SUNN IL MITE NON EFFETTUA ALCUN MONITORAGGIO O ANALISI DEI DATI DEGLI UTENTI

*

sabato 10 aprile 2010

Totò ed il linguaggio, un rapporto dinamico

Il rapporto che ha contraddistinto la comicità di Totò con il linguaggio è stato contrassegnato da una complessità assai peculiare. In realtà tutti gli attori fanno delle insite contraddizioni del lessico una pietra angolare della loro comicità oppure si muovono in situazioni tali per le quali una parola può assumere, in quel determinato contesto, una accezione ambigua. Totò, però, va decisamente oltre innestando su una tradizione consolidata – l’avanspettacolo e la rivista – , da cui pure proveniva, una inventiva straordinaria che connoterà la sua comicità, nel tempo, in misura anche maggiore rispetto alla sua verve fisica. La lingua ha sempre avuto uno spiccato rilievo ed ogni epoca storica è stata contrassegnata da locuzioni, neologismi e figure retoriche la gran parte delle quali sono andate, via via, perdendosi anche se, alcune di queste, son perdurate fino ai nostri giorni. Una rivoluzione lessicale, forse senza precedenti, che è avvenuta nel nostro paese fu quella che espresse il regime fascista. Senza addentrarci in analisi sociologiche, in questa sede è sufficiente affermare che la lingua – nonché l’utilizzo che se ne fa di essa – è molto pregnante non solo nel modo di esprimersi ma, vieppiù, di sentire, percepire nonché di “pensare” la realtà. Una delle preoccupazioni maggiori del fascismo fu, alla stregua dei governi paraliberali antecedenti, quella di creare un tessuto connettivo fra le popolazioni i cui usi e costumi erano estremamente eterogenei. Tenendo conto dell’altissima percentuale di analfabetizzazione che ancora caratterizzava la società italiana adusa ai propri vernacoli, il regime cercò – con gli esigui mezzi di cui disponeva – di dar vita ad un nuovo lessico unitario che – per quanto possibile – mutasse ed irreggimentasse la società italiana. Era una impresa titanica di difficile attuazione tant’è che solamente nel dopoguerra, con l’avvento della tecnologia e della diffusione capillare della radio e della televisione, si è riusciti a fornire, al paese, un comune linguaggio convenzionale. Eppure, senza avvedercene, ancora oggi nella nostra lingua perdurano frasi, parole, figure retoriche coniate proprio nel ventennio e che sono di uso quotidiano. Uno dei settori nei quali, a dispetto di oltre mezzo secolo, il conio fascista si è abbarbicato inestricabilmente al nostro linguaggio è quello sportivo. Molti ignorano che quel che, oggi, unanimemente consideriamo il nostro campionato di calcio fu una creazione del fascismo. Il duce, molto attento alle pulsioni popolari, per porre fine all’anarchia regnante nel paese nel quale si svolgevano miriadi di tornei locali e regionali, conferì personalmente a Leandro Arpinati il compito di creare una federazione nazionale di calcio unica – la F.I.G.C. – mediante la quale riorganizzare e mettere ordine alle decine di federazioni ed alle centinaia di compagini sportive che imperversavano in tutto lo stivale. Accanto ad una operazione amministrativa, però, ci fu anche una contestuale rivoluzione lessicale del mondo del pallone afflitto, già allora, da una “perniciosa anglicizzazione”. Si provvide, dunque, ad italianizzare, quando non a crearne ex-novo, tutta una serie di locuzioni specialistiche al fine di introdurre un nuovo modo tutto italiano di descrivere, di leggere, di parlare e di sentire questo nuovo fenomeno che, seppure ai primordi, stava già diventando una endemica passione nazionale. Così il gioco del football, termine originario della disciplina, divenne il gioco del calcio, il fuorigioco subentrò all’off-side, il calcio d’angolo al corner ed il neologismo traversone al cross. Il goal-keeper divenne l’italico portiere e l’anglosassone half time fu nostranicizzato nella locuzione primo tempo. Per non parlare, poi, delle locuzioni specifiche atte a contraddistinguere particolari attitudini del singolo giocatore quali cannoniere, punta, libero etc. Beh si stenta a crederlo ma tutte queste accezioni che colorano, ancora oggi, le forbite espressioni di giornalisti ed opinionisti sportivi, sono state coniate nel ventennio. Questa peculiare connotazione linguistica fu appannaggio soltanto dell’Italia fascista e non si estese ad altri paesi, anche neolatini, come, ad esempio, la Francia dove non esistono espressioni “francesizzate” analoghe alle nostre per cui quando un commentatore d’oltralpe dovrà descrivere una azione di gioco userà le terminologie proprie introdotte dagli inglesi terra, è bene ricordarlo, dove è nato il gioco del football. Per costui, quindi, il corner sarà corner e l’off-side sarà off-side. Anche nel mondo della boxe – rigorosamente traslato nell’italico pugilato – siamo ancora afflitti da perniciosa ed anacronistica autarchia lessicale. Il ring è diventato il quadrato, il job è diventato il montante e l’hupper-cut è diventato il gancio. Oggi, a distanza di così tanti anni e con una “globalizzazione” della semantica in piena effervescenza, anche in Italia hanno ripreso a circolare, nuovamente, terminologie specifiche di originaria matrice anglo-sassone. Ma quelle locuzioni “fasciste”, fomentate da un malcelato provincialismo di stampo tutto nostrano, continuano a perdurare ed a connotare il nostro modo di intendere e di sentire persino un avvenimento ludico. Questo preludio sulle diverse accezioni linguistiche in ambito sportivo è utile per cercare di addentrarci un pò meglio nel rapporto fra Totò e la lingua perché l’attore era fin troppo consapevole – molto più di tutti gli altri – della fondamentale importanza che il linguaggio rivestiva nella vis comica e/o drammatica di una rappresentazione. Ma mentre la maggior parte dei suoi coevi si limitavano – indotti anche da una censura stringente – a giocare nell’esclusivo ambito dei doppi sensi di una parola Totò andava, consapevolmente, decisamente oltre ed, alla stregua di un demiurgo, cominciò a ridisegnare il lessico a sua immagine e somiglianza. La lingua veniva, così, piegata – direi violentata – ad uso e consumo delle rappresentazioni dell’attore attraverso svariate tecniche che spaziavano dalle assonanze alle storpiature ma tenendo, sempre, di conto le regole grammaticali che governavano la lingua italiana. Fu una estenuante e certosina opera di mutazione che, però, a distanza di tanti anni non soltanto ha preservato inalterata la sua dirompenza ma è diventata comune sentire di tutti gli italiani attraversando, intatta, almeno quattro generazioni. Fare una carrellata esaustiva di tutti i neologismi o di tutte le frasi che hanno connotato l’ars recitandi di Totò meriterebbe la stesura di un libro a parte e, pur tuttavia, proverò ad analizzare – anche sotto uno squisito profilo grammaticale – quattro fra quelli più celeberrimi. Il primo approccio lo possiamo, senza meno, tentare sulla famosa frase “Parli a come badi !” che ha connotato, fra le altre, la scena, tratta dal film “Totò a colori”, nella quale Totò – tale Antonio Scannagatti, genio incompreso della “mosica” (musica) di Caianello – si imbatte, in un vagone letto, con l’onorevole Cosimo Trombetta interpretato da un superbo Mario Castellani. Una delle frasi che più connoteranno questa scenetta, alla quale dedicherò un post a sé stante, è quel “Parli a come badi !” che, ad un primo ascolto, è un mero, persino infantile, capovolgimento della struttura lessicale di una locuzione retorica che viene usata alla stregua di un monito e che però, ad una analisi più attenta, si rivela, invece, molto più caustica ed ironica di quanto non possa apparire ad una prima, superficiale, lettura. Infatti la dicitura corretta, al di là dell’interscambio dei verbi, è “Badi a come parla !”. Se andiamo ad analizzarla sotto un profilo squisitamente grammaticale possiamo subito notare come la parola “badi” può essere sia la declinazione alla prima, alla seconda che alla terza persona singolare del congiuntivo presente del verbo “badare” – che io badi, che tu badi, che egli badi – sia la seconda persona singolare dell’indicativo presente del suddetto verbo – io bado, tu badi, egli bada – ma nella costruzione in esame essa è declinata come terza persona singolare del congiuntivo presente per cui, allegando il soggetto sottinteso, la prima parte della frase potrebbe essere scritta “(lei) Badi” ; la parola “parla”, parimenti, è declinata alla terza persona singolare ma del presente indicativo – io parlo, tu parli, egli parla – per cui la seconda parte della frase potrebbe essere scritta “A come (lei) parla !”. Assistiamo, quindi, ad un utilizzo “improprio” sia dei modi – congiuntivo presente e indicativo presente accostati in una stessa frase – nonché della declinazione – terza persona singolare – in un contesto nel quale i soggetti sono solamente due. Ed è su questa costruzione bolsa e retorica della struttura della frase che Totò, in un quadro dissacratorio nei confronti della prosopopea del potere che sarà il canovaccio nel quale si muoverà lungo tutto il lungometraggio, interviene in maniera devastante coniugando entrambi i verbi nel modo presente indicativo – mandando all’aria, quindi, il congiuntivo – ed alla seconda persona singolare conferendo a questa scialba locuzione retorica una connotazione “confidenziale” del tutto anomala – poiché questa è solita declinarsi, in tono di riguardo, alla terza persona singolare – ma, non di meno, sotto una prospettiva grammaticale, decisamente corretta. Per cui la frase di Totò potrebbe essere scritta “(tu) Badi a come (tu) parli !” che poi, di suo, già determina una dissonanza armonica proprio perché siamo adusi ad ascoltarla, ovvero a proferirla, in un altro modo. Ed è su questa dissonanza che, poi, Totò inverte l’ordine dei verbi per cui al “Badi a come parli !” sostituisce il “Parli a come badi !” accentuando, ancor di più, questa disarmonia. Siamo, quindi, in presenza di una frase solo all’apparenza banale ma che, invece, è di una causticità esasperante e violenta. La sua corrosività si scaglia, dapprincipio, contro quelle anomali regole grammaticali che contemplano l’utilizzo della terza persona singolare al posto della seconda persona singolare nella costruzione di una frase imperniata in un colloquio fra due persone ; e questa anomalia sarà ricalcata, nel prosieguo della scena proprio da Mario Castellani che rimarcherà, anche sotto il profilo prettamente linguistico, la propria distanza – direi la propria “superiorità” – dal suo interlocutore declamando la medesima frase in una diversa accezione utilizzando anche la seconda persona plurale – “Badate a come parlate voi egregio signore !” – tentando, disperatamente, di porre un argine all’aggressione – anche fisica – di cui viene fatto oggetto da uno scatenato Totò. Ma la corrosività della locuzione “Parli a come badi !” la possiamo inquadrare anche in una ottica più ampia che è quella del rapporto – subordinato – che si instaura, sempre, tra il cittadino comune ed il potere. Per paradossale che possa sembrare – e qui c’è un altro aspetto della vis comica di Totò che è, a mio avviso, straordinaria – il linguaggio violento non è quello di Antonio Scannagatti – che cerca, disperatamente, di abbattere le distanze sociali fra lui e Mario Castellani – ma è proprio quello dell’onorevole Cosimo Trombetta che frappone una serie di ostacoli e barriere cercando di riportare quel dialogo sul binario di un formalismo lessicale volto a contraddistinguerlo – socialmente ma anche politicamente – dal suo interlocutore. Il linguaggio, quindi, viene usato come un’arma impropria per erigere reiteratamente una moltitudine di pastoie dove rimarcare gli assetti sociali preesistenti ed a consolidare il neonato status quo del primo dopoguerra. Il “Parli a come badi !” , quindi, assume una connotazione violenta e dirompente alla stregua di uno slogan rivoluzionario ed anarchicheggiante perché si staglia contro la vanagloriosa protervia – anche lessicale – del potere qualunque esso sia. E’ molto triste pensare a come tutti questi aspetti, anche sociologici e politici, che hanno contrassegnato gran parte della produzione cinematografica di Totò siano stati, oculatamente, taciuti e messi in sordina quando, per converso, non utilizzati contro l’attore reiteratamente messo all’indice per il suo qualunquismo e la sua grettezza ovvero, addirittura, apostrofato come fascista. Totò è stato un fustigatore violentissimo degli usi e dei costumi degli italiani nel dopoguerra e, anche da un punto di vista sociale e politico, si pone decisamente agli antipodi di Alberto Sordi il quale, pur interpretando il sedicente “italiano medio” palesandone vizi e virtù, alla fin fine non faceva altro che farci, troppo spesso, compenetrare nei meschini personaggi che interpretava sottendendo ad una malcelata empatia che si andava, progressivamente, instaurando fra lo spettatore ed il personaggio del lungometraggio. L’italiano medio di Alberto Sordi diventa, quindi, un personaggio familiare – proprio perché in esso ci rispecchiamo – ed, alla fin fine, anche simpatico e quei vizi endemici di cui soffre assumono una connotazione talmente fisiopatologica da divenire tratti peculiari e distintivi della società italiana. Questa sorta di buonismo autocelebrativo in Totò è completamente assente. Totò era un endemico anti-italiano nonché violentissimo dissacratore. La sua satira era, direi, a tutto tondo ed investiva, prima ancora del potere, gli italiani tutti mettendoli con le spalle al muro di fronte alle proprie responsabilità storiche oltre che alle proprie piccinerie domestiche. Anche il potere – qualunque tipo di potere – ne esce a pezzi sottoposto ad una serie reiterata di demolizioni capillari affidate alle armi della catarsi della risata. In questo la comicità di Totò, a differenza di quella di Sordi, è pregna di una corrosività così pervasiva che non preserva indenne nessuna forma di potere. Insomma mentre l’uomo Antonio De Curtis era un nostalgico monarchico, il personaggio Totò era un anarchico rivoluzionario. La sua satira politica si concentrò, spesso e volentieri, sulla democrazia cristiana ma non in quanto tale ma perché, in quel periodo, espressione del potere costituito. Ma l’universalità del suo modo di fare e di concepire la satira si sarebbe potuto traslare, evidentemente, anche ad altri partiti politici se solo avessero avuto modo di assumere le redini della gestione della cosa pubblica. E questa universalità, proprio perché mordace ed avulsa da qualsiasi indirizzo politico, fu tacciata e biasimata per qualunquismo. In un ipotetico scenario politico nel quale la DC fosse stata messa all’opposizione, dubito fortemente che un grande maestro della satira, come Dario Fo, avrebbe profuso tutta quella veemenza che profuse contro il partito di piazza del Gesù. Non ho, invece, alcun dubbio su quello che avrebbe profuso Totò. Tornando al tema del post, comunque, una cosa che mi preme sottolineare è che l'attore aveva una notevolissima padronanza della lingua italiana e delle regole sue proprie. Le sue “violenze semantiche” prendevano le mosse e si muovevano in un contesto altamente specifico senza mai travalicare le frontiere della lingua pena il rischio di perdita di incisività nonché di comprensibilità. D’altronde la comicità di Totò si impernia sull’idioma nazionale e non sul vernacolo che, per quanto conosciuto, non avrebbe mai potuto avere la stessa risonanza dell’italiano. Di seguito, invece, riporto un altro esempio nel quale, pur muovendosi all’interno di una frontiera lessicale comune, Totò compie una irruenta digressione anche nel vernacolo napoletano. Lo stralcio è tratto dalla sua partecipazione al varietà televisivo “Studio uno” del 1965 in compagnia di Mina la quale, per inciso, si prodigò moltissimo per poter avere in trasmissione l’attore napoletano. Il programma si girava, tra l’altro, proprio negli studi Rai di Napoli e quella partecipazione segnerà la fine dell’ostracismo che la televisione di stato aveva comminato all’attore per sei anni. E’ importante sottolineare “dove” il varietà venisse registrato perché la platea era, ovviamente, costituita da spettatori napoletani e la digressione irruenta di cui sopra avrebbe perso molta incisività se fosse stata proferita in altra sede. Il siparietto, gustosissimo, prende le mosse dalla consuetudine che l’ospite d’onore, che accompagnava in ogni puntata la soubrette Mina, dovesse esibirsi in un duetto canoro con la cantante. Totò, a causa dei suoi malanni avanzati, elegantemente si esime e comincia a fare una digressione delle sue “presunte” straordinarie doti vocali raccontando – meglio, “millantando” – delle sue interpretazioni liriche nei teatri di mezza Europa suscitando il – finto, ovviamente – stupore di Mina che gli chiede delucidazioni. Totò, quindi, si lancia in una paradossale disamina delle sue qualità canore asserendo che la sua straordinaria estensione vocale gli consentiva di interpretare romanze sia come baritono che come tenore. Soltanto che invece di usare questi sostantivi utilizza due aggettivi : il primo (corretto) che è “baritonale” ed il secondo (neologismo) che è “tenorinale” suscitando una ilarità generale e particolare proprio perché, come detto sopra, proferito negli studi Rai di Napoli. L’ilarità “generale”, ossia comprensibile in tutta la penisola, deriva dal fatto che Totò utilizza la medesima estensione fonetica per estrapolare, da un sostantivo, un aggettivo corrispondente per cui se al sostantivo baritono corrisponde il corretto aggettivo “baritonale” per estensione, ed assonanza fonetica, al sostantivo tenore corrisponde l’aggettivo “tenorinale”. Noi sappiamo che, invece, al sostantivo tenore corrisponde l’aggettivo tenorile. Epperò quella estensione che appone Totò non è, per così dire, niente affatto avventata ma trae il suo spunto proprio da una difformità presente nelle regole che presiedono la estrapolazione di un aggettivo da un sostantivo. Il suffisso “ale”, infatti, è presente in molti aggettivi ricavati da sostantivi : ottimale, minimale, mortale, eccezionale, sequenziale, natale, essenziale, razionale, serale, temporale e via discorrendo. Per cui non si comprende, in effetti, perché mai se alla parola baritono è corretto aggiungere il suffisso “ale” ottenendo così, correttamente, l’aggettivo baritonale, non è parimenti corretto apporre il medesimo suffisso alla parola tenore ottenendo, appunto, l’aggettivo tenorinale. Il contrasto stridente, quindi, tra tenorinale e tenorile suscita ilarità non soltanto per la dicitura inidonea ma perché richiama una regola di estrapolazione evocata proprio con il ricorso all’aggettivo baritonale sapientemente proferito immediatamente prima dall’attore che accosta, in rapida sequenza, le due espressioni – “Voce baritonale e tenorinale” – colpendo lo spettatore con un rapidissimo uno-due. Quanto, invece, all’ilarità “particolare”, dianzi menzionata, essa attinge il proprio humus dal fatto che la parola tenorinale è una omofonia di una espressione napoletana stante ad indicare il possesso, da parte di una persona, di un vaso da notte. In vernacolo partenopeo, infatti, quando si vuol asserire che qualcuno possiede un vaso da notte si dice che (costui) “tene (tenere, possedere) ‘o (il) rinale (vaso da notte)” e si pronuncia proprio tenorinale poiché la “e” di “tene” nella pronuncia dialettale viene troncata. Questa seconda chiave di lettura è, ovviamente, appannaggio dei napoletani o di coloro che conoscono questo dialetto e passa del tutto inavvertita agli altri auditori ma, anche se decisamente esilarante, è a latere nell’economia strutturale del neologismo perché rientra in quel “mestiere” ed in quel bagaglio tecnico che Totò aveva assimilato nei lunghi anni di apprendistato nella rivista e nell’avanspettacolo configurandosi come una sorta di ambiguità semantica tipica della produzione teatrale napoletana. Pur tuttavia – ad uno sguardo d’insieme – anche questo doppio senso è un tassello interpretativo in più che lascia trapelare come tante gags di Totò fossero elaborate e costruite proprio per essere recepite a vari livelli semantici. Man mano che ci addentriamo – e che continueremo ad addentrarci – nella produzione di Totò, avremo modo di poter inquadrare al meglio le molteplici sfaccettature nelle quali si estrinseca tanta produzione dell’attore. Un altro esempio di neologismo lo possiamo attingere da un lungometraggio – Gli onorevoli – del 1963 diretto da Sergio Corbucci nel quale Totò interpreta la parte di un fervente monarchico – Antonio La Trippa – intento ad allestire, con uno scalcagnato megafono, la propria campagna elettorale. Mi riferisco alla celeberrima frase “Vota Antonio” che diventerà un vero e proprio leit-motiv di tutto il film. Questa locuzione, riportata in questo modo, non è, naturalmente, un neologismo perché altri non è che un accostamento della declinazione di un verbo – votare – ad un nome proprio di persona – Antonio – che è, poi, oltre al nome vero dell’attore anche il nome del personaggio interpretato dall’attore. Ma ad un ascolto più attento si avverte che, in realtà, Totò non pronuncia questa frase in maniera “corretta” perché non interpone neanche una minima pausa tra il verbo votare – “Vota” – ed il nome proprio di persona – “Antonio” – ma tronca la vocale finale del verbo generando, quindi, una parola nuova – un neologismo, appunto – che, a questo punto, dovrebbe, graficamente, essere riportato in quest’altro modo, ossia, “Votantonio”. E che questa sia la corretta interpretazione della frase ci viene, per così dire, suggerita dal modo ossessivamente reiterato e dal ritmo crescente e sempre più frenetico con il quale Totò la proferisce. L’attore vuole rimarcare, così, in maniera chiara allo spettatore questo profilo di decodificazione della locuzione e, in questa chiave, si prodigherà lungo tutto il decorso del lungometraggio per palesare che ci si trova davanti all’ennesimo neologismo della sua produzione cinematografica. E’ questo, dunque, oltre alla reiterata declamazione, il motivo per cui questa frase ha superato, indenne, quasi cinquanta anni di cinematografia nostrana connotandosi, in stretta correlazione all’andamento amaro del lungometraggio, di una melanconica accezione disillusoria di diffidenza verso il potere e divenendo una di quelle locuzioni caratteristiche che hanno connotato indelebilmente la comicità di Totò. In maniera meno mediata, ed al contempo anche più diretta, il neologismo “Votantonio” assurge anch’essa a caustica allegoria contro il potere. Nell’esempio, invece, che riporto sotto, ci troviamo di fronte ad un’altra accezione del rapporto fra Totò ed il linguaggio. Non si tratta, nello specifico, di un neologismo, ma di una chiara allusione alla ampollosità ed al vacuità semantica di cui son latrici troppe espressioni comunemente usate nei rapporti tra le persone. Lo stralcio è ricavato dal film “Totòtruffa ‘62” diretto da Camillo Mastrocinque e che contemplava, fra gli altri, la partecipazione di Nino Taranto, Ernesto Calindri, Mario Castellani, Luigi Pavese, Lia Zoppelli, Renzo Palmer e Pietro de Vico. Totò interpreta la parte di un sedicente diplomatico – in realtà è un ex trasformista teatrale che vive di piccoli espedienti e di raggiri consumati alle spalle di malcapitati “avventori” – che iscrive la propria figlia nel più ricercato ed esclusivo collegio femminile della città la cui direttrice è, per l’appunto, la Zoppelli. Nelle occasioni in cui Totò si reca a far visita alla figlia, la direttrice, al momento del commiato, gli comunica che, oltre al pagamento della cospicua retta mensile, “ci sarebbe” un versamento supplementare extra. Ed è proprio su quel “Ci sarebbe” che Totò innesta la sua vis comica – qui direi decisamente sarcastica – chiedendo alla Zoppelli se tale extra “ci sarebbe” oppure “c’è” facendo leva, appunto, proprio sulla accezione della declinazione del verbo essere che, recitato al condizionale, indica – sotto un profilo squisitamente semantico – che una cosa potrebbe essere ma potrebbe anche non essere. Messa alle strette la direttrice “confessa”, a mezza voce, che quel surplus non “ci sarebbe” ma, effettivamente, “c’è” denudando, quindi, una accezione formale – ed anche fasulla – della locuzione retorica utilizzata. In questo caso, quindi, non abbiamo neologismi o interposizioni di parole e neanche inversioni di fattori. Siamo di fronte ad una denuncia nuda e cruda di una falsità convenzionale del linguaggio che, troppo spesso, connota perniciosamente il rapporto che si instaura tra le persone. Ma questa denuncia non si scaglia, in realtà, contro la “malcapitata” direttrice del collegio ma contro un certo tipo di linguaggio utilizzato, comunemente, dai media per divulgare le notizie. E’ infatti perniciosa prassi utilizzata dai giornalisti della carta stampata e della televisione quella di apporre proprio questa declinazione ai verbi con i quali presentare e commentare le notizie divulgate all’opinione pubblica. In particolar modo sulla carta stampata dove, sotto un titolo cubitale perentorio che non lascia adito a dubbio alcuno, si sviluppa un trafiletto esplicativo che, di esplicativo, non ha proprio nulla ma che tende, invece, a mistificare il titolo di cui sopra proprio mediante un uso sconsiderato del condizionale e della declinazione impersonale del verbo. Ci troveremo di fronte, perciò, ad artefatti periodi costellati da “sembrerebbe”, “parrebbe”, “risulterebbe” etc. oltre a verbi declinati con la particella pronominale “si” – si pensa, si vocifera, si sussurra – quando non a locuzioni ancora più enigmatiche – a quanto pare, a quanto si dice, a quanto sembra – che, reiterati nel trafiletto, inducono il lettore ad omologare quelle espressioni ad una verità inconfutabile. In realtà, sotto un profilo puramente grammaticale ovvero logico e, conseguentemente, semantico, tutte le locuzioni di cui sopra non significano assolutamente nulla. Il condizionale con il quale vengono coniugati i verbi – molto spesso già, di loro, evocativi ma approssimativi – ci riportano proprio a quel “ci sarebbe” di cui sopra donde verrebbe spontaneo domandare al giornalista cosa intende effettivamente dire quando scrive “risulterebbe” proprio perché un determinato avvenimento risulta oppure non risulta. Per non parlare, poi, delle accezioni impersonali con le quali i verbi vengono coniugati che, sotto il vaglio impetuoso di una mera analisi logica, denotano tutta la loro approssimazione ed ambiguità. Quel “si sussurra” o quel “si vocifera”, ad esempio, non ci fornisce alcuna informazione su “chi” sta sussurrando o vociferando in quel momento. Per non parlare, poi, di quelle espressioni astruse come “a quanto sembra” ovvero “a quanto pare” proprio perché, come sopra, non si evince nessun soggetto sottinteso onde per cui non è affatto chiaro a “chi” sembra ovvero a “chi” pare. Qui ci troviamo di fronte a delle tecniche di persuasione occulta che da un lato tendono a configurare come assolutamente certa la notizia che si riporta ma che sono volte – e qui risiede l’altro motivo dell’utilizzo di queste declinazioni – a tutela del giornalista che, in caso di diffamazione ovvero di querela può, in sede giudiziaria, agevolmente dimostrare la propria assoluta estraneità avocando proprio quel condizionale di cui sopra che, sotto un profilo logico, non asserisce assolutamente nulla certo. La denuncia di Totò, quindi, traslata da un piano estetico ad un piano sociale denota una causticità molto intensa che, travalicando le frontiere della semantica, finisce per investire quelle più generali di un costume sociale divulgativo gretto e asfittico volto a manipolare opinioni e non diretto a divulgare notizie. Questi quattro esempi riportati sopra credo possano essere utili per indurci a rileggere – sotto un altro livello – sketch, battute esilaranti e gags dell’attore. La premessa basilare che deve sottendere al nostro vaglio è quella di una profonda conoscenza che Totò aveva del lessico nelle sue varie sfaccettature. Soltanto così potremo riuscire ad avvicinarci alla vera essenza della sua arte e farci una ragione del perché – a dispetto di tutto e tutti – l’attore continui a riscuotere un successo impensabile che, oramai, sta conquistando anche la quinta generazione di spettatori. Ed io penso che una delle chiavi di questo fenomeno sia proprio nel sapiente e colto uso che Totò fa della lingua italiana.