In questo ambito cerchiamo di vedere un altro aspetto della comicità di Totò soffermandoci, questa volta, sulla sua spiccata verbalità. Il film, da cui è tratto questo spezzone, è “Totò diabolicus” girato da Steno e prodotto nel 1962. Tra i vari personaggi che il poliedrico Totò interpreta ce ne è uno, in particolare, su cui soffermerò la mia attenzione. E’ quello del generale fascista in pensione. Prima di addentrarmi in un tentativo di analisi, un doveroso accenno va fatto alla scenografia poiché è estremamente curata nei minimi dettagli. A cominciare dalle prime scene dove, sullo sfondo dell’ingresso della villa “il littoriale”, dimora del generale, si staglia un’antica statua romana, per finire al quartier generale dove troneggia un immagine del duce a cavallo – alle spalle di Totò – un piccolo busto di Mussolini sulla scrivania, un mezzo busto di Giulio Cesare sullo sfondo, un’aquila bronzea su sfondo rigorosamente nero, vari gagliardetti esposti attinenti le varie federazioni fasciste della capitale – una fa riferimento alla sezione Roma quartiere Prati un’altra alla sezione Salario – il manganello e quant’altro. Anche il campanello richiama un’aria - “All’armi siam fascisti” - che nel ventennio era decisamente in voga ed era uno dei motivetti che canticchiavano, durante i raid punitivi, le squadracce nere in mezza Italia. Il primo aspetto da sottolineare è che, in questo personaggio, Totò fa, in effetti, una duplice parodia. Fisicamente fa il verso ad Hitler, verbalmente fa il verso a Mussolini. Non soltanto il baffetto richiama il fuhrer ma, in particolar modo, la mano sinistra leggermente piegata in avanti ma, di fatto, affetta da parestesia. Hitler, infatti, negli ultimi anni della sua vita fu effettivamente colto da una sorta di tremito incontrollato, un presumibile morbo di Parkinson, che gli pregiudicò il movimento della mano sinistra tenuta, rigorosamente, indietro quasi a non voler dare nell’occhio. Molti filmati ufficiali del Reich mandati in onda nei cinegiornali tedeschi di quegli anni venivano, opportunamente, ritoccati proprio per evitare che lo spettatore potesse vedere la menomazione del leader nazionalsocialista. Ovviamente Totò pone la menomazione – anche se con molto garbo – maggiormente in risalto. Ad un certo punto, anzi, mentre declama la sua fedeltà al duce sembra sia colpito da parestesia all’altro braccio, quello destro, tant’è che gli rimane sospeso leggermente in aria mentre assistiamo allo sguardo di Totò che, stralunato, resta per qualche istante a guardare proprio quel braccio “sano” che sembra non voglia saperne di tornarsene giù. Ad ogni modo la fisicità di Totò, qui, è assai più misurata che in altre occasioni. Chi ha avuto modo di visionare qualche filmato d’epoca sa bene che Hitler era assai meno gigione ed istrionico di Mussolini facendo leva, invece, soprattutto sulla intonazione della voce per ammaliare e conquistare le masse che accorrevano da tutto il reich ad ascoltare i suoi comizi. Ovviamente Totò non può, con le parole, parodiare Hitler dei cui discorsi, eccezion fatta per gli appassionati di storia o di coloro che parlano il tedesco, non sappiamo praticamente nulla. La sua verbalità, preponderante in questo siparietto gustosissimo, si focalizza, invece, sul modo con cui Mussolini imboniva le folle in maniera, ovviamente, caricaturale ed esasperata. Ma la sua esasperazione si esprime in varie direzioni. La cadenza romagnola viene rimarcata ossessivamente specie quando pronuncia la parola “fasista” (fascista) che declama in un parossistico accento romagnolo. I toni artati di tutta la sua recitazione – molto altalenanti e musicaleggianti – riecheggiano, in maniera impressionante, proprio gli artifici vocali con i quali il duce proferiva i suoi discorsi. Non entrerò nel merito ma è stupefacente come già agli inizi del secolo Mussolini fosse padrone di certe tecniche vocali di persuasione occulta che oggi imperversano nelle pubblicità e che furono oggetto di studi – anche se in ambito strettamente musicale – anche di Leonard Bernstein. Poi c’è tutta la esasperazione delle incongruità semantiche e retoriche di un certo tipo di linguaggio che era in voga in quegli anni. Corrosivo è il modo in cui smonta, ad una ad una, tutta una serie di stereotipi e luoghi comuni in voga nel ventennio. Appena finita l’esecuzione di ipotetici antifascisti, al saluto che gli rivolge il suo “colonnello” (Antonio La Raina) – "A noi !" - risponde con un “A voi !”, un modo molto schietto ed elegante che lascia intendere ben altro. Ancora : quando si rivolge al commissario (Luigi Pavese) lo chiama “Caro lei” salvo, poi, avvedersi che il “lei” è stato abolito donde una correzione estemporanea in un improbabile “Caro voi” espressione, questa, realmente utilizzata in quegli anni. Oppure quando, prima di parlare, si sincera che non ci sia nessun nemico in ascolto “Perché altrimenti io non parlavo mica ; non sono mica un fesso” sublime parodia del “Taci il nemico ti ascolta”. L’informazione che fornisce al commissario è che “Le armi segrete ci sono”. Questa storia delle armi segrete era un leit-motiv che, specialmente dopo il rovescio di Stalingrado e lo sbarco alleato in Sicilia, prese a girare in tutta la penisola poiché il regime, resosi ben presto conto dello scollamento della società italiana, cercava di serrare le fila mettendo in giro presunte rivelazioni sulla produzioni di armi segrete tali da capovolgere l’esito della guerra a favore dell’Asse donde il profilarsi di un altro conio molto in voga in quegli anni… quello della “vittoria finale”. Divertente anche quando il colonnello fa il riassunto della situazione armamenti, viveri e morale. Totò chiude con un “Vinceremo !” facendo, però, il gesto della vittoria di Churchill salvo, poi, avere un dubbio e chiedere al colonnello con aria interrogativa : “Vinceremo ? Ma si !” . Un riferimento, sconosciuto ai più, lo fa quando dice, al commissario, che lui è un sansepolcrista. Per chi non lo sapesse, i sansepolcristi erano i primissimi militanti del fascismo definiti tali perché Mussolini fonda il partito nazionale fascista a Milano in piazza San Sepolcro. Definirsi un sansepolcrista equivaleva a dire, senza tema di smentita, di essere un fascista della prima ora e non un opportunista salito, a giochi fatti, sul carro del vincitore. La sua opinione sulla morte del fratello Galeazzo, lasciata alla scritta bianca, su sfondo nero, della maglietta intima che indossa, è il celeberrimo “Me ne frego !” parimenti mutuato da quelle fraseologie anche se, ovviamente, riletto in una accezione differente, certo, ma con un inquietante richiamo alla vicenda, reale, che costellò il tragico epilogo del conte Ciano - Galeazzo, appunto - che fu, dapprima, invidiato ed osteggiato per la sua celere ascesa nelle alte sfere del regime - in virtù del matrimonio contratto con Edda, la primogenita del duce - per essere, poi, esposto al ludibrio ed al disprezzo generale per aver "tradito", nella drammatica seduta del gran consiglio del fascismo del 25 luglio 1943, proprio Mussolini firmando la mozione Grandi che ne contemplava le dimissioni dall'incarico di capo del governo. Galeazzo Ciano pagò con la vita,nel 1944, questo suo comportamento "proditorio" e fu fucilato, insieme ad altri gerarchi fascisti, a Verona per cui la miseranda, nonchè violenta, dipartita - nel lungometraggio - del marchese Galeazzo di Torrealta (anche lui nobile, guarda caso) non può non essere, in una certa qual maniera, associata proprio alla triste vicenda del conte Ciano. Totò, d'altronde, non lascia, a mio giudizio, dubbio alcuno al riguardo apostrofando il fratello come un proditorio antifascista. Alla domanda sul dove fosse la notte del delitto risponde con un perentorio “Spezzavo le reni alla Grecia” - con esplicito riferimento al discorso tenuto da Mussolini il 18 novembre del 1940 - oppure che era impegnato nella “Ritirata del Don” salvo poi non rammentarsi in quale ritirata fosse perché “Capirà.. di ritirate ce ne sono tante” ; ovvio il riferimento al termine ritirata nel senso di gabinetto ; meno ovvio il riferimento al fatto che l’esercito italiano si ritirò, ed in malo modo, da troppi teatri di guerra. L’innocente tamburellìo dell’ispettore (Mario Castellani) viene scambiato da Totò come un indizio certo della presenza di traditori in casa sua che ascoltano “Radio Londra” la quale cominciava le proprie comunicazioni sul territorio nazionale proprio con quel motivetto. Quel “Vi mando al confino a Ponza a ponzare” è, ancora una volta una storpiatura eclettica. Ponzare significa far sforzi per mandar giù il parto ma anche per evacuare escrementi donde un chiaro riferimento al meschino ricorso all’olio di ricino somministrato, senza lesina, durante il ventennio ; se, a questa connotazione, associamo anche un richiamo onomatopeico fra i due termini l'effetto ironico, seppur amaro, ne è una logica conseguenza. Infine il doppio senso della fede intesa come sentimento cristiano, nonché come anello nuziale, che genera il biasimo di Totò quando nota che il commissario porta ancora la sua al dito senza, cioè, averla consegnata alla patria. Il riferimento storico cui allude Totò è la "questua" messa in atto dal regime volta ad ottenere una cospicua copertura aurifera per ottenere, dalle banche, un finanziamento estemporaneo per organizzare la spedizione in Abissinia. Siamo, è bene non dimenticarlo, nel 1935 e il sistema monetario era essenzialmente aurifero per cui ad ogni emissione di cartamoneta della Banca d'Italia era necessaria una concomitante e corrispondente copertura di metallo pregiato. La spontanea - e sottolineo la parola spontanea - consegna dell'oro alla patria fu, tra l'altro, anche una operazione propagandistica senza precedenti se è vero, come è vero, che persino i reali di casa Savoia presero parte attiva in questa sorta di "kermesse" avallando una guerra coloniale. Tutta questa particolareggiata analisi vuol mettere in risalto un aspetto, a mio giudizio, estremamente importante. Questa scenetta è di una violenza devastante perché, in pochi minuti, demolisce un intero linguaggio, un intero modo di sentire e di essere di una nazione. Noi dobbiamo tenere conto, innanzi tutto, di una cosa. Il film è stato prodotto e distribuito nelle sale cinematografiche nel 1962 ossia “appena” diciassette anni dopo la fine della guerra per cui non dimentichiamoci che la grossa fetta di pubblico che assisteva a quelle scene, e che rideva a crepapelle, era costituita proprio da quelle stesse persone che, poco più di un ventennio prima, si esaltava fervida a quelle stesse parole d’ordine ed a quelle stesse bolse retoriche… magari per la proclamazione dell’impero. Totò, insomma, oggi strappa una risata convinta e quel personaggio potrebbe sembrare una mera macchietta ; ma, all’epoca, quella stessa scena si colorava di una satira di costume estremamente corrosiva che il passare degli anni ha, gioco forza, diluito. Quando guardiamo un film non dovremmo mai dimenticarci di contestualizzarlo al momento storico in cui fu prodotto. Totò era un ferocissimo e violentissimo fustigatore dei costumi della Italia del dopoguerra. Ed anche per questo pagò, artisticamente, un prezzo molto alto.