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venerdì 1 aprile 2011

Beans' return ovvero il ritorno di mister Bean, parte prima

Fascisticamente e sfascisticamente… Bean !!!



Fasci e sfasci ovvero fascismo e sfascismo ; in due parole Bean ha già fornito un canovaccio di massima dove intende articolare i suoi folli deliri da psicopatico che mi hanno inchiodato, ve l’ho già detto mi pare, per quattro giorni su un liso sofà del suo salottino e la cosa, oltremodo, divertente – forse dovrei dire preoccupante – è che, dopo un po’, la sua litania ha cominciato ad avvolgermi come una tintinnate e soave nenia orientale al punto tale che, lo confesso, mi sembrava davvero che le sue farneticazioni non fossero, poi, tali ma che occultassero un laborioso e pervicace processo di analisi. D’altro canto Bean è un provocatore che al posto dei sampietrini usa le parole, le iperbole ed i paradossi logici divertendosi a modificare le prospettive senza riguardo alcuno per le idee – meglio le ideologie ! – delle quali, da tempo immemore oramai, ha smesso di servirsi. E la logica, si sa, alle volte è scomoda e, direi, inutile poiché, non parlando al cuore delle persone, suole scivolare via, leggera ed eterea, e dileguarsi senza lasciare traccia di sé in particolar modo, poi, se viene avocata per sconfessare un credo, laico evidentemente, sedimentatosi nella pelle, ancor prima che nelle coscienze, delle persone. Cercare di instaurare un dialogo con una torçida in una curva da stadio è follia allo stato puro così come, parimenti, provare a parlare ad un elettorato – sia esso di destra o di sinistra poco importa – militante è impresa, a dir poco, temeraria. Ma poiché il nostro antieroe preferito non ha assolutamente nulla di meglio da fare non ha perso tempo ed ha cominciato mostrandomi un fermacarte di bronzo messo lì, in bella vista, sulla sua scrivania. Aveva una forma antropomorfa ma, guardandola meglio, ho notato che si trattava di una stilizzazione del volto di Mussolini ma prima ancora che potessi proferire mezza parola mi ha colto, immediatamente, in fallo. Bean mi ha detto di aver comperato quel fermacarte in un mercato dell’antiquariato dislocato nella celeberrima Portobello’s road ma non perché, come avevo sospettato, fosse un simpatizzante del fascismo ovvero del duce bensì in quanto quell’oggetto, risalente agli anni della guerra, aveva un valore ed un trascorso intrinseco incommensurabile che giustificavano, secondo lui, ampiamente l’esborso di quelle 20 sterline richiestegli dal rigattiere. Sicuramente, diceva Bean, quel fermacarte doveva essere appartenuto a qualche italiano simpatizzante del fascismo che, negli accadimenti convulsi dopo l’8 settembre, aveva reputato opportuno disfarsene celermente svendendolo, magari. a qualche milite britannico in cambio di qualche prebenda alimentare. E questo soldato sarà, senza meno, rientrato in patria con diversi souvenir from Italy perché, magari, era un appassionato collezionista di chincaglierie. Poi, magari, dopo la sua scomparsa i suoi figli avevano reputato opportuno dismettere tutti quei fastidiosi ammennicoli accumulati dal padre e chiamare un rigattiere per disfarsene. E solamente un caso fortuito – una bella giornata primaverile, magari – aveva portato Bean, quel giorno, a Portobello’s road a scegliere quel fermacarte e ad appropriarsene. O forse era stato il fermacarte a sceglierlo ? O, ancora, era scritto da qualche parte che quel fermacarte avrebbe dovuto transitare, un giorno, sulla scrivania di Bean per finire il suo viaggio itinerante chissà dove ? Il caso, la scelta, il destino ovvero tre modi diversi di inquadrare un accadimento, direi, assolutamente insignificante ; eppure basta cambiare la prospettiva per avere tre differenti interpretazioni di quel medesimo trascorso che ha fatto si che oggi, sulla scrivania del nostro eroe, ci fosse un fermacarte di bronzo del duce. “Ma voi italiani” – mi ha detto – “siete talmente pregni di ideologie balzane che subito mi avete affibbiato una etichetta senza neanche, per un istante, pensare che le motivazioni che han presieduto a quell’acquisto potessero essere ricercate altrove dalla mera appartenenza ad una ideologia ; e questo è un segnale inequivocabile della vostra miseria intellettuale !”. Cominciamo bene, pensai ; epperò, amici miei, come avrei potuto dargli torto ? Noi italiani siamo così meschini e stolti che tendiamo ad ideologizzare ogni minima inezia. Pensiamo, per un istante, alla nostra carta costituzionale, ad esempio : ora chi pensa sia opportuno adeguarla ai tempi e modificarla, anche in assoluta buona fede e con cognizione di causa, viene già visto con sospetto dall’elettorato di sinistra e con malcelato plauso da quello di destra e, se vogliamo, stiamo parlando, in senso stretto e provocatoriamente, di un mero pezzo di carta che, però, è assurto ad una sorta di feticcio, l’ennesimo credo laico dei nostri giorni, insomma. Abbiamo mandato in soffitta il credo religioso per ammantarci di un credo ideologico senza neanche rendercene conto sostituendo, quindi, ad una fede un’altra fede senza, però, mutare minimamente il nostro approccio fideistico, per così dire, trasmigrando, allegramente direi, da un oscurantismo ad un altro. Siamo messi male, evidentemente, ma neanche ce ne accorgiamo tutti presi, come siamo, dalle nostre fervide convinzioni eteroindotte volte a dicotomizzare, in guisa manichea, le coscienze delle persone al fine di una sterile contrapposizione orizzontale assai idonea, però, al controllo ed alla gestione del consenso. Ed il controllo e la gestione del consenso equivale, prosaicamente, a prebende, finanziamenti, appalti e subappalti da elargire ad imprese amiche le quali, a loro volta, creano un indotto fortemente influenzato ed interessato ad alimentare, nelle loro maestranze, un consenso politico consono di tipo, per così dire, clientelare. Nulla di nuovo sotto il sole, invero, se consideriamo che l’etimologia della parola clientela ci rimanda, inevitabilmente, alla madre lingua latina che attesta, laddove ce ne fosse bisogno, che i clientes erano delle figure già ampiamente presenti nei resoconti degli annalisti coevi della Roma repubblicana. D’altro canto la storia stessa del nostro paese, in senso lato, è impregnata di dicotomie larvate e striscianti che accompagnano, purtroppo, la stesura stessa dei testi scolastici che ci illustrano, tanto per intenderci, di come sin dall’alba dei tempi il proscenio storico fosse costellato da contrapposizioni una schematizzazione, questa, assai poco storiografia ed assai pedagogica che, se vogliamo, proprio con la storia ha punto, o poco, a che vedere. Volteggiamo, come degli idioti ed ignoranti quali solo noi italiani soliamo essere, da Romolo e Remo passando per Roma e Albalonga, Roma e l’Etruria, Roma e Cartagine, Roma e le polis greche, Roma e la Gallia, Roma e la Britannia, Roma e la Partia, Roma e i barbari ; per non parlare, poi, delle sterili contrapposizioni sociali interne – uomini liberi e schiavi, patrizi e plebei etc. – per finire, poi, alle istituzioni : dalla monarchia vs. la repubblica e dalla repubblica vs. l’impero ed il tutto senza neanche, minimamente, soffermarci a pensare che forse, magari solo forse, la storia non è – né può essere a giudizio di mister Bean – una meschina contrapposizione fra due fantomatiche entità ma, piuttosto, una progressiva evoluzione di composite, nonché variegatissime, istanze socioeconomiche centripete tenute insieme dalle istituzioni politiche ed economiche di un paese. Sostenere, come si sostiene, che l’impero romano sia venuto meno per le invasioni barbariche è una semplificazione talmente ridicola che nessun accademico l'ha mai presa, seriamente, in considerazione e, d’altro canto, davvero non si riesce a comprendere come mai le invictae legioni dell’Urbe potessero, all’improvviso, esser divenute del tutto imbelli. Ma questo approccio dicotomico, appunto, tende ad obnubilare le facoltà critiche sin dalla più tenera età imprimendo una struttura logico-deduttiva assai scarna e povera e, proprio per questo, assai influenzabile e malleabile che viene ampiamente foraggiata per la cristallizzazione del consenso. E quanto sia, invero, intriso il nostro modus pensandi di dicotomie striscianti lo possiamo, ahimè, desumere financo dalle sterili contrapposizioni sportive. “Siete o non siete” - prosegue Bean – “il paese di Coppi e Bartali e di Mazzola e Rivera ?” E come dargli torto, pensavo tra me e me, visto che ho avuto non poche difficoltà di stesura persino nei miei posts dedicati alla boxe afroamericana quando ho voluto allargare il campo della macchina da presa ed includere, accanto a Muhammad Ali e Joe Frazier, George Foreman ? Beh nulla da dire, insomma, almeno per ora. Mister Bean 1 Italia 0. Ma siamo solo all’inizio, mi dice lui. E in mente mi vengono i fantasmi del 1948 quando, a Torino, la nostra nazionale subì, proprio dagli inglesi, una delle sue più umilianti batoste nella sua storia calcistica, uno 0 a 4 senza appello.