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lunedì 3 gennaio 2011

L'antieroe Enzo Bearzot, un piccolo omaggio ad un grande commissario tecnico (parte prima)

La metamorfosi del calcio italiano



La notizia della scomparsa di Bearzot, il 21 dicembre ultimo scorso, è passata quasi sotto silenzio nel bailamme mediatico di questi giorni incentrato sulle insulse querelle di Montecitorio sul voto di fiducia all'esecutivo Berlusconi e non ha avuto quel corretto risalto che avrebbe meritato. D'altro canto Enzo Bearzot era, davvero, agli antipodi del sistema mediatico ed il suo apprezzamento nei confronti dei giornalisti era prossimo allo zero assoluto sicchè la casta della carta stampata ha, in un certo qual senso, voluto comminargli, adesso, il medesimo ostracismo che lui riservò loro durante la gestione della nazionale di calcio.
C'è poco da fare, purtroppo : i giornalisti, anche quelli sportivi, interpretano il loro mestiere in una ottica corporativa e monolitica, trasversalmente, di generazione in generazione. La proposta dell'abrogazione dell'ordine, istituito nel ventennio fascista, serve poco o punto perchè codesti sedicenti professionisti dell'informazione sono corporativisti fin nei più reconditi anfratti viscerali anteponendo i propri meschini interessi di bottega a tutto il resto.
La consapevolezza dell'immenso potere di cui dispongono, volta a cavalcare presunte ondate emotive di gioia ed indignazione, viene, di volta in volta, messa al servizio dei loro padroni e padroncini nella speranza di incamerare qualche miserrimo tornaconto.
Ed in questa ottica non lesinano, un istante, a creare, alla stregua di demiurghi, dei mostri ed a distruggere, anche fisicamente, un uomo senza, peraltro, mostrare un benchè minimo risentimento presentandosi, come se nulla fosse, muniti di telecamere alle sue esequie.
Il riferimento a Marco Pantani non è affatto casuale.
Certo con Bearzot le cose erano alquanto differenti. Il commissario tecnico, a differenza del pirata, non era, psicologicamente, una persona fragile, anzi !
Da buon caro e vecchio friulano era di una coriaceo ai limiti dell'inossidabilità e si lasciava scivolare addosso, praticamente, di tutto senza scomporsi più di tanto. Ed era un antidivo per eccellenza ; le sue apparizioni sui pulpiti mediatici erano ridotte all'indispensabile e le modalità con le quali imperniava il suo rapporto con la stampa ne denotavano il suo profondo distacco. L'unico modo per, in qualche modo, costringerlo all'angolo, era quello di sminuirne la valenza tecnica e professionale.
Ancora oggi, a distanza quindi di oltre venti anni dal suo commiato dalla guida della nazionale di calcio, le agenzie di stampa battono una notizia evidenziando come
"il termine di ''commissario tecnico'' mal si attagliava ad un allenatore che anteponeva i valori umani ad ogni altra cosa." (Fonte A.N.S.A.)
facendo, con questa, una opera mistificatoria ai limiti del vergognoso.
D'altro canto per chi, come lo scrivente, mastica calcio da oltre trent'anni, il reiterato paragone posto in essere fra Enzo Bearzot e Vittorio Pozzo, il commissario tecnico che guidò la rappresentativa italiana alla conquista di due titoli mondiali nel 1934 e nel 1938, è, a dir poco, offensivo.
Vittorio Pozzo era un allenatore, da un punto di vista squisitamente tattico, del tutto sprovveduto. Quando, nel 1948, si trovò ad affrontare la compagine britannica a Torino rimediò un sonoro 0 a 4 poichè assolutamete incapace di leggere l'incontro e la disposizione in campo approntata dal commissario tecnico inglese - Alf Ramsey se non ricordo male - che aveva arretrato il proprio centravanti sulla linea mediana tirandosi dietro, per così dire, lo stopper azzurro e lasciando sguarnita la retroguardia italiana proprio nella zona centrale, e nevralgica, del suo schieramento dove, allegramente, si infilavano, e retireatamente, i giocatori di Sua Maestà i quali, quasi increduli, trovarono degli spazi immensi nei quali affondare le loro micidiali incursioni. E questa aberrazione tattica perdurò per tutti i novanta minuti dell'incontro senza che Pozzo riuscisse a porre rimedio alcuno in quanto rimase del tutto inconsapevole del trappolone tesogli dal suo collega britannico.
Lo 0 a 4 fu, in realtà, un risultato bugiardo. Gi inglesi avrebbero potuto infliggere dimensioni tennistiche all'esito della partita ma, va detto, da veri gentilmen si rifiutarono di infierire oltremodo.
Enzo Bearzot, di contro, fu uno stratega senza pari.
La connotazione che rese possibile la vittoria ai mondiali di Spagna e le grandi prestazioni a quelli argentini di quattro anni addietro, dove incantammo davvero tutti, fu la disposizione in campo dei giocatori azzurri. Credo sia, oltremodo, interessante fornire qualche annotazione, per quanto sommaria, al riguardo ponendo in risalto alcuni aspetti tattici che contraddistinsero la compagine azzurra prima ancora della sua partecipazione alla kermesse mondiale sudamericana del 1978.
Enzo Bearzot, ricordiamocene, subentrò in staffetta con Fulvio Bernardini alla guida della nazionale dopo la disfatta ai mondiali di Germania del 1974 assumendone la direzione unica nel 1976 al termine, cioè, della fase di qualificazione agli europei in un girone, oggettivamente, proibitivo nel quale, insieme agli azzurri, erano presenti l'Olanda, vicecampione del mondo, e la Polonia che era, allora, la terza forza continentale del football. La prima mossa, vincente, del nuovo commissario tecnico fu quella di puntare sui blocchi perchè consapevole, come nessuno prima di allora, che il motivo principale della delusione patita ai mondiali tedeschi fu la presenza, nello spogliatoio, di troppi generali.
Se è vero, come è vero, che quella Italia arrivò del tutto impreparata, da un punto di vista tattico, alla competizione mondiale del 1974 è, altresì, vero che la presenza nello spogliatoio di un uomo come Chinaglia fece esplodere, come un detonatore, tutti i precari equilibri che, faticosamente, l'allora commissario tecnico Valcareggi era riuscito a mettere in piedi. La compagine azzurra contemplava giocatori provenienti da svariati club ; focalizzando la nostra attenzione sulla semplice formazione tipo troviamo, infatti, Zoff, Spinosi, Morini e Capello della Juventus, Facchetti, Burgnich e Mazzola dell'Inter, Benetti e Rivera del Milan, Chinaglia della Lazio e Riva del Cagliari.
Se, attraverso la famigerata staffetta politica Rivera-Mazzola, Valcareggi era riuscito a creare un precario equilibrio nel 1970, lo smistamento dell'interista sulla fascia destra e la concomitante presenza del golden boy azzurro come trequartista alle spalle delle due punte sembrava aver risolto, brillantemente, la problematica della coesistenza dei due giocatori più talentuosi del calcio azzurro di quegli anni ponendo in essere le basi per una ridefinizione ottimale degli equilibri anche all'interno dello spogliatoio.
Ma l'ingresso di Chinaglia, Wilson e Re Cecconi, tre elementi alquanto facinorosi provenienti dalla Lazio campione d'Italia, mandarono alla berlina tutto quel che, pazientemente, il commissario tecnico aveva costruito in quegli anni. All'interno del club azzurro presero piede fazioni e microfazioni in perpetua competizione intestina. Il blocco juventino - capitanato da Anastasi -, quello interita - capitanato da Mazzola, e quello milanista - capitanato da Rivera - presero ad intessere una sorda guerra rancorosa contro quello laziale senza, però, tralasciare, nel contempo, le vecchie ruggini ed i vecchi screzi fra di loro che riemersero, all'improvviso, dopo un paio di anni di assoluta quiescenza.
In questa atmosfera balorda, che ricorda molto da vicino quella dell'aula di Montecitorio di questi giorni, restarono ai margini due soli giocatori : Riva e Zoff.
Bearzot fece tesoro di questa amara esperienza e la prima mossa che pose in essere fu quella di puntare su un blocco consolidato e collaudato. Scelse, naturalmente, quello juventino perchè, in quegli anni, la Juventus era la squadra più forte del campionato. Questa scelta aveva due risvolti importantissimi : da un lato gli garantiva una serenità all'interno del gruppo che andava consolidandosi e, dall'altro, gli consentiva di trasferire, in nazionale, quegli automatismi di schemi tipici di una squadra di club.
Fu una mossa vincente ed una rivoluzione senza precedenti.
Quegli automatismi che, disperatamente, i tecnici azzurri cercavano di costruire in anni ed anni di lavoro, Bearzot li aveva, adesso, già a portata di mano. E quell'equilibrio fra le varie componenti della nazionale era, adesso, un punto di forza, e non di debolezza, della squadra. Non a caso Bearzot puntò, senza indugio alcuno, proprio su colui che era rimasto fuori dalla bailamme di Monaco - Dino Zoff - e, penso, avrebbe puntato anche su Riva se non fosse stato per l'anagrafe del giocatore.
Del vecchio gruppo di Valcareggi, Bearzot cooptò il solo Facchetti, reinventato nel ruolo di libero, in attesa di soppiantarlo con l'emergente Gaetano Scirea. In Argentina, quindi, la nazionale azzurra approdò, per ciò che concerneva la formazione tipo che aveva ottenuto la qualificazione ai mondiali, con questo novero di giocatori : Zoff, Gentile, Benetti, Scirea, Causio, Tardelli e Bettega della Juventus (il blocco juventino, insomma) ; Maldera del Milan, Bellugi dell'Inter, Graziani del Torino ed Antognoni della Fiorentina. La frammentazione dello spogliatoio era un ricordo del passato. E su questa base Bearzot innestò, di volta in volta, quei giocatori che potevano conferire quel valore aggiunto alla compagine azzurra preservando, nel contempo, quegli equilibri interni dello sogliatoio che lo portarono, per intenderci, ad escludere dal novero della nazionale elementi anche brillanti - come Beccalossi ad esempio - ma facinorosi e pericolosi all'interno di una compagine. Il miracolo di Spagna prende il via, dunque, sei anni prima.



Le dolorose rinuncie



Le innovazioni che Bearzot introdusse nel corpo della Nazionale non furono, però, limitate alla preservazione del blocco juventino nonchè al contingentamento del novero dei convocati ma si esplicarono, in particolar modo, su alcune metamorfosi - tattiche, naturalmente - che il commissario tecnico applicò, con successo, su alcuni giocatori ed, in particolar modo, su Marco Tardelli.
Per chi non ne fosse a conoscenza, ovvero per coloro i quali lo avessero dimenticato, Tardelli non nacque come interno di centrocampo ma come terzino sinistro di fascia. Fu proprio Bearzot che intuì, per primo, le enormi potenzialità del giocatore il quale, dotato di una capacità volumetrica respiratoria fuori da ogni norma, avrebbe potuto, in virtù di una poderosa progressione, essere assai più letale nella zona nevralgica del centrocampo consentendo, cioè, alla squadra di ribaltare il fronte del gioco e creare quelle situazioni di superiorità numerica foriere di occasioni da goal. Del suo trascorso di difensore Tardelli preservò la capacità di interdizione che mise a disposizione di Bearzot quando questi lo sacrificava, gioco forza, alla marcatura asfissiante dell'avversario più temibile. Leggendari furono i duelli fra il Marco nazionale e l'astro nascente del calcio britannico Keegan oppure di quello sudamericano Maradona. Tardelli inoltre, quando le circostanze lo consentivano, mollava, pro tempore, a Claudio Gentile il suo antagonista e si proponeva come uomo in più per le finalizzazioni da fuori area ovvero in occasione di calci da fermo. In una combattutissima Italia-Inghilterra giocata in occasione degli europei italici del 1980, Tardelli si prese la briga di realizzare il gol dell' 1 a 0 decisivo dopo aver annientato - sportivamente parlando, ci mancherebbe altro - proprio Kevin Keegan.
Lo spostamento di Tardelli a centrocampo indusse Bearzot a puntare, come terzino di fascia sinistra, su Aldo Maldera. Maldera era un giocatore decisamente moderno ; abile in fase di interdizione si proponeva, spesso e volentieri, sull'out sinistro come ala aggiunta. Purtroppo lo penalizzavano l'anagrafe ed il fatto di non essere mancino ma, in quegli anni, un esterno difensivo sinistro naturale in Italia non c'era o, quanto meno, non giocava da titolare in alcun club.
Un'altra anomalia, tutta nostrana, era che Bearzot giocava con una linea offensiva tutta particolare perchè sia Graziani che Bettega non erano delle prime punte. Il commissario tecnico, quindi, reinventò, alla bisogna, proprio Graziani che nel Torino, la squadra di club nella quale militava in quegli anni, svolgeva, e con profitto, il ruolo di spalla a Paolino Pulici. I motivi per i quali Bearzot fu indotto a prendere questa decisione anomala risiedono in un novero di considerazioni che provo, brevemente, ad elencare.
Dopo la metà degli anni '70, in Italia erano, grosso modo, soltanto tre i grandi attaccanti che giocavano da prime punte nei loro club ovvero Roberto Pruzzo, Paolo Pulici e Paolo Rossi. C'erano, è vero, sulla piazza ancora Boninsegna, Anastasi e lo stesso Riva ma veleggiavano, purtroppo, oltre la trentina. Chinaglia giocava nei Cosmos di New York ma Bearzot mai e poi mai lo avrebbe richiamato in nazionale. I motivi che lo indussero a non convocare in azzurro, se non per sporadiche apparizioni in incontri amichevoli, Paolino Pulici e Roberto Pruzzo risiedevano, in primis, in considerazioni di ordine tecnico e tattico.
Roberto Pruzzo era il classico centroavanti di area di rigore ; forte fisicamente e dotato di un poderoso colpo di testa presupponeva però, per rendere al meglio. la presenza in squadra di due ali tornanti sulle fasce che, aggirando lo schieramento difensivo avversario, potessero mettere al centro, dalla linea di fondo, dei palloni alti ed arcuati per sfruttare l'abilità, eccellente, di Pruzzo nel gioco aereo. La Roma, infatti, affiancò a Bruno Conti un'altra ala tornante come Odoacre Chierico proprio al fine di ottimizzare al meglio le potenzialità del suo centravanti. Se Bearzot avesse voluto impiantare Pruzzo in Nazionale avrebbe dovuto mutuare gli accorgimenti tattici della squadra capitolina guidata, ricordiamolo, dal profeta della zona ovvero Neils Leidholm stravolgendo, però, tutto l'assetto e tutti gli automatismi di cui, fino ad allora, poteva giovarsi. Sarebbe stato un rischio troppo grosso direi, anzi, un vero e proprio azzardo. Pruzzo, che pure aveva annoverato alcune presenze in Nazionale in tornei anche prestigiosi come il famigerato mundialito organizzato, un anno prima dei mondiali di Spagna, in Uruguay e che vide l'affermazione della squadra di casa, non rientrò neanche nel novero dei ventidue convocati per il mundial iberico.
Quanto a Paolino Pulici il problema, di ordine tattico, risiedeva nel fatto che l'attaccante granata chiedeva, pretendeva ed otteneva che tutta la squadra ruotasse attorno a lui. Il Torino era, in quegli anni, una delle squadre più prolifiche del campionato ma i suoi bombers erano, sostanzialmente, proprio lo stesso Pulici, in primis, e Francesco Graziani.
Nella Juventus, invece, andavano a segno, con regolarità, un novero assai più ampio di giocatori che contemplavano, certamente, le punte Bettega e Boninsegna ma che spaziavano dai centrocampisti Causio, Tardelli e Benetti ai difensori Scirea, Gentile e Cuccureddu segno palese, quindi, che la squadra bianconera poteva giovarsi di maggiori soluzioni offensive rispetto a quella granata. E questa poliedricità della vecchia signora fu un carattere distintivo che fu mutuato anche dalla Nazionale. L'Italia di Bearzot non aveva, rispetto a quella di Valcareggi, la predominanza di un singolo realizzatore - come poteva essere Riva - ma una gamma variegata di calciatori che finalizzavano le manovre della squadra. Accanto, quindi, a Bettega e Graziani, assistevamo, parimenti a quello che accadeva nella Juventus, a realizzazioni di giocatori come Tardelli, Benetti, Causio ed, in più, Antognoni.
La possibilità di disporre di un numero più ampio di soluzioni offensive fu un tratto distintivo tipico della Nazionale - offuscato, peraltro, dalla sequenza impressionante di goals di Paolo Rossi nel mondiale di Spagna - a cui, il nostro commissario tecnico non avrebbe mai rinunciato. D'altro canto Paolino Pulici era un generale all'interno dello spogliatoio granata e portarlo in azzurro in pianta stabile avrebbe reso, oltremodo, problematica la gestione del gruppo tenendo, doverosamente, di conto che era il blocco juventino a tenere banco anche se, va ricordato, l'attaccante granata fece parte della gamma dei ventidue che staccarono il biglietto per Buenos Aires e dimostrò una professionalità sopra le righe restando ai margini e rispettando le decisioni del nostro commissario tecnico.
Furono queste, e non altre, le considerazioni tecniche e tattiche che indussero Bearzot a fare delle dolorose rinuncie. D'altro canto lo scrivente resta, a dispetto di quanto si è scritto e detto in tutti questi anni, fermamente convinto che la spedizione azzurra ai mondiali di Monaco avrebbe potuto avere un esito ben diverso se Valcareggi, dopo il mondiale messicano, avesse fatto delle scelte più coraggiose rinunciando, ad esempio, a Rivera e Chinaglia puntanto su Mazzola interno, sull'emergente Causio ala tornante e rispolverando il tandem offensivo Anastasi-Riva con il quale ci eravamo fregiati del titolo, unico sinora, di campioni d'Europa nel 1968.
Il tentativo di traslare in una compagine quanto di meglio offriva il campionato strideva, maledettamente, con i precari equiibri di uno spogliatoio disgregato. E Bearzot non offrì il fianco a questa pericolosissima incognita.
Quanto a Paolo Rossi, infine, l'allora centroavanti del Lanerossi Vicenza esplose, solamente, nella stagione 1977-1978 per cui la scelta di Bearzot attinente al girone di qualificazione, che si svolse tra il 1976 ed il 1978, ricadde, naturalmente, proprio su Francesco Graziani un giocatore generosissimo ed estremamente duttile che abbracciò la croce di interpretare, esclusivamente in azzurro, un ruolo non suo e che quando, alla vigilia del debutto in Argentina, si vide estromesso in favore proprio di Paolo Rossi, non fece una polemica che fosse una nè rilasciò dichiarazioni contro il commissario tecnico dimostrando, in primis, il suo spessore di uomo. Questo modus operandi di Graziani fu ampiamente ripagato dal nostro commissario tecnico che, in occasione del mondiale di Spagna, lo richiamò affibbiandogli il suo ruolo naturale di seconda punta al fianco, proprio, di Paolo Rossi consentendogli di laurearsi campione del mondo.
Un altro aspetto tattico estremamente interessante che contraddsitinse la gestione bearzottiana della Nazionale fu l'impiego di Bettega. Roberto Bettega è stato uno degli attaccanti più completi, tecnicamente, di cui si sia mai fregiato il calcio italiano. Fortissimo nel gioco aereo Bettega, in virtù di una valenza tecnica che lo avrebbe portato, negli anni, a svolgere delle funzioni di rifinitore, assumeva, nella fase offensiva, il ruolo naturale di attaccante divenendo, però, in fase difensiva un centrocampista aggiunto posiziandosi sulla linea mediana del campo. Questo accorgimento consentiva a Bearzot di avere parità numerica in attacco e superiorità numerica a centrocampo lasciando, scevri da incombenze difensive, i soli Rossi ed Antognoni arretrando, a supporto del reparto, anche lo stesso Franco Causio. Fu una mossa indovinatissima che fu mutuata anche da molti altri tecnici stranieri e di cui, ahimè, non c'è traccia nei resoconti sportivi dei giornalisti salvo alcune lodevoli eccezioni.
Con un organico così composto caratterizzato da una spigliata duttilità tattica, il nostro commissario tecnico riuscì ad ottenere quanto di meglio, e forse anche di più, potesse fornirgli la rosa del nostro calcio. Ma a queste connotazioni Bearzot ci aggiunse tanto del suo. Nei prossimi posts analizzeremo, in dettaglio, quelli che sono stati, a giudizio di chi scrive, i due capolavori tattici di Bearzot inerenti le vittorie contro l'Argentina ed il Brasile in occasione dei mondiali del 1982 non prima, però, di svolgere qualche ulteriore considerazione sulle novità introdotte da Bearzot in occasione del debutto azzurro ai mondiali sudamericani del 1978.


La spedizione in Argentina



Le ultime amichevoli preparatorie alla fase finale dei mondiali in Argentina non furono soddisfacenti. In particolar modo lo 0 a 0 rimediato a Genova con la Jugoslavia fu, oggettivamente, un pianto greco. Si riaffacciavano, ancora una volta, i fantasmi di Monaco che videro la nostra compagine arrivare alquanto malconcia alla vigilia della kermesse mondiale. Furono, in particolar modo, due i giocatori che arrivarono con il fiato corto : Maldera e Graziani.
Cambiare in corso d'opera un undici collaudato che era riuscito a strappare il biglietto per Buenos Aires ai danni di una temibile Inghilterra era, a dir poco, un azzardo ma Bearzot rischiò ed i risultati gli dettero ragione. Se l'avvicendamento di Rossi con Graziani era nell'ordine naturale delle cose e ristabiliva un maggior equilibrio all'assetto tattico offensivo della nostra compagine dotata, finalmente, di una vera prima punta, quello di Maldera appariva, a dir poco, problematico. La prima idea che balzò al tecnico fu quella di riposizionare Tardelli sull'out sinistro ma, in questo modo, avrebbe perduto l'unico elemento della comitiva azzurra in grado di conferire quel cambio di passo indispensabile per ribaltare il fronte del gioco. Un'altra opzione possibile, e che appariva la più fisiologica in verità, era quella di Antonello Cuccureddu, esterno sinistro della Juventus, giocatore forte fisicamente ed in possesso di un notevole tiro dalla distanza. Ma Cuccureddu era assai più statico di Maldera e avrebbe privato la Nazionale azzurra di un propulsore di fascia. La scelta obbligata fu, dunque, quella di azzardare Antonio Cabrini. Fu il più grosso azzardo di Bearzot perchè, rammentiamocene, Antonio Cabrini, nel 1978, non era neanche titolare nella Juventus bensì la riserva proprio di Antonello Cuccureddu e tale rimase anche dopo il mondiale sudamericano. Cabrini era però, al contempo, titolare della under 21 per cui aveva conseguito, seppur in chiave minore, una sufficiente dose di esperienza internazionale ed era, altresì, un mancino naturale il che indusse il nostro commissario tecnico a rompere gli indugi e ad inserirlo, contro ogni aspettativa, in pianta stabile anche nella nazionale maggiore. I risultati furono sotto gli occhi di tutti e la nostra squadra si rese indiscussa protagonista di uno sfavillante girone eliminatorio mettendo in riga la Francia, l'Ungheria e la stessa Argentina giocando, in assoluto, il miglior calcio di tutto il mondiale.
Quella kermesse finì, purtroppo, in calando ma fu un inevitabile dazio da pagare ad una preparazione impostata per far esplodere, fisicamente, la compagine azzurra sin dall'avvio del torneo. Progressivamente la nostra compagine perse lucidità continuando a disputare degli ottimi primi tempi - fino alla finalina del terzo e quarto posto con il Brasile - e chiudere in riserva nella seconda fase dell'incontro.
Chi si è occupato, anche solo marginalmente, della preparazione atletica di una compagine è perfettamente consapevole che i carichi di lavoro sono fondamentali per consentire ad una squadra, ovvero ad un atleta, di presentarsi nelle migliori condizioni di forma possibili in un dato momento di una competizione. Lavorare sul potenziamento della massa muscolare consente di accumulare, per così dire, un bagaglio energetico supplettivo che verrà sprigionato, progressivamente, attraverso la riduzione dei carichi di lavoro nella seconda fase della preparazione imperniata, questa, sul conferimento della elasticità alle fibre muscolari. Questo significa, in concreto, che la squadra sarà meno brillante, da un punto di vista fisico, all'inizio ma che, poi, nel prosieguo della manifestazione avrà una tenuta fisica molto più lunga. Questa attitudine è tipica delle squadre tecnicamente più dotate che contano, non senza qualche grattacapo, di superare la prima fase di qualificazione imperniando il proprio gioco su ritmi più cadenzati cercando, quindi, di far valere il loro maggior tasso tecnico e riservandosi di coniugare solamente nella seconda fase, contrassegnata dagli scontri diretti, l'ottimizzazione della forma fisica. Ed, a ben vedere, fu quello che fece Bearzot nei mondiali di Spagna quattro anni dopo. Ma il primo turno dei mondiali sudamericani ci videro, ahinoi, protagonisti in un girone di ferro perchè, oltre all'Argentina padrona di casa, figuravano la Francia che era, già allora, una delle compagini più temibili in ambito continentale e l'Ungheria una squadra, questa, assai ostica e latrice della grande tradizione calcistica dell'est europeo le cui rappresentative ci avevano, storicamente, dato più di un dispiacere.
La scelta di una preparazione atletica più leggera che tralasciasse, ab initio, il potenziamento muscolare nonchè volta ad ottenere, sin da subito, la migliore condizione di forma possibile fu, quindi, una scelta obbligata che coinvolse la stessa Francia. L'Argentina, invece, puntò, non senza ragione, sulla condiscendenza delle terne arbitrali che la accompagnò, in maniera a dir poco vergognosa, fino alla finalissima e superò, così, di slancio, per così dire, sia l'Ungheria che la stessa Francia con qualche aiutino di circostanza che fece imbufalire Michel Platini. D'altro canto era già stato scritto, in alto loco, che quella kermesse, la più balorda mai approntata nella storia oramai secolare del football e che fece impallidire persino quella organizzata dal regime fascista nel '34, dovesse essere appannaggio della squadra padrona di casa per tutta una serie di motivazioni che trascendevano, abbondantemente, il mero aspetto sportivo. E quando non furono sufficienti i compiacenti sguardi dei direttori di gara intervennero gli esponenti della giunta criminale locale a prezzolare, lautamente, i giocatori delle compagini avverse (leggi Argentina-Perù 6 a 0 che consentì alla squadra di casa di accedere alla finalissima per una mera questione di differenza reti ai danni del Brasile).
Era, dunque, nell'ordine naturale delle cose che la nostra squadra si smarrisse, fisicamente intendo, nel prosieguo del torneo. Anche la stessa idea di far giocare le riserve nell'ultima partita, ininfluente oramai ai fini della qualificazione, contro l'Argentina aveva il medesimo fiato corto perchè avrebbe comportato l'approdo nel girone del Brasile e Bearzot era perfettamente consapevole che la nostra squadra non sarebbe stata assolutamente in grado di competere ad armi pari contro la compagine verdeoro. Non restava, quindi, che affidarsi alla buona sorte cercando di superare l'Argentina in un incontro nel quale assai difficilmente la terna arbitrale avrebbe giocato qualche tiro mancino alla nostra squadra in virtù della presenza, sugli spalti, di due generazioni di spettatori argentini la prima delle quali era costituita proprio dagli emigrati nostrani del dopoguerra i quali non soltanto tifavano Italia ma che non avrebbero gradito affatto una affermazione della squadra di casa sotto l'egida di un arbitraggio sfacciatamente casalingo.
Fu un calcolo politico indovinato tant'è che quello fu, oggettivamente, l'unico incontro nel quale l'Argentina non ebbe favoritismi di sorta e perse, meritatamente, per 1 a 0. Approdammo, così, nel primo girone in compagnia di Germania Ovest, Olanda ed Austria. Il calcolo, questa volta sportivo, contemplava una vittoria con la Germania ed un'altra con l'Austria sperando in un risultato neutro con la compagine olandese. Purtroppo la buona stella abbandonò la nostra squadra che vide infrangersi, sui legni della porta tedesca, la speranza di approdare alla finalissima. Fu uno 0 a 0 scandalosamente ingiusto - da un punto di vista squisitamente sportivo per fortuna in quanto, pur giocando sopra le righe, fummo davvero sfortunati - foriero, purtroppo, di una scialba e striminzita vittoria di misura contro l'Austria e della debacle, nel secondo tempo, contro l'Olanda che ci precluse l'accesso alla finale.
La nostra squadra, ora, teneva egregiamente il campo per i primi 45 minuti crollando, fisicamente, nel secondo tempo dove pagava dazio a quella preparazione impostata per superare la prima fase. L'Olanda, viceversa, si imponeva proprio nei secondi tempi (con la Germania, con l'Austria, con l'Italia, con la stessa Argentina dove corse il rischio, financo, di vincere) e riuscì a ribaltare il risultato che la vedeva, al termine della prima frazione di gara contro la nostra compagine, sotto di un gol.
Approdammo, in virtù di una fortuita vittoria dell'Austria contro la Germania, alla finale del terzo e quarto posto reiterando, pedissequamente direi, il medesimo copione ; al termine del primo tempo mettemmo in riga persino il Brasile dominando in lungo e in largo in ogni zona del campo e chiudendo la prima frazione in vantaggio di un gol. Al termine del secondo tempo, invece pagammo dazio ed uscimmo sconfitti per 1 a 2.
Era nell'ordine naturale delle cose, direi, l'esito della spedizione in sudamerica. Peccato che queste semplici considerazioni, appannaggio di coloro che da sempre si occupano di calcio, non furono poste all'attenzione del pubblico. Si preferì, invece, sparare a zero dapprima contro gli olandesi accusati di fare uso di sostanze dopanti - una accusa vergognosa che denotava, laddove ce ne fosse ancora bisogno, tutto il provincialismo della stampa italiana - e, contestualmente, contro il nostro portiere reo, agli occhi di questi sedicenti giornalisti che altro non erano che dei mascalzoni, di essere l'unico responsabile della sconfitta contro gli orange.
Ma Zoff, come Bearzot, era un friulano tutto d'un pezzo e non si lasciò minimamente scalfire dal novero di critiche che gli piovvero, indebitamente, sul capo. Ironia della sorte volle che fossero proprio quei medesimi mascalzoni di cui sopra a celebrarlo, quattro anni dopo, quando, con la fascia di capitano, sollevò la coppa del mondo al Santiago Bernabeu.