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sabato 18 giugno 2011

Il caso Santoro ovvero la censura dell’audience, 5^ parte

Entrare nel dettaglio ed identificare, con estrema precisione chi/cosa ha supportato la fininvest e chi/cosa l’ha osteggiata sarebbe, invero, una analisi davvero preziosa perché ci aprirebbe uno scenario finanziario, altrimenti assente sui quotidiani, che ci renderebbe edotti sulla vera partita che, da diciassette anni almeno, si sta giocando.
Ma non soltanto richiederebbe una competenza tecnica – che non possiedo – ed un accesso ad alcuni dati riservati che potrei anche conseguire ma ci porterebbe, decisamente, lontano dal tema principale di questa disamina che ha preso le mosse proprio dal caso Santoro, dall’editoriale di Travaglio e, più in generale, dall’ingresso preponderante della propaganda che, nei fatti, ha soppiantato quel poco di informazione che persino in pieno doroteismo ha caratterizzato un certo modo di intendere il servizio pubblico.
Ad ogni modo la discesa in campo del cavaliere. nell’oramai lontanissimo gennaio del 1994, non ha fatto altro che svolgere una funzione propellente ad una pregressa linea di tendenza già sviluppatasi all’interno dei vertici della Rai a seguito della riforma del servizio radiotelevisivo pubblico in quanto che in quel periodo, nei fatti, abbiamo allegramente mandato alla berlina una qual sorta di censura politica – osteggiata, combattuta, denunciata e quant’altro – soppiantandola, però, con un’altra, paritetica, di matrice squisitamente commerciale sulla quale, però, non si leva una – una che sia una, dico ! – voce al riguardo.
Si chiama censura dell’audience il che sta a significare, in soldoni, che un programma, per quanto qualitativamente di altissimo profilo, non ha ragion d’essere su una emittente se non in quanto serbatoio di inserzioni pubblicitarie.
La censura dell’audience costituiva il presupposto della emittenza privata – censurata ab origine, dunque ! – che, però, ha colonizzato anche il servizio pubblico il quale, oggi, pensa e realizza dei palinsesti, di fatto, sempre più commerciali e con l’imperativo categorico degli sponsor.
Allestire, dunque, una sceneggiatura rigorosa – peraltro costosa – su una riduzione di un romanzo di Tolstoj, ad esempio, o dello stesso Manzoni non è più proponibile.
Molto più remunerativo, dunque, promuovere la nuova belloccia di turno e strizzare l’occhio alle morbose tendenze del momento siano esse le inchieste sulla pedofilia, ovvero le particolareggiate modalità con le quali è stata uccisa la povera Sarah Scazzi ovvero, ancora, le preferenze sessuali del presidente del consiglio di cui, oramai, conosciamo financo i dettagli.
E tutto questo in nome della libertà di informazione un diritto al quale, peraltro, sembra che nessuno decida, in coscienza, di rinunciare e, d’altro canto, un bambino stuprato – magari dai parenti prossimi con l’avallo dei genitori… perché no ? – conquista, immediatamente, le primissime pagine dei quotidiani specie, poi, se vengono riportati, con maniacalità certosina, i dettagli anatomici della violenza.
Subito dopo, si aprono i dibattiti e gli approfondimenti – di cui, naturalmente, si sentiva la mancanza, come no ? – dove vengono invitati pseudoesponenti delle comunità scientifiche sedicenti opinionisti a caccia di pubblicità in vista del nuovo libro da pubblicare inframezzati a volti noti del piccolo schermo che cominciano, sin dal mattino, a sezionare l’accaduto – una sorta di autopsia, insomma – con sempre più improbabili ricostruzioni sociologiche e l’aspetto, oltremodo, grottesco è che tutti, in quella sede, si stracciano le vesti puntando l’indice contro i malesseri della società salvo, poi, interrompere il dibattito per dare spazio agli inserzionisti pubblicitari.
Il sesso e la morte sono, da sempre, due tabù della vita dell’uomo per cui un omicidio su sfondo sessuale è, davvero, quanto di meglio si possa prefigurare in un format televisivo.
Ma non dimentichiamoci che la morte in diretta fu inaugurata il 13 giugno del 1981 quando perì, in un pozzo artesiano in quel di Vermicino, il povero Alfredino Rampi in una macabra diretta televisiva che nessuno, in Rai, ebbe la decenza di interrompere – una non-stop che urla vendetta – alla quale partecipò, come semplice comparsa, anche il caro Sandro Pertini, già presidente della repubblica, il quale, malato fradicio di protagonismo, non si peritò un istante di farsi immortalare dalle telecamere salvo sparire dal proscenio mediatico quando si rese immediatamente conto che la situazione stava precipitando.
E, piaccia o non piaccia, Berlusconi in quel periodo non faceva ancora televisione.