Tratto sempre dal medesimo lungometraggio – Totò, Peppino e la malafemmina – questo, insieme a qualche altra sequenza, è un’altro piccolo sketch passato alla storia e mutuato nel linguaggio comune. Mi riferisco a quel celeberrimo “Per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare” una sorta di scioglilingua quasi privo di senso che, pure, è stato assorbito nell’immaginario collettivo come uno dei tratti caratteristici della comicità di Totò. Ma quella che è una applicazione di una figura retorica – lo vedremo meglio in seguito – ha un necessario preludio proprio in una sorta di atavica diffidenza cha agli occhi dei fratelli Caponi, proprietari terrieri del profondo sud, suscita la presenza di un vigile urbano in piazza del Duomo. La situazione ha del grottesco e per conferire una verosimiglianza alla scenetta ogni particolare viene esasperato e teso fino all’assurdo. A cominciare proprio dalla postura marziale che assume il vigile urbano che offre la prima sponda a Peppino che lo scambia per un militare ; questo “scambio” è un’altra sponda su cui si inserisce Totò che esaspera ulteriormente la postura caricaturale del vigile scambiandolo, addirittura, per un generale austriaco. Il pathos è, oramai, giunto all’apice. La chiusura della gag è riservata a Peppino che stempera le preoccupazioni del fratello ricordandogli che “Siamo alleati”. E qui va fatto un doveroso inciso. Perché Totò usa l’espressione “generale austriaco” ? Avrebbe potuto usare la semplice locuzione “generale” oppure connotarlo con un’altra nazionalità. Quando io sottolineo che Totò va letto su più chiavi interpretative lo faccio a ragion veduta. Questo ne è un piccolo – ma significativo – esempio. Nell’immaginario collettivo del novecento, la marzialità è stata sempre associata al nazionalsocialismo e/o comunque a qualcosa connaturato alla teutonicità. Le pellicole propagandistiche con le quali il Reich inondava i cinegiornali di tutto il mondo erano intrise di questo spirito militarista accentuato dal desiderio del fuhrer di trasmettere, all’estero, una immagine nuova e all’avanguardia della nuova Germania che si andava affacciando nel novero delle grandi potenze continentali. Quando, di contro, in Italia sbarcarono gli alleati le riprese dei cineoperatori al seguito delle truppe non le mostrarono mai in atteggiamenti marziali ma, all’opposto, alle prese con la popolazione in guise confidenziali, niente affatto ortodosse e niente affatto confacenti ad un esercito di occupazione quale, in quel momento, gli anglo americani pure erano. Le iconografie che invasero il nostro paese ed i registi che si attivarono a questi fini propagandistici dovevano contrassegnare questa ennesima invasione d’Italia con una clamorosa rottura d’immagine rispetto al regime fascista ed alle invasioni pregresse. Fu una grandissima operazione di propaganda bellica senza precedenti che, a distanza di più di mezzo secolo, fa ancora vibrare le corde della emotività collettiva della società italiana. Tornando alla nostra scenetta, però, Totò non utilizza l’aggettivo tedesco bensì austriaco. E a ragion veduta poiché il film è del 1956 ossia poco meno di cent’anni dopo l’unità nazionale. Appena un secolo prima la città di Milano, insieme al Veneto, faceva parte di quel Lombardo-Veneto che era uno stato federato all’impero austro-ungarico. E l’effetto ironico che sortisce è il medesimo perché la connotazione austriaca si riallaccia, inevitabilmente, a quella teutonicità dianzi menzionata. Non appena si avvicinano, timidamente, al vigile urbano sorge un gustoso equivoco perché questi interloquisce – in milanese – chiedendo loro : “Ma perché mi ha preso per un tedesco ?”, offrendo sponda a tutto il successivo monologo di Totò che, in un quanto mai improbabile tedesco, cerca di ottenere le informazioni di cui necessita. Un tedesco che, ahimè, onomatopeicamente, ricorda un raffazzonatissimo francese storpiato e reinventato alla bisogna. Solo quando questo primo scambio di battute termina il vigile interloquisce in italiano – “Bisogna che parliate in italiano perché io non vi capisco” – suscitando la gioia, certo, ma – e questo è assai emblematico – soprattutto lo stupore dei fratelli Caponi ; stupore avallato da un rapidissimo scambio di battute passato quasi in sordina tra Totò ed il vigile urbano perché alla di lui obiezione – “Ma scusate dove vi credevate di essere ? Siamo a Milano qua !” – Totò risponde con un rapidissimo e sibillino “Appunto, lo so !” denotando, quindi, da un lato una chiara consapevolezza di dove sia – a Milano e, quindi, in Italia – ma denunciando, dall’altro, quella atavica diffidenza ed incomunicabilità che caratterizzerà tanta parte della nostra emigrazione nel dopoguerra. Teniamo conto che in Italia, in quegli anni, si parlava ancora essenzialmente il dialetto. La massificazione della lingua italiana sarà una conquista successiva e caratterizzerà tanta parte della programmazione televisiva che prenderà le mosse a partire proprio da quegli anni. Questa incomunicabilità è, però, bivalente. Al termine della scenetta sarà proprio il vigile urbano scandendo chiaramente una battuta – “Ma da dove venite ? Dalla val Brembana ?” – ad avvalorare, ulteriormente, questa enorme problematica che attanagliò l’Italia post-bellica quando, avviata la ricostruzione, enormi masse di manovalanza a basso costo si trasferì dal profondo sud alle grandi aree industriali metropolitane (Milano, Genova e Torino). Altri registi hanno affrontato questa enorme crisi sociale che interesserà lo stivale in quegli anni e anche in quelli successivi. Ma solamente Totò è riuscito, scandendo pochissime battute, a darle un taglio amaro ma ironico. Analizziamo, ora, la famosa frase menzionata all’inizio della presente stesura, quel “Per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare” che è diventata una di quelle frasi celebri di Totò che sono state mutuate nel linguaggio comune degli italiani alla stregua di quel “E io pago !” o di quell’ “A prescindere”. Innanzi tutto va fatto notare come Peppino rimarchi, tutte le volte, la parola andare. Pronunciata nitidamente da Totò tre volte viene, quasi in sordina, ripetuta altrettante volte da Peppino conferendo una ensamble quasi musicale. E’, a ben vedere, il verbo più importante che caratterizza tutta la frase. Una frase costituita, strutturalmente, da una preposizione iniziale – per andare – da una preposizione secondaria – dove dobbiamo andare – e da una preposizione finale – per dove dobbiamo andare – che, foneticamente, ricorda tantissimo gli artifizi musicali che connotano tanta parte della recitazione verbale di Totò. Parlo di artifizi musicali perché la parola scioglilingua non rende, appieno, giustizia a questo tipo di espressione artistica. La produzione cinematografica di Totò è stata, sovente, costellata da queste locuzioni ripetitive ai limiti dell’assurdo ma tutte, foneticamente parlando, deliziose. Dal celeberrimo “questore in questura a quest’ora” al non meno celebre “lei è un paziente che non ha pazienza e che razza di paziente è, abbia pazienza”.
Ritornando alla frase di cui sopra vorrei soffermarmi, però, sull’aspetto della costruzione logica e grammaticale del periodo. Tenendo conto che, nella specifica circostanza, i fratelli Caponi cercano un teatro a Milano dove viene messa in scena la rivista “La caravella delle donne perdute”, la frase corretta sarebbe potuta essere una del tipo : “per andare, al teatro dove danno la rivista, per dove dobbiamo andare” anche se, pronunciata così, svanirebbe, d’incanto, ogni verve comica e grottesca.
Se, adesso, proviamo a raffrontare le due frasi possiamo notare una cosa singolare :
per andare, al teatro dove danno la rivista, per dove dobbiamo andare
per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare.
Le due frasi sono, praticamente, identiche all’inizio ed alla fine. Differiscono, soltanto, nel periodo secondario. E’, quindi, questo il periodo su cui si impernia il meccanismo che suscita l’ilarità. Se ne effettuiamo l’analisi del periodo noteremo come, entrambe, siano delle preposizioni di moto a luogo. E, quindi, nello specifico, non soltanto abbiamo un richiamo onomatopeico, alla stregua di uno scioglilingua, ma abbiamo, da un punto di vista strutturale, una frase sintatticamente corretta. Ma c’è anche un secondo aspetto interessante e, cioè, che quel “dove dobbiamo andare” costituisce, a ben vedere, una metafora. La metafora è, appunto, una figura retorica che consiste nell’utilizzare una parola diversa da quella che andrebbe, comunemente, utilizzata ma che racchiuda, parimenti, un significato logico equipollente. Se, ad esempio, io volessi rendere l’idea del coraggio, della forza e del valore che Achille, l’eroe omerico, profondeva in battaglia potrei fare ricorso proprio ad una figura retorica come la metafora. Invece di scrivere : “Achille è forte, coraggioso e valoroso in battaglia” potrei, parimenti, scrivere : “Achille è un leone in battaglia”. Con una parola – leone appunto – io renderei, la stessa idea conferendo a quel periodo la medesima valenza semantica perché alla parola leone, contestualizzata nella frase, si assocerebbero proprio quelle connotazioni – coraggio, forza, valore – che voglio esprimere. La parola “leone”, quindi, costituisce proprio la figura retorica della metafora. E se voglio che la mia metafora non perda di incisività e di connotazione simbolica non posso che utilizzare figure similari. Al posto di leone, per intenderci, potrei utilizzare la parola tigre che, alla stessa stregua, potrebbe renderne l’idea. Ma se utilizzassi la parola elefante la mia metafora perderebbe di incisività. A maggior ragione se utilizzassi la parola cerbiatto. Se scrivessi, infatti, che “Achille è un cerbiatto in battaglia” non renderei, punto, l’idea del coraggio, del valore e della forza di Achille ma, di contro, suggerendone la codardia e la mollezza, renderei la mia metafora assolutamente inadeguata. Esaminando, quindi, il periodo “dove dobbiamo andare” alla luce di queste considerazioni, non possiamo, quindi, che prendere atto che questo periodo costituisce, appunto, proprio una metafora perché quel “teatro dove danno la rivista” è proprio il luogo dove i fratelli Caponi devono andare e quindi è proprio quel “dove dobbiamo andare” che proferisce Totò.
Una metafora che è, al contempo, assolutamente incomprensibile agli “occhi” del vigile urbano – che, per l’appunto, non capisce assolutamente nulla – ma che è assolutamente comprensibile allo spettatore che segue il film. Ecco, quindi, un altro contrasto stridente. Si ride perché noi capiamo cosa voglia dire Totò e ridiamo perché lo proferisce in maniera duplice : comprensibile per noi e assolutamente incomprensibile per il suo interlocutore. E ridiamo, vieppiù, perché richiamando – da un punto di vista fonetico – la frase precedente e susseguente si crea un effetto, anche acusticamente parlando, armonico. Ecco perché, a mio giudizio, quel “Per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare” resta, a dispetto di oltre mezzo secolo, una delle gag più famose della produzione cinematografica di Totò.
Ritornando alla frase di cui sopra vorrei soffermarmi, però, sull’aspetto della costruzione logica e grammaticale del periodo. Tenendo conto che, nella specifica circostanza, i fratelli Caponi cercano un teatro a Milano dove viene messa in scena la rivista “La caravella delle donne perdute”, la frase corretta sarebbe potuta essere una del tipo : “per andare, al teatro dove danno la rivista, per dove dobbiamo andare” anche se, pronunciata così, svanirebbe, d’incanto, ogni verve comica e grottesca.
Se, adesso, proviamo a raffrontare le due frasi possiamo notare una cosa singolare :
per andare, al teatro dove danno la rivista, per dove dobbiamo andare
per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare.
Le due frasi sono, praticamente, identiche all’inizio ed alla fine. Differiscono, soltanto, nel periodo secondario. E’, quindi, questo il periodo su cui si impernia il meccanismo che suscita l’ilarità. Se ne effettuiamo l’analisi del periodo noteremo come, entrambe, siano delle preposizioni di moto a luogo. E, quindi, nello specifico, non soltanto abbiamo un richiamo onomatopeico, alla stregua di uno scioglilingua, ma abbiamo, da un punto di vista strutturale, una frase sintatticamente corretta. Ma c’è anche un secondo aspetto interessante e, cioè, che quel “dove dobbiamo andare” costituisce, a ben vedere, una metafora. La metafora è, appunto, una figura retorica che consiste nell’utilizzare una parola diversa da quella che andrebbe, comunemente, utilizzata ma che racchiuda, parimenti, un significato logico equipollente. Se, ad esempio, io volessi rendere l’idea del coraggio, della forza e del valore che Achille, l’eroe omerico, profondeva in battaglia potrei fare ricorso proprio ad una figura retorica come la metafora. Invece di scrivere : “Achille è forte, coraggioso e valoroso in battaglia” potrei, parimenti, scrivere : “Achille è un leone in battaglia”. Con una parola – leone appunto – io renderei, la stessa idea conferendo a quel periodo la medesima valenza semantica perché alla parola leone, contestualizzata nella frase, si assocerebbero proprio quelle connotazioni – coraggio, forza, valore – che voglio esprimere. La parola “leone”, quindi, costituisce proprio la figura retorica della metafora. E se voglio che la mia metafora non perda di incisività e di connotazione simbolica non posso che utilizzare figure similari. Al posto di leone, per intenderci, potrei utilizzare la parola tigre che, alla stessa stregua, potrebbe renderne l’idea. Ma se utilizzassi la parola elefante la mia metafora perderebbe di incisività. A maggior ragione se utilizzassi la parola cerbiatto. Se scrivessi, infatti, che “Achille è un cerbiatto in battaglia” non renderei, punto, l’idea del coraggio, del valore e della forza di Achille ma, di contro, suggerendone la codardia e la mollezza, renderei la mia metafora assolutamente inadeguata. Esaminando, quindi, il periodo “dove dobbiamo andare” alla luce di queste considerazioni, non possiamo, quindi, che prendere atto che questo periodo costituisce, appunto, proprio una metafora perché quel “teatro dove danno la rivista” è proprio il luogo dove i fratelli Caponi devono andare e quindi è proprio quel “dove dobbiamo andare” che proferisce Totò.
Una metafora che è, al contempo, assolutamente incomprensibile agli “occhi” del vigile urbano – che, per l’appunto, non capisce assolutamente nulla – ma che è assolutamente comprensibile allo spettatore che segue il film. Ecco, quindi, un altro contrasto stridente. Si ride perché noi capiamo cosa voglia dire Totò e ridiamo perché lo proferisce in maniera duplice : comprensibile per noi e assolutamente incomprensibile per il suo interlocutore. E ridiamo, vieppiù, perché richiamando – da un punto di vista fonetico – la frase precedente e susseguente si crea un effetto, anche acusticamente parlando, armonico. Ecco perché, a mio giudizio, quel “Per andare, dove dobbiamo andare, per dove dobbiamo andare” resta, a dispetto di oltre mezzo secolo, una delle gag più famose della produzione cinematografica di Totò.