, aveva il nostro commissario tecnico ovvero allo zero assoluto.
E quei giocatori che della dinamicità e dello scatto breve facevano la loro caratteristica predominante e che apparvero alquanto in ombra nella prima fase esplosero, letteralmente, nel prosieguo della competizione : Rossi, Tardelli e Cabrini su tutti.
Ed avvezzi, come solo noi italiani sappiamo essere, a celebrare i protagonisti principali abbiamo, purtroppo, obnubilato i meriti di coloro i quali portarono la croce sul Golgota di Vigo. Io resto convinto, a distanza di quasi trent'anni oramai, che l'artefice principale sul campo del miracolo italiano di Spagna resti, a dispetto di quanto si creda, un co-protagonista quasi misconosciuto di quella spedizione ovvero Francesco Graziani.


Il cambio di marcia degli azzurri



Il secondo posto, conseguito alle spalle della Polonia nel girone di Vigo, ci fece approdare nel minigirone a tre in compagnia di Argentina e Brasile. La compagine biancoceleste, campione del mondo uscente, era, sostanzialmente, sovrapponibile, quanto a tasso tecnico, a quella di quattro anni prima con l'aggiunta, però, del talento nascente Diego Maradona. Ma, oggettivamente, presentava alcune lacune gravi che soltanto la compiacenza delle direzioni arbitrali del 1978 avevano, spensieratamente, occultato.
Innanzi tutto la mancanza di due esterni realmente incisivi che consentissero di allargare il fronte del gioco ; ed, in second'ordine, la presenza di un solo centrocampista puro di interdizione ovvero Ardiles. Quattro anni addietro Ardiles era stata l'anima della squadra, prossima campione del mondo, nonchè, senza meno, uno dei giocatori più brillanti, e tatticamente preziosi, di tutta la rassegna mondiale sudamericana. Brevilineo e dotato di uno scatto bruciante, coniugava una eccellente tecnica di base ad una ottima visione di gioco ; fortissimo, inoltre, in fase di interdizione riusciva a ribaltare, repentinamente, il fronte di gioco trasformando una fase difensiva in offensiva. Giocatore energico, ma correttissimo, Ardiles fu, credo, l'unico che non trascese mai l'ambito prettamente sportivo della manifestazione mondiale in Argentina. I suoi contrasti, anche ruvidi, riflettevano, però, brillantemente il puro stile anglosassone contrassegnato da estrema lealtà. Quando i suoi compagni di squadra respirarono, nitidamente, il clima di assoluta impunità che avrebbe contrassegnato la direzione delle terne arbitrali cominciarono a sbizzarrirsi negli interventi più sporchi e biechi. In occasione della finale tra Argentina ed Olanda, ad esempio, il libero sudamericano Daniel Passarella spaccò, con una gomitata, due incisivi all'olandese Neskeens dopo pochi minuti di gioco sotto lo sguardo compiacente del direttore di gara, l'italiano Sergio Gonella, che fece finta di non vedere salvo, poi, ricorrere, immediatamente, al cartellino giallo per sanzionare un normale contrasto di gioco del giocatore olandese Poorvliet. Per non citare, poi, le ignobili sceneggiate di Mario Kempes & co. che, appena toccati dagli avversari, si rotolavano furiosamente come in preda a crisi epilettiche.
Ecco, Ardiles questo contegno su un campo di gioco non lo ha mai avuto riflesso, forse, proprio della sua militanza nel campionato britannico.
Un gentleman, insomma.
Ma in Spagna arrivò in condizioni di forma approssimative e, lasciato praticamente da solo in mezzo al campo, non riusciva più a coprire quegli spazi allegramente lasciati dai suoi compagni di squadra agli avversari. La prima mossa di Bearzot fu quella di affrancare Tardelli dalla marcatura di Maradona e posizionarlo nella zona mediana presidiata proprio da Ardiles limitando, in tal modo, il raggio di azione dell'argentino e puntando, nelle ripartenze, nell'uno contro uno. Ardiles, lo abbiamo detto poc'anzi, era un brevilineo dotato di uno scatto bruciante ma negli spazi larghi Bearzot era, oltremodo, convinto che la progressione di Tardelli avrebbe avuto la meglio.
Fu una intuizione vincente : tatticamente parlando quell'incontro fu deciso, sostanzialmente, proprio dal duello Tardelli-Ardiles.
Fin quando il fiato supportò l'argentino, Ardiles riuscì, in qualche modo, a contenere le spinte propulsive dell'azzurro. Ma nel secondo tempo la migliore condizione fisica di Tardelli, congiuntamente all'avventata disposizione sul campo della squadra campione del mondo allestita dal tecnico argentino Menotti, fece la differenza.
Quanto a Maradona, Bearzot pensò bene di affibbiargli alle calcagna Claudio Gentile che lo seguiva, pedissequamente, in ogni zona del campo. Francobollato a quel modo a Maradona non restava altro da fare che arretrare il proprio baricentro per cercare di risucchiare, fuori dalla linea difensiva, l'azzurro favorendo, con ciò, l'inserimento dei centrocampisti da dietro.
Ma, incredibilmente, questo non avvenne !
Per tutta la durata dell'incontro Maradona stazionò, staticamente, da prima punta e nè a lui, talento incommensurabile ma tatticamente acerbo, nè, tantomeno, a Menotti venne in mente di applicare questa semplice contromossa che avrebbe costretto Bearzot ad allestire una estemporanea gabbia a zona a ridosso della propra linea difensiva sacrificando, di volta in volta, Oriali, Tardelli e Conti oppure a dirottare, nuovamente, il solito Tardelli nella marcatura del fuoriclasse sudamericano perdendo, però, nel contempo l'unica spinta propulsiva in grado di ribaltare, repentinamente, il fronte del gioco.
Perso nelle sue oscure elucubrazioni mentali volte a dirottare Bertoni dalla fascia destra a quella sinistra nella speranza, vana, di affrancare l'argentino dalla marcatura asfissiante di Cabrini, il commissario tecnico argentino non riuscì, nel modo più assoluto, a leggere la partita.
Penso che, avocando la circonvenzione di incapace (leggi Menotti), un giudice avrebbe potuto, a tavolino, revocare il risultato e costringere i ventidue a rigiocare l'incontro ad armi pari.
Ma la differenza sostanziale fra le due compagini era, per l'appunto, la direzione tecnica. Bearzot proveniva dalla più grande Università del calcio che era Coverciano.
Menotti era, sostanzialmente, un parvenu delle panchine.
La sostanziale differenza è tutta qui.
Il primo tempo si chiuse a reti bianche e fu, oggettivamente, un incontro alquanto noioso e, per certi versi, bloccato. Ma nel secondo tempo venne fuori la maggiore freschezza degli azzurri che cominciarono a coprire il campo pedissequamente creando, sistematicamente, superiorità numerica in tutte le zone nevralgiche del campo. Impressionanti furono, ad esempio, il novero delle sovrapposizioni di Cabrini lungo l'out sinistro ; Bertoni, ala di punta, non riuscendo fisicamente a stargli dietro lasciò ad altri il compito di coprire quella zona di campo. Ad altri significava, sostanzialmente, ad Ardiles.
Ma anche l'argentino aveva i suoi grattacapi a cercare di imbrigliare Tardelli ed alla fine andò in riserva. Con il dominio assoluto del centrocampo Bearzot continuò a lasciare lo sterile possesso della palla agli avversari favorendo, in tal modo, la apertura di spazi alle spalle della linea mediana di campo onde sfruttare, al meglio, le ripartenze dei nostri centrocampisti - Tardelli, appunto, e lo stesso Oriali - e di Bruno Conti.
La mobilità di Rossi e di Graziani fece il resto.
Maradona, completamente fuori dal gioco, si spense progressivamente e tutta l'Argentina, con la sola eccezione di Passarella, perse la bussola. Un altro commissario tecnico sarebbe corso, e repentinamente aggiungo, ai ripari togliendo, magari, un attaccante ed inserendo un centrocampista di contenimento nonchè arretrando il baricentro di Maradona e provando, con un esterno, ad allargare le maglie della difesa azzurra. Menotti, invece, lasciò che l'Argentina perpetuasse le sue trame offensive nella zona centrale del campo finendo, per così dire, imbottigliato ed offrendo il destro alle ripartenze degli azzurri.
Soltanto una punizione a due, erroneamente interpretata dalla terna arbitrale che consentì a Passarella di battere direttamente a rete sorprendendo Zoff e tutta la retroguardia azzurra, e la dabbenaggine di Bruno Conti il quale, a tu per tu con l'estremo argentino Ubaldo Fillol, tentò di scavalcarlo con un improbabile e blando pallonetto non consentirono all'Italia di chiudere, serenamente, l'incontro molto prima del novantesimo facendoci vivere, come palpitanti, gli ultimi minuti nei quali, perso per perso, i campioni del mondo uscenti si buttarono allo sbaraglio rischiando il tutto per tutto.
La vittoria, comunque, fu ampiamente suffragata dal gioco espresso, dalle occasioni da goal create e dalla impostazione tattica di Bearzot che lesse, al meglio, l'incontro sin dalla antivigilia quando, bluffando, fece intuire ai suoi interlocutori che avrebbe marcato, ad uomo, Maradona ricorrendo al sempiterno Tardelli.
L'entusiasmo per la nostra affermazione contro i campioni del mondo uscenti scemò, però, repentinamente quando l'Argentina affrontò i verdeoro di Telè Santana.
Se l'Italia dominò, essenzialmente nella ripresa, l'Argentina, il Brasile, letteralmente, la annichilì.
Giocando quasi in surplace i carioca, a metà della seconda frazione di gioco, avevano già rifilato tre palloni agli, oramai, ex campioni del mondo palesando una organizzazione di gioco davvero fuori ordinanza. E per via della differenza reti per accedere alle semifinali ci occorreva, esclusivamente, una vittoria. Era pur vero che quel Brasile qualche punto debole lo aveva ma era, altresì, vero che a guidarlo c'era un commissario tecnico di statura internazionale. Bearzot avrebbe avuto, così, pane coriaceo per i suoi denti perchè, a differenza di Menotti, Telè Santana era davvero un allenatore preparato che soleva studiare l'avversario prima di disporre in campo la sua compagine.
Il nostro commissario tecnico era, dunque, consapevole che contro i verdeoro non avrebbe potuto giovarsi dell'elemento sorpresa e avrebbe dovuto ripianificare, in parte, la sua strategia.



Il Brasile di Telè Santana ovvero la quintessenza del gioco del calcio



Risulta, oltremodo, difficile disquisire su quella che fu, allegoricamente, la vera finale della edizione dei campionati del mondo in Spagna. Italia-Brasile resta, a giudizio di chi scrive, la più bella ed entusiasmante partita mai giocata dalla nostra nazionale seconda, soltanto, alla celeberrima Italia-Germania dello stadio Azteca ma con la sostanziale differenza che mentre in Messico le emozioni si concentrarono nei due tempi supplementari, complice la stanchezza delle due compagini, qui, a Barcellona, le fasi salienti si svilupparono nei soli novanta minuti e fu, da un punto di vista squisitamente tattico, un incontro ancora più emozionante.
Lo abbiamo letto dianzi : la nostra squadra si presentava, certo, forte del successo contro i campioni del mondo uscenti ma, nel contempo, raffreddata dalla speculare affermazione dei verdeoro di Santana contro la medesima rappresentativa e, soprattutto, dalla modalità con la quale il Brasile aveva liquidato il team di Menotti.
La Seleçao si era sbarazzata dell'Argentina quasi come di una fastidiosa marginalità giocando in surplace su ritmi blandi e regolando la pratica biancoceleste alla stregua di un mero incontro di allenamento.
L'epitaffio della debacle argentina fu rappresentata, metaforicamente, dalla espulsione di Maradona che perse completamente la testa rifilando, a palla lontana, un calcio allo stomaco al centrocampista brasiliano Batista.
In quel calcio, davvero un brutto gesto, sanzionato naturalmente con un rosso diretto (non si giocava, allora, sotto l'egida del regime criminale di Videla), c'era tutta la rabbia, l'amarezza e la frustrazione di vedersi piovere addosso tutta la propria impotenza.
L'Argentina fu, sic et simpliciter, annichilita dalla compagine di Telè Santana come non le era mai capitato da quattro anni a quella parte. Il terzo gol carioca di Junior, su passaggio di Zico, fu una vera e propria lezione di calcio accademico e fu, per costruzione, il più bel gol di tutta la rassegna iberica.
Quando gli azzurri, comodamente seduti in albergo, assistettero all'incontro furono presi dallo sconforto ; e non senza ragione, naturalmente.
A posteriori possiamo, senza meno, affermare che quel Brasile è stato uno dei più belli - forse il più bello - e più forti di sempre secondo, soltanto, a quello del '58 e forse ancora più forte di quello del '70.
Una compagine dotata di un altissimo tasso tecnico - basti pensare che Junior era costretto a giocare da esterno difensivo sinistro - equilibrata ed ottimamente disposta in campo da uno dei migliori, e più sfortunati, commissari tecnici brasiliani di sempre, Telè Santana, recentemente scomparso e colpevolmente dimenticato.
Quella squadra faceva del possesso palla il suo punto di forza secondo una filosofia, tutto sommato, elementare : se il pallone lo hai tu gli avversari non possono nuocerti in alcun modo. Per cui, secondo le migliori tradizioni sudamericane, il gioco del Brasile era caratterizzato da una fitta serie di passaggi per linee orizzontali - quasi a tessere una sorta di ragnatela - per, poi, partire con improvvise verticalizzazioni che solevano tagliare le linee avversarie profittando degli inserimenti da dietro dei centrocampisti - Socrates, Falcao, Cerezo, lo stesso Eder che era una punta atipica - ovvero degli esterni per allargare il fronte del gioco - Junior, Leandro - con accelerazioni micidiali che mettevano in ambasce le retroguardie rivali che si vedevano arrivare contro, come saette, frotte di giocatori in ogni zona del campo.
Se il Brasile faceva del gioco rasoterra il suo punto di forza, Santana non poteva tralasciare quello aereo : l'inserimento, nel novero degli undici titolari, di un centroavanti come Serginho rispondeva, appunto, a questa necessità perchè per quanto statico, e tecnicamente non eccelso, il giocatore aveva una forza fisica impressionante e permetteva, alla compagine, di avere un punto di riferimento costante in ogni momento ed in ogni zona del campo.
Se in affanno, dunque, i giocatori brasiliani potevano, ad occhi chiusi, rilanciare verso la trequarti di campo sapendo, a priori, che in quella zona stazionava proprio Serginho il quale, in virtù della sua mole possente, avrebbe potuto raccogliere e difendere il pallone consentendo alla squadra di rifiatare e risalire il rettangolo di gioco.
Ma le frecce nella faretra di Santana non si limitavano a queste due soluzioni ; in caso di spazi chiusi e di difese, oltremodo, abbottonate, la presenza di Zico e di Eder gli consentiva di disporre di due stoccatori, per quanto diversissimi fra loro, a dir poco formidabili.
Eder era un'ala tornante atipica in grado di svolgere il ruolo di punta esterna e, nel contempo, di ala tornante. Mancino naturale e molto forte fisicamente, Eder era dotato di una accellerazione impressionante e, in particolar modo, di un tiro dalla distanza devastante. Basti pensare che le sue stoccate arrivarono a raggiungere i centodieci - dico 110 ! - chilometri orari.
Quanto a Zico, infine, basti dire che era uno di quei giocatori che potevano, in qualunque momento, fare la differenza. Il brasiliano rientrava nel novero di quei fuoriclasse che, insieme a Maradona e pochissimi altri, hanno contrassegnato gli anni '80, in grado, in qualunque momento, di vedere la porta come pochissimi altri e di svolgere la dupice funzione di finalizzatore e rifinitore. In quegli anni, anzi, Zico era una spanna, almeno, avanti allo stesso Maradona in quanto era nel pieno della sua maturità agonistica e, rispetto all'argentino, ha sempre avuto una intelligenza tattica che lo faceva risultare decisivo financo quando, apparentemente, si marginalizzava dal fulcro del gioco. Zico, inoltre, era un magistrale battitore da fermo. Le sue punizioni dal limite erano una sorta di calci di rigore con handicap, leggi barriera, che soleva scavalcare nei modi più disparati ed, insieme a Maradona e Platini, il brasiliano era il miglior realizzatore di calci da fermo del mondo. Ma quel Brasile disponeva, altresì, di altri due formidabili battitori : il già citato Eder, impiegato quando il calcio di punizione diretto veniva sanzionato ad una trentina e passa di metri dalla linea di porta, e l'esterno sinistro Junior.
Di Junior ho scritto, sopra, che era costretto a giocare come esterno difensivo sinistro. Nella sua squadra di club, il Flamengo, il brasiliano stazionava, infatti, centralmente davanti alla difesa svolgendo la funzione di regista arretrato ; una mansione, questa, che riprese quando venne a giocare in Italia. Ma in quel team stellare il ruolo di centromediano metodista veniva svolto, essenzialmente, da Paulo Roberto Falcao, la stella della Roma di Neils Leidholm, oppure, in alternativa, da Toninho Cerezo per cui Santana lo relegò ad esterno difensivo di fascia sinistra profittando della peculiarità del giocatore che era un formidabile ambidestro. Tecnicamente completo e dotato di una eccellente visione di gioco, il brasiliano interpretò al meglio questo suo nuovo ruolo sia in fase di interdizione che di proposizione.
Quanto ai tre centrocampisti naturali carioca, Falcao, Socrates e Cerezo, basti sottolineare che erano, praticamente, intercambiali tant'è che Santana li faceva, pedissequamente, ruotare all'interno della zona mediana del campo per non dare punti di riferimento agli avversari. Il centrocampo brasiliano si posizionava seguendo uno schema, grosso modo, romboidale con Falcao al vertice basso del rombo - nella posizione classica del centromediano metodista - laddove Toninho Cerezo copriva l'angolo destro svolgendo, quindi, mansioni di esterno di centrocampo mentre il capitano Socrates soleva partire da sinistra e tagliare verso l'angolo opposto ma godeva di una sostanziale libertà di movimento per cui si proponeva, talora, come centrocampista aggiunto - specialmente nella fase di non possesso palla - talaltra come interno puro, talaltra ancora come seconda punta o trequartista ed, infine, financo come prima punta. Per quanto la sua esperienza italiana sia stata fallimentare, Socrates è stato, senza meno, in assoluto uno dei giocatori più tecnici che il Brasile, nella sua storia secolare, abbia mai espresso per cui contingentarlo in determinate aree del campo sarebbe stato, semplicemente, ridicolo onde per cui il capitano godeva della massima fiducia del commissario tecnico. D'altra parte Socrates era, a dir poco, temibilissimo quando soleva tagliare, con inserimenti da dietro, le linee difensive avversarie proponendosi come attaccante aggiunto poichè, pur non essendo particolarmente veloce, leggeva prima di tutti gli altri gli sviluppi del gioco per cui, sistematicamente, si collocava al posto ed al momento giusto un attimo prima degli avversari. Ed era, infine, molto forte anche nel gioco aereo supplendo, in taluni casi, anche alla funzione di centroavanti boa.
Ma, al di là delle caratteristiche individuali, quel che rendeva questa squadra davvero temibile era l'equilibrio e la disposizione sul rettangolo di gioco. Il Brasile riusciva a coprire tutte le zone del campo in maniera accademica come nessuna altra compagine al mondo per cui assai difficilmente risultava vulnerabile ed esposta alla inferiorità numerica. Cercare di assemblare, organicamente, un novero di calciatori così dotati non era semplice ; Telè Santana riuscì, come nessun altro prima di allora, ad amalgamare in una compagine omogenea quanto di meglio, in quegli anni, offriva il football brasiliano creando una vera e propria squadra.
E contro quella squadra dovevamo cimentarci con un unico imperativo : la vittoria !