Uno dei lungometraggi di Totò al quale son più affezionato, è “Destinazione Piovarolo”, girato nel 1955, per la regia di Domenico Paolella e con un cast che contemplava, tra gli altri, Paolo Stoppa, Marisa Merlini, Tina Pica, Leopoldo Trieste, Giacomo Furia ed Arnoldo Foà. E’ un film, così detto, minore quasi misconosciuto che narra le vicissitudini di Antonio La Quaglia (Totò) che, pur arrivando 850° con un punto soltanto, vince un concorso bandito, il 15 marzo 1922, dalle ferrovie dello stato per 850 aspiranti capistazione di terza classe e viene, così, assegnato alla stazione ferroviaria di Piovarolo, un paesino sperduto arrampicato sulle pendici dell’Appennino in una località, però, non ben precisata dello stivale – anche se tutto lascia trapelare che ci troviamo nel profondo sud – così denominato perché prende il nome dal Piovano Arnulfo – come legge Totò al suo immaginario alter ego l’ingegnere George Stephenson, l’inventore della locomotiva, e che sarà, per così dire, il coprotagonista surreale del lungometraggio – che la fondò nel 1325 ma che, in realtà, mutua questo nome proprio perché, per gran parte dell’anno, è martoriato da perenni precipitazioni. Ben presto, però, Totò prende coscienza che il suo trasferimento è una sorta di confino. Persino i treni non vogliono saperne di fermarsi a Piovarolo ; il paese non è contemplato, se non per un convoglio locale, neanche come scalo dalle ferrovie dello stato. Ed è in questa Italia minore, direi insignificante, che il film ripercorre la storia recente del paese dall’avvento del fascismo – siamo nel 1922, anno della marcia su Roma – al dopoguerra ed agli anni della ricostruzione. Una prospettiva particolare per un obiettivo capovolto visto e considerato che le grandi produzioni cinematografiche di quegli anni che cercavano di narrare gli eventi della storia recente non avevano, come sfondo, delle località avulse dai grandi contesti storici. Potremmo, anzi, dire che “Destinazione Piovarolo” è un film insignificante che tratta la storia di un paesino insignificante in un contesto sociale insignificante che fa da sfondo ad una storia, quella del capostazione Antonio La Quaglia, insignificante. L’unico momento nel quale la Storia (con la esse maiuscola) sembra accorgersi della esistenza del comune di Piovarolo è quando, proprio il 28 ottobre del 1922 – il giorno della marcia su Roma – , piovono – è il caso di dire – in questa località un esponente di prestigio del partito socialista – Marcello Gorini, interpretato da un superbo Paolo Stoppa – ed un esponente del partito popolare – l’onorevole De Fazio, interpretato da Enrico Varisio – i quali, essendo venuti a conoscenza che nel paese è in fin di vita tale Ernesto, uno degli ultimi reduci della spedizione garibaldina del 1860, cercano, fraudolentemente, di indurre il vecchio reduce a modificare la celeberrima frase – che Ernesto soleva ripetere senza sosta fino alla nausea al circolo di Piovarolo suscitando una stantia e seccata reazione in Totò – che Garibaldi avrebbe dettato, a Nino Bixio e che è passata nella bolsa retorica risorgimentale – “Caro Nino, qui si fa l’Italia o si muore” – con una locuzione pro domo sua conferendole accezioni, via via, differenti dal “Caro Nino, qui si fa l’Italia socialista o si muore” al “Caro Nino, qui si fa l’Italia popolare o si muore” passando al “Caro Nino, qui si fa l’Italia popolar-socialista o si muore” in un crescendo, grottesco, di locuzioni assolutamente improbabili ed, il tutto, nella speranza che questa fraseologia ex novo, questa ennesima figura retorica insomma, possa, in qualche maniera, costituire un baluardo insormontabile all’avvento del fascismo. Un tentativo meschino che, naturalmente, naufraga inesorabilmente ma che, se vogliamo, richiama proprio quella sorta di opposizione aventiniana che, nei fatti, fu la più preziosa alleata del fascismo all’atto della costituzione del primo gabinetto Mussolini. D’altronde il riferimento all’Aventino mi sembra assai palese perché sia l’onorevole Gorini che l’onorevole De Fazio invece di opporsi, in parlamento, all’ascesa del fascismo, abbandonano l’aula di Montecitorio, girano lo stivale e si recano a Piovarolo – in cerca, in fondo, di non si sa bene cosa – lasciando, così, campo libero proprio all’avvento del duce ed alla instaurazione dello stato fascista. E’ un film molto particolare e molto amaro che va inquadrato su vari livelli. La storia di Antonio La Quaglia è una parabola di quella di tanti italiani “comuni” che assistono pavidi, inerti, quasi increduli al passaggio impetuoso ed implacabile della Storia. Emblematica, a tal riguardo, è la scena nella quale i portaborse degli onorevoli Gorini (Carlo Mazzarella) e De Fazio (Giacomo Furia) abbandonano i loro referenti politici per salire, metaforicamente ma anche fisicamente, sul carro del vincitore – in questo caso si tratta di un treno pieno di camicie nere che transita, in quel momento, proprio nella stazione di Piovarolo – proferendo, distintamente, un “A noi !” sotto lo sguardo incredulo degli astanti – Gorini, De Fazio, Beppa (Tina Pica) e La Quaglia – che si riallaccia a quella nella quale, a guerra finita, un esponente del governo democristiano (sempre Giacomo Furia che, nel frattempo, è asceso ai vertici della neonata DC) viene ad inaugurare il ripristino del nome originale al paese a cui, durante il ventennio, il regime aveva cambiato denominazione – da Piovarolo a Rocca Imperiale – e, nel quale, Antonio La Quaglia riconosce proprio il portaborse dell’onorevole De Fazio che, adesso, finge di non ricordare assolutamente nulla di quell’incontro il che induce Totò a proferire, quasi a mezza voce, una frase molto caustica : “Non si ricorda ? E non è il solo”.
Siamo ad appena dodici anni dalla fine del conflitto – è bene sottolinearlo – e, nel mare magnum delle celebrazioni cinematografiche agiografiche di quegli anni, una frase del genere non poteva, gioco forza, che passare sotto silenzio. E’ troppo recente quel passato che si vuole obnubilare in quegli anni nei quali si cerca di sostituire, alla bolsa retorica fascista – chiaramente menzionata in locuzioni improbabili ma, effettivamente, declamate in quegli anni come quel “Arrivedervi” che pronuncia Sara (Marisa Merlini) la maestra ebrea che, di lì a poco, diverrà la moglie di Totò al podestà del paese (Arnoldo Foà) –, una retorica nuova contrassegnata dal mito della resistenza. Eppure anche la Storia – sempre con la S maiuscola – transita nel comune di Piovarolo delegando ai dispacci, che pervengono sulla scrivania del capostazione, le notifiche dei mutamenti politici e sociali che avvengono in quegli anni. Dal telegramma che accompagna il recapito della spilla del partito nazionale fascista alla introduzione della tassa sul celibato alla introduzione, nel paese, delle leggi razziali. E l’unica “persona” con la quale il povero La Quaglia può interloquire e commentare, amaramente, il profilo del nuovo scenario che si va delineando in Italia in quegli anni è, proprio, l’ingegner Stephenson al quale Totò confida, in “camera caritatis”, il proprio disappunto. Un timido tentativo di fronda al regime cerca di metterlo in atto disattendendo al precetto secondo il quale la spilla del partito va apposta nell’occhiello della giacca – accompagnando la scena con un grottesco, quanto amarissimo, ricorso all’Amleto di Shakespeare – adducendo a sé stesso, prima ancora che all’ingegnere, il fatto che lui, sulla giacca, occhielli non ne ha ed infilandosi, così, il distintivo in tasca salvo, poi, obbedire alla disposizione impartitagli a seguito di una circolare ufficiale nella quale gli si rimproverano scarsi sentimenti fascisti. Qui è chiara l’allusione al fatto che, in quel periodo, vi furono troppi zelanti collaborazionisti del regime i quali, pur di ottenere qualche scarna prebenda, non lesinavano di inoltrare missive delatorie nei confronti di chicchessia. E quanto fosse perniciosamente diffusa lungo tutto lo stivale questa nuova professione lo attesta il fatto che persino a Piovarolo c’è qualcheduno che trova il tempo per segnalare, all’autorità, l’inadempienza formale di Antonio La Quaglia.
Un altro dispaccio, amaramente definito da Totò un “attentato”, è l’introduzione in Italia della tassa sul celibato che indurrà, effettivamente, moltissimi italiani indigenti a contrarre un matrimonio, anche solo pro forma, pur di eludere l’ennesima, assurda, gabella. Per i funzionari statali, inoltre, – ed anche questa circostanza corrisponde al vero – la prole costituiva un concomitante avanzamento nella carriera. La sceneggiatura si diverte, inoltre, ad intersecare le storie di Antonio La Quaglia e Sara poiché anche alla maestra del paese, ancora nubile ed ebrea, il podestà suggerisce di mettere la sordina al suo passato inducendole a modificare, attraverso il matrimonio, il cognome. Qui ancora non siamo alla introduzione delle leggi razziali ma il clima che si andava prefigurando era, già allora, abbastanza asfissiante per i cittadini di etnia ebraica (non uso la parola razza appositamente perché, da un punto di vista paleoantropologico, la parola razza assegnata ad una etnia è, ontologicamente, fuorviante e del tutto scorretta). Il commento all’ultimo dispaccio, il più immondo, viene lasciato alla macchina da presa che, per qualche secondo, si sofferma sul testo del telegramma che, integralmente, riporto : “Abbiamo appreso con rincrescimento il Vostro matrimonio con persona non appartenente alla razza ariana. In attesa di ulteriori provvedimenti siamo costretti a sospendere ogni iniziativa in favore della sua promozione. Saluti fascisti.”. Questa sequenza dura, complessivamente, otto secondi e non è, in alcun modo, commentata, né allora né dopo, da Totò. Persino l’ingegner Stephenson ne è, per così dire, all’oscuro.
Io non sono a conoscenza se, in fase di montaggio, ci sia stato – oppure no – un taglio di alcune sequenze, se ci sia stata, insomma, una censura. In ogni modo, anche così, questo spezzone è di una inaudita violenza perché non soltanto rimarca un provvedimento legislativo vergognoso avallato dal parlamento e controfirmato dal re – circostanza, quest’ultima, mai troppo rimarcata per non dire offuscata – ma, ancora una volta, pone l’accento sulla capillare diffusione della delazione quale costume italico nel ventennio perché il lungometraggio lascia intendere che solamente il podestà fosse a conoscenza delle vere origini della maestra Sara. Un altro piccolo accenno, ironico nonché grottesco, al fascismo ed al suo linguaggio è quando, sul tavolo del capostazione, giunge un dispaccio che annuncia il trasferimento di Antonio La Quaglia da Piovarolo a Rocca imperiale – circostanza sopra accennata – suscitando la gioia irrefrenabile di Totò frustrata, prima ancora che dal cartello apposto sulla stazione ferroviaria, dallo sguardo melanconico e dal diniego della casellante Beppa. Ed ancora, durante il conflitto, quando Totò, in cerca di abbacchio per soddisfare una voglia della consorte in dolce attesa, si reca dal podestà che, in virtù della sua posizione e del ruolo svolto all’interno dell’organigramma del partito, riesce, in barba alle disposizioni sul contingentamento delle derrate alimentari che martoriò la popolazione civile in quegli anni, ad ottenere della carne pregiata. La bolsa retorica con la quale Foà biasima Totò è un compendio sintetico, ancorché significante, di quanto il comune sentire degli italiani fosse diventato tronfio ed altisonante ma del tutto grottesco e privo di senso. Del resto il film, come la storia recente del paese, è costellato di parabole retoriche : da quella risorgimentale – “Caro Nino, qui si fa l’Italia o si muore” reiterata fino alla nausea dal trombettiere Ernesto all’inizio del lungometraggio – a quella fascista – “Arrivedervi, Rocca imperiale, saluti fascisti” – a quella del dopoguerra quando il ministro dei trasporti biasima, ancora una volta, il povero Totò reo di lasciarsi scappare un improvvido “Un posto al sole” locuzione, questa, realmente usata durante il fascismo e tesa ad avallare la guerra coloniale in Abissinia. Curioso, poi, notare come questa dicitura fascista sia diventata, addirittura, il titolo, recentemente, di una nota e seguitissima soap-opera. Anzi se c’è una cosa da rimarcare è che, nell’immediato dopoguerra, la retorica linguistica concentrò fortemente la sua attenzione nel depennare ed obnubilare, agli occhi, alle orecchie ed al cuore degli italiani, proprio quelle fraseologie in voga nel ventennio quasi non avesse, ancora, avuto il tempo di coniarne delle nuove. Un modo, anche questo, di cercare di rimuovere il passato recente volto a dimenticare il fascismo quasi fosse stata una piccola marachella ovvero una leggera divagazione dal binario principale della storia. D’altra parte l’implosione, inaspettata e repentina, del consenso al regime fascista avvenuto poco dopo lo sbarco alleato in Sicilia fu tale da indurre Churchill ad ironizzare sul fatto che, all’istante, la popolazione italiana fosse raddoppiata di numero e che, ai venti milioni di fascisti, si fossero accompagnati venti milioni di anti fascisti nati, quasi, per germinazione spontanea. Il dialogo, dianzi menzionato, tra Totò e Giacomo Furia è, a mio avviso, più esaustivo di un profluvio di parole.
Tutte queste considerazioni, però, rientrano, a mio giudizio, in una ottica ancora più vasta che potremmo focalizzare nell’ambito del rapporto che si instaura fra il potere ed il cittadino comune. Se analizziamo il lungometraggio in questa altra chiave di lettura possiamo notare che le parti del film più significanti concernono proprio quelle fra Totò ed i vari esponenti del potere politico che, per vicende ed intenti differenti, alternano la loro presenza nel comune di Piovarolo. In questo comune, infatti, Totò si relaziona dapprima con l’onorevole Marcello Gorini (partito socialista), poi con l’onorevole De Fazio (partito popolare), poi con il podestà (partito nazionale fascista) poi, a guerra finita, con l’ex portaborse dell’onorevole De Fazio (democrazia cristiana) ed, infine, con il ministro dei trasporti in persona (ancora democrazia cristiana o, almeno, così si presume). Sono, dunque, cinque i rapporti interpersonali che il capostazione Antonio La Quaglia tesse – meglio, cerca di tessere – con il potere. Eppure, nonostante il film ripercorra un lasso di tempo cospicuo – circa trenta anni – e, nonostante al potere si alternino uomini diversi di partiti diversi, di culture diverse, di epoche diverse e di linguaggi diversi, resta sempre una sorta di incomunicabilità tra questo – nelle sue varie e diverse sfaccettature – e Totò.
Il potere resta, a dispetto degli anni, a dispetto dei mutamenti formali e di immagine sempre uguale a sé stesso intento, unicamente, ad auto preservarsi sempre immutato.
Il potere è sordo alle richieste, disperate, di aiuto che Totò proferisce nel corso di tutti questi anni. E’ sordo l’onorevole Gorini che risponde, piccatissimo, alle suppliche di Totò nel 1922 così come sarebbe, parimenti, sordo l’onorevole De Fazio se non intuisse che quell’oscuro capostazione di quel remoto anfratto d’Italia, inducendo il vecchio reduce garibaldino Ernesto a dettare al notaio un testamento fraudolento, può mutare il corso della storia. E quando, a Roma, si sancisce un accordo strategico, in chiave antifascista, fra il partito socialista ed il partito popolare ecco che anche l’onorevole Gorini presta ascolto alle istanze di Antonio La Quaglia promettendogli un celere trasferimento a Napoli. Un ulteriore piccolo inciso va rimarcato su un aspetto quasi marginale del lungometraggio ma, a giudizio dello scrivente, molto pregnante : non appena Gorini e De Fazio prendono coscienza che la democrazia liberale in italia è definitivamente tramontata perdono, di colpo, la loro alterigia che, in guise diverse, li aveva contraddistinti nei loro rapporti e, dismessi i propri ruoli, ritornano sè stessi. L'interpretazione di Paolo Stoppa in questo frangente è semplicemente straordinaria perchè riesce a rendere assordante, in poco più di un minuto, lo stridente contrasto che si respira tra l'onorevole Marcello Gorini ed il professore di scuola Marcello Gorini uomo colto e mite. Sembra, quasi, che il regista voglia suggerirci che l'essenza del potere è talmente bulimica da fagocitare anche le persone migliori.
Siamo ad appena dodici anni dalla fine del conflitto – è bene sottolinearlo – e, nel mare magnum delle celebrazioni cinematografiche agiografiche di quegli anni, una frase del genere non poteva, gioco forza, che passare sotto silenzio. E’ troppo recente quel passato che si vuole obnubilare in quegli anni nei quali si cerca di sostituire, alla bolsa retorica fascista – chiaramente menzionata in locuzioni improbabili ma, effettivamente, declamate in quegli anni come quel “Arrivedervi” che pronuncia Sara (Marisa Merlini) la maestra ebrea che, di lì a poco, diverrà la moglie di Totò al podestà del paese (Arnoldo Foà) –, una retorica nuova contrassegnata dal mito della resistenza. Eppure anche la Storia – sempre con la S maiuscola – transita nel comune di Piovarolo delegando ai dispacci, che pervengono sulla scrivania del capostazione, le notifiche dei mutamenti politici e sociali che avvengono in quegli anni. Dal telegramma che accompagna il recapito della spilla del partito nazionale fascista alla introduzione della tassa sul celibato alla introduzione, nel paese, delle leggi razziali. E l’unica “persona” con la quale il povero La Quaglia può interloquire e commentare, amaramente, il profilo del nuovo scenario che si va delineando in Italia in quegli anni è, proprio, l’ingegner Stephenson al quale Totò confida, in “camera caritatis”, il proprio disappunto. Un timido tentativo di fronda al regime cerca di metterlo in atto disattendendo al precetto secondo il quale la spilla del partito va apposta nell’occhiello della giacca – accompagnando la scena con un grottesco, quanto amarissimo, ricorso all’Amleto di Shakespeare – adducendo a sé stesso, prima ancora che all’ingegnere, il fatto che lui, sulla giacca, occhielli non ne ha ed infilandosi, così, il distintivo in tasca salvo, poi, obbedire alla disposizione impartitagli a seguito di una circolare ufficiale nella quale gli si rimproverano scarsi sentimenti fascisti. Qui è chiara l’allusione al fatto che, in quel periodo, vi furono troppi zelanti collaborazionisti del regime i quali, pur di ottenere qualche scarna prebenda, non lesinavano di inoltrare missive delatorie nei confronti di chicchessia. E quanto fosse perniciosamente diffusa lungo tutto lo stivale questa nuova professione lo attesta il fatto che persino a Piovarolo c’è qualcheduno che trova il tempo per segnalare, all’autorità, l’inadempienza formale di Antonio La Quaglia.
Un altro dispaccio, amaramente definito da Totò un “attentato”, è l’introduzione in Italia della tassa sul celibato che indurrà, effettivamente, moltissimi italiani indigenti a contrarre un matrimonio, anche solo pro forma, pur di eludere l’ennesima, assurda, gabella. Per i funzionari statali, inoltre, – ed anche questa circostanza corrisponde al vero – la prole costituiva un concomitante avanzamento nella carriera. La sceneggiatura si diverte, inoltre, ad intersecare le storie di Antonio La Quaglia e Sara poiché anche alla maestra del paese, ancora nubile ed ebrea, il podestà suggerisce di mettere la sordina al suo passato inducendole a modificare, attraverso il matrimonio, il cognome. Qui ancora non siamo alla introduzione delle leggi razziali ma il clima che si andava prefigurando era, già allora, abbastanza asfissiante per i cittadini di etnia ebraica (non uso la parola razza appositamente perché, da un punto di vista paleoantropologico, la parola razza assegnata ad una etnia è, ontologicamente, fuorviante e del tutto scorretta). Il commento all’ultimo dispaccio, il più immondo, viene lasciato alla macchina da presa che, per qualche secondo, si sofferma sul testo del telegramma che, integralmente, riporto : “Abbiamo appreso con rincrescimento il Vostro matrimonio con persona non appartenente alla razza ariana. In attesa di ulteriori provvedimenti siamo costretti a sospendere ogni iniziativa in favore della sua promozione. Saluti fascisti.”. Questa sequenza dura, complessivamente, otto secondi e non è, in alcun modo, commentata, né allora né dopo, da Totò. Persino l’ingegner Stephenson ne è, per così dire, all’oscuro.
Io non sono a conoscenza se, in fase di montaggio, ci sia stato – oppure no – un taglio di alcune sequenze, se ci sia stata, insomma, una censura. In ogni modo, anche così, questo spezzone è di una inaudita violenza perché non soltanto rimarca un provvedimento legislativo vergognoso avallato dal parlamento e controfirmato dal re – circostanza, quest’ultima, mai troppo rimarcata per non dire offuscata – ma, ancora una volta, pone l’accento sulla capillare diffusione della delazione quale costume italico nel ventennio perché il lungometraggio lascia intendere che solamente il podestà fosse a conoscenza delle vere origini della maestra Sara. Un altro piccolo accenno, ironico nonché grottesco, al fascismo ed al suo linguaggio è quando, sul tavolo del capostazione, giunge un dispaccio che annuncia il trasferimento di Antonio La Quaglia da Piovarolo a Rocca imperiale – circostanza sopra accennata – suscitando la gioia irrefrenabile di Totò frustrata, prima ancora che dal cartello apposto sulla stazione ferroviaria, dallo sguardo melanconico e dal diniego della casellante Beppa. Ed ancora, durante il conflitto, quando Totò, in cerca di abbacchio per soddisfare una voglia della consorte in dolce attesa, si reca dal podestà che, in virtù della sua posizione e del ruolo svolto all’interno dell’organigramma del partito, riesce, in barba alle disposizioni sul contingentamento delle derrate alimentari che martoriò la popolazione civile in quegli anni, ad ottenere della carne pregiata. La bolsa retorica con la quale Foà biasima Totò è un compendio sintetico, ancorché significante, di quanto il comune sentire degli italiani fosse diventato tronfio ed altisonante ma del tutto grottesco e privo di senso. Del resto il film, come la storia recente del paese, è costellato di parabole retoriche : da quella risorgimentale – “Caro Nino, qui si fa l’Italia o si muore” reiterata fino alla nausea dal trombettiere Ernesto all’inizio del lungometraggio – a quella fascista – “Arrivedervi, Rocca imperiale, saluti fascisti” – a quella del dopoguerra quando il ministro dei trasporti biasima, ancora una volta, il povero Totò reo di lasciarsi scappare un improvvido “Un posto al sole” locuzione, questa, realmente usata durante il fascismo e tesa ad avallare la guerra coloniale in Abissinia. Curioso, poi, notare come questa dicitura fascista sia diventata, addirittura, il titolo, recentemente, di una nota e seguitissima soap-opera. Anzi se c’è una cosa da rimarcare è che, nell’immediato dopoguerra, la retorica linguistica concentrò fortemente la sua attenzione nel depennare ed obnubilare, agli occhi, alle orecchie ed al cuore degli italiani, proprio quelle fraseologie in voga nel ventennio quasi non avesse, ancora, avuto il tempo di coniarne delle nuove. Un modo, anche questo, di cercare di rimuovere il passato recente volto a dimenticare il fascismo quasi fosse stata una piccola marachella ovvero una leggera divagazione dal binario principale della storia. D’altra parte l’implosione, inaspettata e repentina, del consenso al regime fascista avvenuto poco dopo lo sbarco alleato in Sicilia fu tale da indurre Churchill ad ironizzare sul fatto che, all’istante, la popolazione italiana fosse raddoppiata di numero e che, ai venti milioni di fascisti, si fossero accompagnati venti milioni di anti fascisti nati, quasi, per germinazione spontanea. Il dialogo, dianzi menzionato, tra Totò e Giacomo Furia è, a mio avviso, più esaustivo di un profluvio di parole.
Tutte queste considerazioni, però, rientrano, a mio giudizio, in una ottica ancora più vasta che potremmo focalizzare nell’ambito del rapporto che si instaura fra il potere ed il cittadino comune. Se analizziamo il lungometraggio in questa altra chiave di lettura possiamo notare che le parti del film più significanti concernono proprio quelle fra Totò ed i vari esponenti del potere politico che, per vicende ed intenti differenti, alternano la loro presenza nel comune di Piovarolo. In questo comune, infatti, Totò si relaziona dapprima con l’onorevole Marcello Gorini (partito socialista), poi con l’onorevole De Fazio (partito popolare), poi con il podestà (partito nazionale fascista) poi, a guerra finita, con l’ex portaborse dell’onorevole De Fazio (democrazia cristiana) ed, infine, con il ministro dei trasporti in persona (ancora democrazia cristiana o, almeno, così si presume). Sono, dunque, cinque i rapporti interpersonali che il capostazione Antonio La Quaglia tesse – meglio, cerca di tessere – con il potere. Eppure, nonostante il film ripercorra un lasso di tempo cospicuo – circa trenta anni – e, nonostante al potere si alternino uomini diversi di partiti diversi, di culture diverse, di epoche diverse e di linguaggi diversi, resta sempre una sorta di incomunicabilità tra questo – nelle sue varie e diverse sfaccettature – e Totò.
Il potere resta, a dispetto degli anni, a dispetto dei mutamenti formali e di immagine sempre uguale a sé stesso intento, unicamente, ad auto preservarsi sempre immutato.
Il potere è sordo alle richieste, disperate, di aiuto che Totò proferisce nel corso di tutti questi anni. E’ sordo l’onorevole Gorini che risponde, piccatissimo, alle suppliche di Totò nel 1922 così come sarebbe, parimenti, sordo l’onorevole De Fazio se non intuisse che quell’oscuro capostazione di quel remoto anfratto d’Italia, inducendo il vecchio reduce garibaldino Ernesto a dettare al notaio un testamento fraudolento, può mutare il corso della storia. E quando, a Roma, si sancisce un accordo strategico, in chiave antifascista, fra il partito socialista ed il partito popolare ecco che anche l’onorevole Gorini presta ascolto alle istanze di Antonio La Quaglia promettendogli un celere trasferimento a Napoli. Un ulteriore piccolo inciso va rimarcato su un aspetto quasi marginale del lungometraggio ma, a giudizio dello scrivente, molto pregnante : non appena Gorini e De Fazio prendono coscienza che la democrazia liberale in italia è definitivamente tramontata perdono, di colpo, la loro alterigia che, in guise diverse, li aveva contraddistinti nei loro rapporti e, dismessi i propri ruoli, ritornano sè stessi. L'interpretazione di Paolo Stoppa in questo frangente è semplicemente straordinaria perchè riesce a rendere assordante, in poco più di un minuto, lo stridente contrasto che si respira tra l'onorevole Marcello Gorini ed il professore di scuola Marcello Gorini uomo colto e mite. Sembra, quasi, che il regista voglia suggerirci che l'essenza del potere è talmente bulimica da fagocitare anche le persone migliori.
Nel ventennio è il turno del podestà ad esser sordo alle suppliche di Totò tese ad ottenere un misero pezzo di abbacchio per soddisfare le voglie della moglie non solo negandoglielo ma facendogli un sermoncino risentito ed accusandolo di tradimento della patria in arme.
E’ sordo l’ex portaborse dell’onorevole De Fazio che, in occasione del neo vaticinio del nome del paese, finge di non rammentare assolutamente nulla non soltanto del loro incontro di qualche lustro prima ma, vieppiù, del suo passato in camicia nera.
E’ sordo il ministro dei trasporti che non soltanto mostra tutta la sua ignoranza nella comprensione delle più elementari norme di segnalazione e di funzionamento di una miseranda stazione ferroviaria di paese ma dimostra la sua totale inadeguatezza perfino nel comprendere quel che Totò gli sta chiedendo perso in chissà quali elucubrazioni e tutto preso alla vergatura dei documenti ministeriali.
E’ sordo, anche, il sottosegretario del ministro (Leopoldo Trieste) – il vero uomo decisionale in realtà – che non soltanto non crede, affatto, alla buona fede di Antonio La Quaglia in relazione al presunto disastro che si è abbattuto sulla linea ferroviaria di Piovarolo ma che, addirittura, basandosi sulle pessime note di servizio precedenti – inoltrate dallo stato fascista, una nemesi paradossale – che biasimavano fortemente Totò per la non apposizione della spilla sull’occhiello nonché per il fatto di essersi sposato con una cittadina di razza non ariana, decide – lui, non il ministro – di relegarlo a vita in quella stazione ferroviaria.
Il potere, quindi, nella sua essenza, resta sordo ed immutato. Sono cambiate le persone ma l’essenza del potere è sempre la stessa. Non può non scorgersi, in questo, un riecheggiamento, chiarissimo a mio giudizio, del romanzo – non del lungometraggio – di Tomasi di Lampedusa.
E’ solo una mutazione gattopardesca quella a cui ha assistito Antonio La Quaglia negli ultimi trenta anni che, nella sostanza, non ha cambiato praticamente nulla. Si respirano, quindi, quelle arie di disincanto, di sospetto, di indolenza che, tanto, hanno contrassegnato quel romanzo e quella epopea letteraria. Antonio La Quaglia lotta, disperatamente, contro tutte le avversità che gli piovono sulla testa in tutti questi anni ma invano. Alla fine soccombe tragicamente. E la beffa più atroce è, proprio, quando il convoglio ferroviario del ministro si allontana e lui, rivolgendo alla figlia queste parole che riporto integralmente : “Vedi ? Per gli onesti c’è sempre un premio specie per chi, come me, ha speso la propria vita a servire con fedeltà.”, invia un bacio all’onorevole.
Il lungometraggio si chiude con un campo fisso che accompagna il convoglio ferroviario del ministro che, riprendendo il viaggio, si allontana nella notte. Un finale dolce e amaro. Si sorride, da un lato, perché sul quel binario – dove, un tempo è passata la Storia – si annidano le residue speranze di Antonio La Quaglia. E ci si amareggia pensando che proprio su quel treno, che si dilegua nella notte, quelle speranze naufragheranno definitivamente.
E’ sordo l’ex portaborse dell’onorevole De Fazio che, in occasione del neo vaticinio del nome del paese, finge di non rammentare assolutamente nulla non soltanto del loro incontro di qualche lustro prima ma, vieppiù, del suo passato in camicia nera.
E’ sordo il ministro dei trasporti che non soltanto mostra tutta la sua ignoranza nella comprensione delle più elementari norme di segnalazione e di funzionamento di una miseranda stazione ferroviaria di paese ma dimostra la sua totale inadeguatezza perfino nel comprendere quel che Totò gli sta chiedendo perso in chissà quali elucubrazioni e tutto preso alla vergatura dei documenti ministeriali.
E’ sordo, anche, il sottosegretario del ministro (Leopoldo Trieste) – il vero uomo decisionale in realtà – che non soltanto non crede, affatto, alla buona fede di Antonio La Quaglia in relazione al presunto disastro che si è abbattuto sulla linea ferroviaria di Piovarolo ma che, addirittura, basandosi sulle pessime note di servizio precedenti – inoltrate dallo stato fascista, una nemesi paradossale – che biasimavano fortemente Totò per la non apposizione della spilla sull’occhiello nonché per il fatto di essersi sposato con una cittadina di razza non ariana, decide – lui, non il ministro – di relegarlo a vita in quella stazione ferroviaria.
Il potere, quindi, nella sua essenza, resta sordo ed immutato. Sono cambiate le persone ma l’essenza del potere è sempre la stessa. Non può non scorgersi, in questo, un riecheggiamento, chiarissimo a mio giudizio, del romanzo – non del lungometraggio – di Tomasi di Lampedusa.
E’ solo una mutazione gattopardesca quella a cui ha assistito Antonio La Quaglia negli ultimi trenta anni che, nella sostanza, non ha cambiato praticamente nulla. Si respirano, quindi, quelle arie di disincanto, di sospetto, di indolenza che, tanto, hanno contrassegnato quel romanzo e quella epopea letteraria. Antonio La Quaglia lotta, disperatamente, contro tutte le avversità che gli piovono sulla testa in tutti questi anni ma invano. Alla fine soccombe tragicamente. E la beffa più atroce è, proprio, quando il convoglio ferroviario del ministro si allontana e lui, rivolgendo alla figlia queste parole che riporto integralmente : “Vedi ? Per gli onesti c’è sempre un premio specie per chi, come me, ha speso la propria vita a servire con fedeltà.”, invia un bacio all’onorevole.
Il lungometraggio si chiude con un campo fisso che accompagna il convoglio ferroviario del ministro che, riprendendo il viaggio, si allontana nella notte. Un finale dolce e amaro. Si sorride, da un lato, perché sul quel binario – dove, un tempo è passata la Storia – si annidano le residue speranze di Antonio La Quaglia. E ci si amareggia pensando che proprio su quel treno, che si dilegua nella notte, quelle speranze naufragheranno definitivamente.