Nel panorama del cinema italiano la celeberrima lettera di Totò e Peppino De Filippo resta, a dispetto degli anni, “la” lettera per antonomasia. Altri comici hanno provato a sfruttare questo filone “letterario” tentando, a più riprese, di riproporne una versione diversa e più sincronica con un certo modo di intendere e di sentire la comicità. Eppure ogni qualvolta le si paragonano all’originale impallidiscono miseramente. Penso, ad esempio, al tentativo maldestro fatto da Benigni e Troisi i quali cercano, nella lettera al Savonarola, di ricalcarne la struttura sulla falsariga di quella senza, però, sortire l’effetto voluto. Ora se, di primo acchito, ci si rende subito conto che non c’è confronto la domanda che mi son sempre posto è il “perché” questo confronto non ci sia. La statura tecnica di Totò e Peppino – evidentemente di altro spessore – da sola non basta, a mio avviso, a giustificarne l’esito. C’è qualche cosa di più e di più profondo. Vedremo, adesso, quali sono le connotazioni specifiche che fanno di questa lettera “la” lettera del cinema italiano*.
Il primo aspetto che va rimarcato è che questa scena è frutto di un canovaccio totalmente stravolto da una straordinaria estemporaneità dei due attori. Si sono raccontati molti aneddoti sulla sua genesi e si sono spesi profluvi di parole atte a sconfessarne, o meno, questa sua presunta peculiarità. Io sono dell’avviso che la ripresa sia partita da una falsariga del copione ma che sia stata, in corso d’opera, opportunamente ritoccata. Le motivazioni che avallano questa mia convinzione sono varie ma riconducibili, sostanzialmente, a due considerazioni. La prima, e più evidente, concerne la recitazione e la fisicità che Peppino De Filippo assume durante la ritrascrizione della lettera. Faccio notare come, grosso modo a metà della stesura, Peppino continui a ritrascrivere, quanto dettatogli da Totò, sempre e soltanto sull’ultimo rigo del foglio. Questo significa, ovviamente, che il copione prevedeva una stesura della lettera di gran lunga più breve. Ma, altresì, di come, ed a più riprese, Peppino ponga un argine alla funambolica improvvisazione di Totò e, attraverso un gioco di sponde, ne incanali il flusso che, altrimenti, rotti gli argini, straborderebbe senza freni reincanalandolo nel canovaccio prestabilito. Peppino De Filippo, quindi, svolge un duplice compito ed è, a mio giudizio, formidabile. E’ una scena, questa, dove, contrariamente alle apparenze che lo vedrebbero in posizione succuba, si pone, nell’ottica della recitazione, su un ambito perfettamente paritario richiamandomi, in questo, le interpretazioni che caratterizzarono Aldo Fabrizi quando si trovò a girare dei lungometraggi in contrapposizione proprio a Totò. Tutta la recitazione di Peppino De Filippo va letta, a mio giudizio, attraverso queste due chiavi di interpretazione. Anche la fatica fisica che esprime quando si asciuga la fronte con un fazzoletto va letta in una duplice ottica. Da un lato offre sponda all’ennesima gag di Totò che lo biasima apostrofandolo con un “Ma che stai facendo una faticata ! Ti asciughi il sudore !” ma, dall’altro, con un sospiro appena percettibile, fa capire a Totò le difficoltà che sta incontrando nel reggere questo canovaccio improvvisato invitandolo a rientrare nella falsariga del copione. Non a caso, infatti, Totò – pur concedendosi, ancora, un paio di brevi digressioni – rientra nei canoni della sceneggiatura e volge alla conclusione.
La seconda motivazione concerne, invece, l’altalenante vis comica di Totò che alterna a delle gags semplicemente sfavillanti alcune pause e cadute di tono. Anche se, a ben vedere, nell’economia della scena, questa asincronia recitativa fornisce il destro ad una maggiore naturalezza e verosimiglianza di tutta quanta la ripresa. Una ripresa, va evidenziato, nella quale ci sono due soli cambi di campo – in fase di montaggio – concernenti le espressioni sconcertate della sorella circa la effettiva adeguatezza della stesura di quella lettera ma che, al di fuori di questo, è caratterizzata da una ossessiva fissità dell’obiettivo cinematografico.
Entrando, adesso, nel merito specifico della lettera direi che la prima cosa che va sottolineata è che questa stesura ha una struttura incardinata su due opposte polarità. Totò e Peppino (i fratelli Caponi) sono, esattamente, agli antipodi nel modo di concepire la vita. Se Totò è un prodigo godereccio e spendaccione tanto da rimanere, sistematicamente, senza un soldo in tasca ed è costretto, gioco forza, a chiedere continuamente prestiti pecuniari al fratello, Peppino è il classico contadino parco e parsimonioso morbosamente legato al denaro che preserva in una scatola nascosta sotto una mattonella. Questa rapporto antitetico lo si respira in ogni frangente della dettatura della missiva persino quando Totò, ad un certo punto, per chiudere un capoverso detta a Peppino una sequela di “punto, punto e virgola, punto e un punto e virgola” attirandosi il biasimo del fratello che lo rimprovera dicendogli : “Troppa roba !” . Peppino è, quindi, parsimonioso financo nella ritrascrizione di un testo e si pone, esattamente, agli antipodi, appunto, della prodigalità di Totò che non lesina, esasperandola, neanche sulla punteggiatura. Questo canovaccio della parsimonia contrapposta alla prodigalità tornerà, spesso e volentieri, nei lungometraggi che vedrà impegnati i due attori e ricalcherà una connotazione tipica dei due anche nella vita reale. Se Peppino De Filippo è stato, in vita, un uomo molto parsimonioso ed avveduto Totò, viceversa, è morto quasi cieco e quasi senza una lira in tasca.
Tornando alla lettera l’altra caratteristica predominante è la cosciente storpiatura del linguaggio e della sintassi avallata e resa credibile dal fatto che entrambi, provenendo dal contado, sono profondamente ignoranti. Questa ignoranza è, però, una interessante chiave di lettura che sottende a tutte quelle storpiature che Totò opererà nella stesura della missiva. Totò, assai più di Peppino, avverte il disagio del suo status sociale – palese il richiamo al loro provincialismo – e cerca di compensare questo gap facendo ricorso a diversi escamotage. Uno di questi è il ricorso ad una improbabile citazione latina quale quel “abbondantis i abbondandum” che avalla la sua generosa elargizione dei due punti – intesi non come “:” ma come “. .” – al termine di un capoverso della lettera. L’estemporanea ilarità che suscita dipende dal fatto che noi avvertiamo, distintamente, uno stridente contrasto tra quello che è il “suo” latino e quello che dovrebbe essere il “vero” latino. Ma ad una visione più approfondita non posso non andare, con la memoria, al personaggio manzoniano di don Abbondio e leggere, quindi, questa gag proprio come un richiamo, ed una parodia evidentemente, del dialogo tra questi e Renzo Tramaglino. Infatti alla stregua di don Abbondio, che utilizza il latino proprio come escamotage per mettere una distanza di sicurezza linguistica fra lui e Renzo Tramaglino ma, alla fin fine, per giustificare, agli occhi di questi ed ai suoi medesimi, la propria infingardaggine, anche Totò utilizza il “latino” per frapporre una barriera linguistica tra se ed il fratello atta a giustificare, agli occhi suoi ma, soprattutto, a quelli di Peppino, la propria prodigalità sia pure in una mera questione di punteggiatura.
Un altra caratteristica della lettera sono i tipici giochi di sponda che si instaurano, spessissimo, nella comicità di Totò ed uno di questi sorge proprio all’inizio della lettera. Quel “signorina” ripetuto, sapientemente, due volte invita Peppino De Filippo a girarsi – è una delle poche scene, forse l’unica, nella quale vediamo il volto di Peppino preso frontalmente – ed a chiedere al fratello dove sia questa fantomatica signorina. Totò raccoglie la sponda e, anche fisicamente, esprime la sua sorpresa sul fatto che questa signorina sia entrata nella loro stanza senza essersene avveduto. Come un gioco di specchi, questa volta è Totò che offre sponda a Peppino che, appunto, pronuncia la parola “Avanti !” quasi a farla accomodare. Quella parola è, ovviamente, un’altra sponda che Totò raccoglie chiudendo la prima parte della scena con il famigerato : “Animale ! Signorina ! E’ l’intestazione autonoma della lettera !”. Vediamo, quindi, come, tecnicamente parlando, si snodi la vis comica di Totò – sarebbe meglio dire di entrambi – e di come, quindi, con una sola parola, riescano a creare un gioco di quattro sponde. Ovvio che ogni sponda, caricandosi della verve della precedente, porti in dote un quid sempre crescente di ilarità che, arrivata al suo zenith, deve esplodere – pena la sua implosione che potremmo definire, in linguaggio astronomico, nadir donde la sua incomprensibilità – in maniera fragorosa. La deflagrazione di questo gioco di sponde è proprio quell’ “Animale ! Signorina ! E’ l’intestazione autonoma della lettera !” nella quale la “tensione” sapientemente alimentata esplode e “ci” fa esplodere in una risata liberatoria. Tra l’altro questa specifica di Totò, “intestazione autonoma” appunto, è paradossale ma pone in risalto anche alcune anomalie della lingua che, di volta in volta, in tutta la sua produzione cinematografica Totò sfrutterà coniando dei neologismi e piegando l’essenza stessa della semantica del linguaggio ad uso proprio. Nello specifico, comunque, che l’intestazione di una lettera possa essere indipendente dal contenuto della stessa è palese. Ma questa sua indipendenza la rende, appunto, “autonoma” dal contesto per cui, per quanto paradossale ed ilare ci appaia, la definizione di “intestazione autonoma” sembra proprio renderne assai meglio la particolarità. Un altro escamotage che Totò utilizza è quello della ricostruzione lessicale della lingua italiana. Una ricostruzione esasperata e paradossale volta, però, a mettere in nuce alcune anomalie anche fonetiche del linguaggio. Ad un certo punto, infatti, Totò si sofferma scientemente – con grande “mestiere” di attore teatrale – su un capoverso della stesura ossia quel “Che avreta, che avreta, che avreta” che suscita una immediata ilarità dallo stridente contrasto che si instaura tra l’accezione corretta – avrete – e quella storpiata di Totò – avreta – ma che, ad una seconda lettura si rivela assai più caustica in quanto, foneticamente, la parola “avreta” ricalca molti participi passati che sono, al contempo, utilizzati come tali ma anche come aggettivi e declinati, quindi, sia al maschile che al femminile. Il participio passato di un verbo sinonimo come “assegnare”, ad esempio, è assegnato. Ma questa parola è anche utilizzata come aggettivo e, come tale, viene declinata sia al maschile (assegnato) che al femminile (assegnata) appunto. E che questa sia la corretta accezione paradossale che le conferisce Totò ci è confermata proprio dal fatto che, per avallarne questa improbabile declinazione, Totò sottolinea, con forza, questa sua ricostruzione con la frase successiva “…Eh già, è femmina, è femminile”. Oppure con ancora più improbabili ricostruzioni grammaticali quali l’attribuzione alla parola “perché” di una esilarante, quanto mai fantomatica, connotazione di aggettivo qualificativo. E qui si apre un gustoso siparietto tra i due imperniato proprio sulla duplice connotazione grammaticale della parola “perché” in quanto, in analisi grammaticale, questa parola può avere due attribuzioni : congiunzione e avverbio interrogativo. Totò la detta come congiunzione – “Dal dispiacere che avreta perché”– mentre Peppino, in fase di ritrascrizione la interpreta come avverbio interrogativo – offrendogli quindi una sponda – tant’è che quando Totò pronuncia la parola “perché” lui si interpone dicendo “Non so” interpretandola, quindi, come avverbio interrogativo come se Totò gli avesse posto una domanda e riportando sulla lettera questa trascrizione : “Dal dispiacere che avreta perché ?” donde, per l’appunto, la sua risposta, il suo “Non so”. Un’altra piccola storpiatura del linguaggio Totò la opera quando detta a Peppino che il giovanotto “Deve tenere la testa al solito posto, cioè sul collo”. Chiara, qui, la sua reinterpretazione di un modo di dire – mettere la testa a posto – con una connotazione anatomica. Sono questi quattro elementi, a mio giudizio, i cardini verbali principali dove si impernia tutta la scena. Tutto il resto della dettatura, pur seguendo la falsariga di una cosciente storpiatura del linguaggio e della sintassi non ha la stessa verve di questi quattro elementi che ho isolato ed analizzato ma funge, per così dire, da corollario. E’ in questi frangenti che si respira quella asincronia recitativa cui ho fatto, dianzi, menzione. Ad ogni modo tutti questi artifizi linguistici sono volti a contrassegnare il contrasto, forte, tra i fratelli che si respira in tutta la dettatura della lettera. Contrasto avallato con le posture fisiche che assumono i due e che non lasciano dubbi al riguardo. Peppino è sempre in posizione subalterna al fratello piegato sul secretaire a ritrascrivere quanto gli viene dettato e volge sempre il fianco, o le spalle, alla macchina da presa ; Totò, sin da subito, assume una postura dominante – leggermente inarcato all’indietro, lo sguardo proteso verso l’alto, le mani poste sui baveri della giacca – quasi a voler ricordare, in parte, alcune di quelle con le quali Mussolini imboniva le folle. Non soltanto verbalmente, quindi, ma anche fisicamente Totò domina Peppino dall’inizio alla fine della scena ed è l’unico che, in tutta la gag, si pone frontalmente alla macchina da presa. Anche i continui rimbrotti – stizziti – che volge al fratello sono, spesso e volentieri, rimarcati fisicamente come quando, ad esempio, si porta la mano alla fronte per sottolineare, maggiormente, che lui la lettera ce l’ha tutta lì, nella testa appunto. O ancora quando vuole rimarcare alcuni suoi passaggi verbali ponendo le sue mani in maniera irruenta sulle braccia di Peppino. Come si evince da questi spunti è, quindi, letteralmente impossibile scorporare le varie componenti della comicità di Totò. Troppe sue gags non sarebbero state tali se non alimentate dalla fisicità straordinaria del suo corpo ed, al contempo, senza una straordinaria verbalità troppe sue posture fisiche sarebbero trasfigurate in meschine parodie macchiettistiche destinate ad impallidire col tempo.
* C’è soltanto un’altra lettera che può essere paragonata a questa ma è stata pensata, scritta e recitata in ambito teatrale. E’ la “letterina” di Natale che Tommasino Cupiello rivolge alla mamma in occasione del Santo Natale. Questa lettera è tratta dalla commedia di Eduardo “Natale in casa Cupiello” e si connota di un pathos molto diverso.
Il primo aspetto che va rimarcato è che questa scena è frutto di un canovaccio totalmente stravolto da una straordinaria estemporaneità dei due attori. Si sono raccontati molti aneddoti sulla sua genesi e si sono spesi profluvi di parole atte a sconfessarne, o meno, questa sua presunta peculiarità. Io sono dell’avviso che la ripresa sia partita da una falsariga del copione ma che sia stata, in corso d’opera, opportunamente ritoccata. Le motivazioni che avallano questa mia convinzione sono varie ma riconducibili, sostanzialmente, a due considerazioni. La prima, e più evidente, concerne la recitazione e la fisicità che Peppino De Filippo assume durante la ritrascrizione della lettera. Faccio notare come, grosso modo a metà della stesura, Peppino continui a ritrascrivere, quanto dettatogli da Totò, sempre e soltanto sull’ultimo rigo del foglio. Questo significa, ovviamente, che il copione prevedeva una stesura della lettera di gran lunga più breve. Ma, altresì, di come, ed a più riprese, Peppino ponga un argine alla funambolica improvvisazione di Totò e, attraverso un gioco di sponde, ne incanali il flusso che, altrimenti, rotti gli argini, straborderebbe senza freni reincanalandolo nel canovaccio prestabilito. Peppino De Filippo, quindi, svolge un duplice compito ed è, a mio giudizio, formidabile. E’ una scena, questa, dove, contrariamente alle apparenze che lo vedrebbero in posizione succuba, si pone, nell’ottica della recitazione, su un ambito perfettamente paritario richiamandomi, in questo, le interpretazioni che caratterizzarono Aldo Fabrizi quando si trovò a girare dei lungometraggi in contrapposizione proprio a Totò. Tutta la recitazione di Peppino De Filippo va letta, a mio giudizio, attraverso queste due chiavi di interpretazione. Anche la fatica fisica che esprime quando si asciuga la fronte con un fazzoletto va letta in una duplice ottica. Da un lato offre sponda all’ennesima gag di Totò che lo biasima apostrofandolo con un “Ma che stai facendo una faticata ! Ti asciughi il sudore !” ma, dall’altro, con un sospiro appena percettibile, fa capire a Totò le difficoltà che sta incontrando nel reggere questo canovaccio improvvisato invitandolo a rientrare nella falsariga del copione. Non a caso, infatti, Totò – pur concedendosi, ancora, un paio di brevi digressioni – rientra nei canoni della sceneggiatura e volge alla conclusione.
La seconda motivazione concerne, invece, l’altalenante vis comica di Totò che alterna a delle gags semplicemente sfavillanti alcune pause e cadute di tono. Anche se, a ben vedere, nell’economia della scena, questa asincronia recitativa fornisce il destro ad una maggiore naturalezza e verosimiglianza di tutta quanta la ripresa. Una ripresa, va evidenziato, nella quale ci sono due soli cambi di campo – in fase di montaggio – concernenti le espressioni sconcertate della sorella circa la effettiva adeguatezza della stesura di quella lettera ma che, al di fuori di questo, è caratterizzata da una ossessiva fissità dell’obiettivo cinematografico.
Entrando, adesso, nel merito specifico della lettera direi che la prima cosa che va sottolineata è che questa stesura ha una struttura incardinata su due opposte polarità. Totò e Peppino (i fratelli Caponi) sono, esattamente, agli antipodi nel modo di concepire la vita. Se Totò è un prodigo godereccio e spendaccione tanto da rimanere, sistematicamente, senza un soldo in tasca ed è costretto, gioco forza, a chiedere continuamente prestiti pecuniari al fratello, Peppino è il classico contadino parco e parsimonioso morbosamente legato al denaro che preserva in una scatola nascosta sotto una mattonella. Questa rapporto antitetico lo si respira in ogni frangente della dettatura della missiva persino quando Totò, ad un certo punto, per chiudere un capoverso detta a Peppino una sequela di “punto, punto e virgola, punto e un punto e virgola” attirandosi il biasimo del fratello che lo rimprovera dicendogli : “Troppa roba !” . Peppino è, quindi, parsimonioso financo nella ritrascrizione di un testo e si pone, esattamente, agli antipodi, appunto, della prodigalità di Totò che non lesina, esasperandola, neanche sulla punteggiatura. Questo canovaccio della parsimonia contrapposta alla prodigalità tornerà, spesso e volentieri, nei lungometraggi che vedrà impegnati i due attori e ricalcherà una connotazione tipica dei due anche nella vita reale. Se Peppino De Filippo è stato, in vita, un uomo molto parsimonioso ed avveduto Totò, viceversa, è morto quasi cieco e quasi senza una lira in tasca.
Tornando alla lettera l’altra caratteristica predominante è la cosciente storpiatura del linguaggio e della sintassi avallata e resa credibile dal fatto che entrambi, provenendo dal contado, sono profondamente ignoranti. Questa ignoranza è, però, una interessante chiave di lettura che sottende a tutte quelle storpiature che Totò opererà nella stesura della missiva. Totò, assai più di Peppino, avverte il disagio del suo status sociale – palese il richiamo al loro provincialismo – e cerca di compensare questo gap facendo ricorso a diversi escamotage. Uno di questi è il ricorso ad una improbabile citazione latina quale quel “abbondantis i abbondandum” che avalla la sua generosa elargizione dei due punti – intesi non come “:” ma come “. .” – al termine di un capoverso della lettera. L’estemporanea ilarità che suscita dipende dal fatto che noi avvertiamo, distintamente, uno stridente contrasto tra quello che è il “suo” latino e quello che dovrebbe essere il “vero” latino. Ma ad una visione più approfondita non posso non andare, con la memoria, al personaggio manzoniano di don Abbondio e leggere, quindi, questa gag proprio come un richiamo, ed una parodia evidentemente, del dialogo tra questi e Renzo Tramaglino. Infatti alla stregua di don Abbondio, che utilizza il latino proprio come escamotage per mettere una distanza di sicurezza linguistica fra lui e Renzo Tramaglino ma, alla fin fine, per giustificare, agli occhi di questi ed ai suoi medesimi, la propria infingardaggine, anche Totò utilizza il “latino” per frapporre una barriera linguistica tra se ed il fratello atta a giustificare, agli occhi suoi ma, soprattutto, a quelli di Peppino, la propria prodigalità sia pure in una mera questione di punteggiatura.
Un altra caratteristica della lettera sono i tipici giochi di sponda che si instaurano, spessissimo, nella comicità di Totò ed uno di questi sorge proprio all’inizio della lettera. Quel “signorina” ripetuto, sapientemente, due volte invita Peppino De Filippo a girarsi – è una delle poche scene, forse l’unica, nella quale vediamo il volto di Peppino preso frontalmente – ed a chiedere al fratello dove sia questa fantomatica signorina. Totò raccoglie la sponda e, anche fisicamente, esprime la sua sorpresa sul fatto che questa signorina sia entrata nella loro stanza senza essersene avveduto. Come un gioco di specchi, questa volta è Totò che offre sponda a Peppino che, appunto, pronuncia la parola “Avanti !” quasi a farla accomodare. Quella parola è, ovviamente, un’altra sponda che Totò raccoglie chiudendo la prima parte della scena con il famigerato : “Animale ! Signorina ! E’ l’intestazione autonoma della lettera !”. Vediamo, quindi, come, tecnicamente parlando, si snodi la vis comica di Totò – sarebbe meglio dire di entrambi – e di come, quindi, con una sola parola, riescano a creare un gioco di quattro sponde. Ovvio che ogni sponda, caricandosi della verve della precedente, porti in dote un quid sempre crescente di ilarità che, arrivata al suo zenith, deve esplodere – pena la sua implosione che potremmo definire, in linguaggio astronomico, nadir donde la sua incomprensibilità – in maniera fragorosa. La deflagrazione di questo gioco di sponde è proprio quell’ “Animale ! Signorina ! E’ l’intestazione autonoma della lettera !” nella quale la “tensione” sapientemente alimentata esplode e “ci” fa esplodere in una risata liberatoria. Tra l’altro questa specifica di Totò, “intestazione autonoma” appunto, è paradossale ma pone in risalto anche alcune anomalie della lingua che, di volta in volta, in tutta la sua produzione cinematografica Totò sfrutterà coniando dei neologismi e piegando l’essenza stessa della semantica del linguaggio ad uso proprio. Nello specifico, comunque, che l’intestazione di una lettera possa essere indipendente dal contenuto della stessa è palese. Ma questa sua indipendenza la rende, appunto, “autonoma” dal contesto per cui, per quanto paradossale ed ilare ci appaia, la definizione di “intestazione autonoma” sembra proprio renderne assai meglio la particolarità. Un altro escamotage che Totò utilizza è quello della ricostruzione lessicale della lingua italiana. Una ricostruzione esasperata e paradossale volta, però, a mettere in nuce alcune anomalie anche fonetiche del linguaggio. Ad un certo punto, infatti, Totò si sofferma scientemente – con grande “mestiere” di attore teatrale – su un capoverso della stesura ossia quel “Che avreta, che avreta, che avreta” che suscita una immediata ilarità dallo stridente contrasto che si instaura tra l’accezione corretta – avrete – e quella storpiata di Totò – avreta – ma che, ad una seconda lettura si rivela assai più caustica in quanto, foneticamente, la parola “avreta” ricalca molti participi passati che sono, al contempo, utilizzati come tali ma anche come aggettivi e declinati, quindi, sia al maschile che al femminile. Il participio passato di un verbo sinonimo come “assegnare”, ad esempio, è assegnato. Ma questa parola è anche utilizzata come aggettivo e, come tale, viene declinata sia al maschile (assegnato) che al femminile (assegnata) appunto. E che questa sia la corretta accezione paradossale che le conferisce Totò ci è confermata proprio dal fatto che, per avallarne questa improbabile declinazione, Totò sottolinea, con forza, questa sua ricostruzione con la frase successiva “…Eh già, è femmina, è femminile”. Oppure con ancora più improbabili ricostruzioni grammaticali quali l’attribuzione alla parola “perché” di una esilarante, quanto mai fantomatica, connotazione di aggettivo qualificativo. E qui si apre un gustoso siparietto tra i due imperniato proprio sulla duplice connotazione grammaticale della parola “perché” in quanto, in analisi grammaticale, questa parola può avere due attribuzioni : congiunzione e avverbio interrogativo. Totò la detta come congiunzione – “Dal dispiacere che avreta perché”– mentre Peppino, in fase di ritrascrizione la interpreta come avverbio interrogativo – offrendogli quindi una sponda – tant’è che quando Totò pronuncia la parola “perché” lui si interpone dicendo “Non so” interpretandola, quindi, come avverbio interrogativo come se Totò gli avesse posto una domanda e riportando sulla lettera questa trascrizione : “Dal dispiacere che avreta perché ?” donde, per l’appunto, la sua risposta, il suo “Non so”. Un’altra piccola storpiatura del linguaggio Totò la opera quando detta a Peppino che il giovanotto “Deve tenere la testa al solito posto, cioè sul collo”. Chiara, qui, la sua reinterpretazione di un modo di dire – mettere la testa a posto – con una connotazione anatomica. Sono questi quattro elementi, a mio giudizio, i cardini verbali principali dove si impernia tutta la scena. Tutto il resto della dettatura, pur seguendo la falsariga di una cosciente storpiatura del linguaggio e della sintassi non ha la stessa verve di questi quattro elementi che ho isolato ed analizzato ma funge, per così dire, da corollario. E’ in questi frangenti che si respira quella asincronia recitativa cui ho fatto, dianzi, menzione. Ad ogni modo tutti questi artifizi linguistici sono volti a contrassegnare il contrasto, forte, tra i fratelli che si respira in tutta la dettatura della lettera. Contrasto avallato con le posture fisiche che assumono i due e che non lasciano dubbi al riguardo. Peppino è sempre in posizione subalterna al fratello piegato sul secretaire a ritrascrivere quanto gli viene dettato e volge sempre il fianco, o le spalle, alla macchina da presa ; Totò, sin da subito, assume una postura dominante – leggermente inarcato all’indietro, lo sguardo proteso verso l’alto, le mani poste sui baveri della giacca – quasi a voler ricordare, in parte, alcune di quelle con le quali Mussolini imboniva le folle. Non soltanto verbalmente, quindi, ma anche fisicamente Totò domina Peppino dall’inizio alla fine della scena ed è l’unico che, in tutta la gag, si pone frontalmente alla macchina da presa. Anche i continui rimbrotti – stizziti – che volge al fratello sono, spesso e volentieri, rimarcati fisicamente come quando, ad esempio, si porta la mano alla fronte per sottolineare, maggiormente, che lui la lettera ce l’ha tutta lì, nella testa appunto. O ancora quando vuole rimarcare alcuni suoi passaggi verbali ponendo le sue mani in maniera irruenta sulle braccia di Peppino. Come si evince da questi spunti è, quindi, letteralmente impossibile scorporare le varie componenti della comicità di Totò. Troppe sue gags non sarebbero state tali se non alimentate dalla fisicità straordinaria del suo corpo ed, al contempo, senza una straordinaria verbalità troppe sue posture fisiche sarebbero trasfigurate in meschine parodie macchiettistiche destinate ad impallidire col tempo.
* C’è soltanto un’altra lettera che può essere paragonata a questa ma è stata pensata, scritta e recitata in ambito teatrale. E’ la “letterina” di Natale che Tommasino Cupiello rivolge alla mamma in occasione del Santo Natale. Questa lettera è tratta dalla commedia di Eduardo “Natale in casa Cupiello” e si connota di un pathos molto diverso.