SUNN IL MITE NON EFFETTUA ALCUN MONITORAGGIO O ANALISI DEI DATI DEGLI UTENTI

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venerdì 26 marzo 2010

Platone ed internet, parte prima, il social network


Parlare di rivoluzione è sempre stato un tema molto spinoso e molto delicato. Troppo spesso si è ricorso, in maniera del tutto gratuita ed inappropriata, a questo termine connotandolo ad avvenimenti la cui portata storica si è, poi, di fatto rilevata irrilevante o, peggio ancora, per occultare campagne espansionistiche, genocidi, abusi di potere ovvero violazione di diritti umani. Penso, ad esempio, alla rivoluzione culturale cinese che, di culturale intendo, aveva assai poco e che è stata contrassegnata da un costo sociale altissimo in termini di vite umane, di torture, di imprigionamenti, di umiliazioni pubbliche.
Oppure ai moti rivoluzionari che furono i prodromi di quelle guerre di indipendenza culminate con la proclamazione del regno d’Italia nel XIX secolo, meri espedienti terminologici ed agiografici volti a conferire una giustificazione etica, politica e storica ad una bieca campagna di annessione, operata dallo stato sabaudo, dei vari regni, principati e granducati che, non più tardi di cento cinquanta anni orsono, costituivano la spina dorsale dell’assetto geopolitico della penisola.
Eppure, con tutte le cautele del caso nonché con gli accorgimenti che la pregnanza semantica suggerisce, ritengo che, in questi ultimi decenni, stiamo assistendo, fra le tante, ad una vera e propria rivoluzione la cui portata è di difficile valutazione ma che, già oggi e ancor più in futuro, sarà destinata ad incidere enormemente nel nostro modo di essere e di raffrontarci con la realtà. L’abbattimento dei costi di rivendita al dettaglio del personal computer nonché il concomitante ammodernamento della rete telefonica e l’introduzione della banda larga hanno creato i presupposti per un epocale mutamento tecnologico e culturale, ossia, l’avvento della rete e, quindi, di internet. E che cosa c’entri Platone con la rete, avremo modo di scoprirlo man mano che la stesura di questo trafiletto vedrà la luce.
Anzi suddetta stesura prende le mosse proprio da un post presente sul social network facebook condiviso da svariati utenti che invitava ad aderire ad un gruppo nato per mobilitare, on line, un cospicuo numero di utenti ai fini di protestare contro un sedicente disegno di legge volto ad imbavagliare la libertà di espressione presente sul web. Purtroppo ho cominciato a guardare con estrema diffidenza tutti questi gruppi che sorgono, quasi, per germinazione spontanea poiché molti fondatori mirano – sulla base di presupposti demagogici – a raggiungere un numero considerevole di membri per essere appetibili dagli inserzionisti pubblicitari. Penso, ad esempio, a quei gruppi che portano, a latere, didascalie tipo “servono 1.000.000 di iscritti” e/o similari come se l’adesione virtuale, anche di un milione di persone, possa servire a mutare realmente qualche cosa. Ed è la stessa logica che sottende alla creazione di gruppi provocatori che istigano alla misoginia o all’odio etnico. Nello specifico, poi, ho potuto constatare come, attraverso un meccanismo tradizionalmente peculiare di tutti i social network che è quello della condivisione, questa notizia abbia avuto una divulgazione repentina. Chi, come lo scrivente, utilizza facebook sa, a grandi linee, di cosa parlo. Ma ritengo, vieppiù, utile cercare di svolgere una elaborazione analitica su un social network poiché è interessante cercare di capirne, in poche e schematiche battute, il meccanismo di funzionamento in quanto il medesimo è, pur con qualche variabile, quello principale con il quale, attraverso il web, si propalano le notizie.
Facebook è una sorta di diario virtuale nel quale ognuno riporta sul profilo suo proprio, rimessogli dal sistema, svariatissime cose : dalle ricette di cucina alle fotografie del matrimonio, dai video musicali ai trafiletti dei quotidiani ; ed il profilo è, all’atto della iscrizione, di appannaggio esclusivo dell’iscritto. Il software, però, consente, previa richiesta ed accettazione, di poter allacciare delle amicizie tra i vari utenti ed è questo il nodo sul quale si struttura il social network perché dal momento in cui un utente A rilascia la sua amicizia all’utente B entrambi possono vedere, sulla propria home page ed in tempo reale, cosa l’altro ha pubblicato sul proprio profilo anche con un effetto retroattivo. A questo meccanismo è, inoltre, incardinato quello della condivisione che è, poi, il ganglio della diffusione delle notizie su facebook e, a grandi linee, sull’intera rete. Se l’utente A posta, mettiamo, una fotografia l’utente B può vederla sulla sua home page. Se all’utente B questa immagine piace costui può, attraverso la funzione condividi, inserirla, ex novo, nel suo profilo come se la avesse, cioè, pubblicata lui stesso anche se, in realtà la sua pubblicazione non è altro che una mera ripetizione di quella già fatta dall’utente A. Il software, quindi, pubblicherà sulle home page di entrambi gli utenti la stessa icona per cui anche A saprà che, ora, B la ha, appunto, condivisa. Adesso, però, non soltanto A avrà sulla sua home page la notifica della pubblicazione, da parte di B, di quella medesima istantanea ma anche tutti quegli amici di B – mettiamo, C,D,E ed F – che sono, certo, tutti amici di B ma non tutti, necessariamente, amici anche di A. Se, poi, l’utente C troverà di suo gradimento quanto postato – tecnicamente condiviso – da B potrà, a sua volta, rimetterlo in condivisione in maniera tale da consentire che tutti i suoi amici – che non sono, necessariamente, soltanto quelli di B – possano trovarlo pubblicato sulla loro home page e via discorrendo. Per certi versi la condivisione ricorda un pò una reazione nucleare a catena. Ed è su questa reazione virtuale che si propalano, repentinamente, le notizie su facebook e, pur con svariate modalità, anche su internet. La modalità di accesso alla funzione della condivisione è semplice ed immediato : sotto ogni post pubblicato, il sistema rimette tre voci che rimandano a tre differenti opzioni ossia commenta, mi piace e condividi. Cliccando sulla voce commenta si apre una finestra nella quale un utente può apporre, appunto, un commento ; cliccando sulla voce mi piace il sistema notifica, con una piccola icona raffigurante un pollice volto verso l’alto, il gradimento espresso da un utente su quel post ; cliccando, infine, sulla voce condividi il sistema ne consente, appunto, la condivisione. Questo meccanismo è stata elaborato e programmato in maniera tale da rendere semplice l’interazione tra utenti, certo, ma anche – anzi, direi soprattutto – per suscitare una emulazione immediata – non è richiesta, ad esempio l’apposizione di una password ovvero di un codice di accesso che, nei fatti, ne pregiudicherebbe la diffusione – in quanto l’obiettivo recondito è quello di configurare, col tempo, una stringente correlazione sempre più sincronica tra pubblicazione e condivisione ed il cui automatismo sta assumendo contorno di prassi talmente diffusa da indurre, progressivamente, un utente ad assumere la funzione di mero ed inconsapevole vettore.
Amicizie e condivisioni costituiscono, dunque, la pietra angolare su cui poggia tutto il sistema. Un celere monitoraggio va fatto, vieppiù, anche sui meccanismi che determinano le richieste e le elargizioni di amicizie su di un social network. Le motivazioni sono le più disparate, come si può immediatamente intuire, ma seguono delle direttive predefinite. Lo scrivente, ad esempio, annovera, nella propria lista contatti, novantaquattro persone – un numero, va detto, decisamente esiguo – strutturate secondo alcune specifiche falsarighe. Sette di loro – il 7,44 % – sono miei ex compagni di scuola che ho ritrovato sulla rete ; cinque – il 5,31 % – sono persone che ho effettivamente conosciuto in ambito lavorativo e con cui ho continuato ad avere contatti ; dieci – il 10,63 % – sono miei parenti ; altri dieci – il 10,63 % – sono persone che, personalmente, non conosco ma con le quali ho avuto modo di interfacciarmi ripetutamente nel blog del giornalista Gad Lerner ; diciassette – il 18,08 % – sono, invece, quelle amicizie indotte dal sistema e/o suggeritemi dai miei contatti e/o con le quali mi sono interfacciato sul social network ; e quarantacinque – il 47,87 % –, sono, infine, quelle persone che, effettivamente, conosco e frequento anche nella mia quotidianità.
Quindi, volendo fare una tabella ed una classificazione statistica possiamo dire che lo scrivente annovera, nella sua lista contatti, una percentuale schiacciante – il 71,25 % – di persone che ha, di fatto, conosciuto mentre soltanto il 28,75 è costituito da utenti con i quali non ha mai avuto modo di intraprendere una relazione reale. Questa statistica per un social network è un vero e proprio flop produttivo perché, di fatto, la finalità perseguita dai suoi creatori è quella di creare il maggior numero possibile di reti virtuali interconnesse. Ma per un utente recalcitrante ed ancorato a certe remore nella condivisione dei propri spazi virtuali ce ne sono molti altri che, viceversa, tali remore non se le pongono affatto e condividono, allegramente, tutto quel che postano con migliaia di naviganti con i quali, al di fuori del software, non hanno mai avuto alcun contatto. Assistiamo, quindi, nella maggior parte dei casi, ad una induzione anomala di utilizzo del programma che spinge un iscritto ad allacciare un numero sempre crescente di nodi telematici – una amicizia virtuale determina la creazione di un nodo, appunto – che vengono annoverati in una serie sterminata di casistiche ad uso e consumo degli inserzionisti che, sulla base di analisi e meta analisi, possono inserire – a pagamento, si intende – i propri spazi pubblicitari volti ad una potenziale, nonché mirata, utenza di consumatori. Questo, a grandi linee, si chiama micro marketing ed è il propellente economico sul quale si regge facebook.
Il micro marketing, però, non si basa unicamente sul novero dei contatti allacciati da un utente – questo è, invero, solamente un parametro e, in fin dei conti, neanche il più pregnante – ma poggia le sue analisi, invece, sul novero dei gruppi o delle pagine alle quali un navigante è iscritto. Facebook, infatti, consente la creazione di gruppi e/o pagine nelle quali gli utenti possono iscriversi e/o diventarne fans. Se un iscritto, ad esempio, ha una specifica predilezione per le automobili è molto probabile che, una volta acquisita una sufficiente padronanza dell’uso del programma, comincerà a cercare delle pagine e/o dei gruppi appositi dove potrà interagire con altri utenti che condividono la stessa passione. Il fantomatico gruppo e/o pagina tenderà ad annoverare, quindi, un numero sempre crescente di iscritti e/o fans accomunati, quindi, dall’amore per le autovetture. Il sistema elabora, ogni settimana, tutta una serie di dati molto interessanti – il novero degli iscritti, la interazione che espletano sul gruppo e/o pagina, il gradimento che esprimono su quanto ivi postato etc. – che costituiscono una analisi asettica dell’andamento e della evoluzione di quello spazio virtuale. Su questa analisi asettica si inserisce il marketing che sviluppa tutta una serie di meta analisi volte a capirne la potenzialità, il trend, l’incidenza suscitata sugli iscritti e/o fans e quant’altro. Queste meta analisi di micro marketing sono estremamente preziose perché tendono alla massima ottimizzazione degli investimenti pubblicitari che un inserzionista intende effettuare sul web. Restando nell’ambito dell’esempio sopra riportato, se io fossi un rivenditore di automobili di Vercelli potrei richiedere, agli amministratori di facebook, tutta una serie di informazioni atte a conoscere se, sul social network, sono presenti gruppi e/o pagine attinenti al settore delle automobili. Dopo aver svolto una prima disamina, potrei, vieppiù, chiedere al sistema quanti di questi gruppi superano i cinquemila iscritti e/o fans, quali e quante percentuali di interazioni sono ivi presenti – la percentuale di interazione è un parametro funzionale che raggruppa il numero di accessi che questi gruppi e/o pagine ricevono in una settimana ed il numero dei post e/o commenti che vi vengono apposti – nonché le percentuali di gradimento ivi espresse nonché, ancora, la dislocazione geografica dei vari iscritti e/o fans. Dopo questa seconda disamina, potrei, già adesso, essere in possesso di un numero sufficientemente esaustivo di informazioni tali da potermi indurre a prendere la decisione di inserire una mia inserzione pubblicitaria in uno, e non in un altro, di questi gruppi e/o pagine – mettiamo il gruppo X – perché, ad esempio, pur avendo un numero più basso di iscritti rispetto al gruppo Y, è caratterizzato da una percentuale di interazione più elevata e perché, magari, la dislocazione geografica dei suoi iscritti è caratterizzata, poniamo, da un cospicuo numero di persone residenti in Piemonte. E’ evidente, a questo punto, di come la mia inserzione sia, e di gran lunga, assai più mirata rispetto, mettiamo, ad uno spot pubblicitario su una televisione commerciale nazionale o regionale. A differenza dei tradizionali veicoli promozionali che hanno caratterizzato la pubblicità dal dopoguerra ad oggi – i cartelloni, i periodici, i quotidiani, la radio e la televisione – internet offre, ad un inserzionista, una capillarizzazione di informazioni talmente esaustiva ed a costi – ancora – contenuti che, di fatto, già adesso sta cominciando a drenare, ai media tradizionali, una grossa utenza pubblicitaria. Il mercato pubblicitario, quindi, segue un trend, per quanto lento, molto chiaro e lineare. Internet non soppianterà mai del tutto i soggetti già presenti nello scenario pubblicistico ma assumerà, in virtù della sua connotazione interattiva, un ruolo preminente ; non a caso – infatti – la televisione, la radio e gli stessi quotidiani stanno cercando di rendere il proprio linguaggio quanto più compartecipativo possibile – la pay tv on demand, ad esempio, o i podcast delle trasmissioni radiofoniche – nel tentativo di emulare, nei limiti loro concessi oggi dalla tecnologia disponibile, l’interazione presente sul web.
Tornando alla nostra analisi, invece, sui meccanismi di interazione tra gli utenti ci sono, però, altre casistiche molto interessanti che vengono elaborate da fondazioni in qualche modo strettamente correlate ai partiti politici.

Tutti i movimenti ed i partiti hanno fatto della ricerca e della gestione del consenso, in ogni epoca storica, una endemica peculiarità della propria azione politica. Checché si possa pensare, persino i grandi dittatori del novecento ne hanno sempre tenuto debito conto poichè consapevoli che, laddove il consenso si incrini, la gestione sociale e politica di un paese ne sarebbe risultata estremamente problematica e, finanziariamente, dispendiosa. La storia recente del nostro paese è stata contrassegnata, per un ventennio, da un totalitarismo di matrice fascista. Eppure persino in uno stato totalitario – schematizzo ed esemplifico altrimenti mi toccherebbe scomodare Hannah Arendt, Renzo De Felice e Denis Mack Smith e, in questa sede, non mi sembra proprio il caso – la gestione del consenso era una delle principali preoccupazioni del regime. Le adunate oceaniche che facevano da corollario ai comizi che Mussolini tenne, in ogni parte dello stivale, durante il ventennio erano necessarie per consolidare un afflato sempre più intimo tra il fascismo e la società italiana. Il duce, beninteso, tenne comizi anche prima della instaurazione dello stato totalitario ma, ad una analisi minuziosa, possiamo notare come la maggioranza di questi si organizzarono dopo che il fascismo ebbe preso il potere quando cioè, almeno in linea teorica, avrebbe potuto non curarsi punto della adesione delle masse al regime. Questa connotazione temporale è solo, apparentemente, una anomalia. In realtà gli stati totalitari – se non vogliono diventare dei meri stati di polizia – necessitano di un sostegno popolare come, e più, di una democrazia rappresentativa proprio perché, di fatto, ne precludono la organizzazione e la rappresentazione politica ad altri soggetti. Il ritmo frenetico che il capo del fascismo impartì ai “discorsi” che tenne in Italia in tutti quegli anni e che caratterizzarono enormemente il regime rientravano in una ottica molto più ampia di organizzazione e gestione del consenso – dalla formazione all’interno del PNF di varie correnti, al rapporto con la monarchia, alle relazioni con la Santa Sede – ma furono collettori dalla forza propulsiva molto forte. Coloro i quali, tuttora, considerano il totalitarismo – ed il fascismo – alla stregua di uno stato di polizia ovvero di un regime come quello cileno oppure, peggio, come quello argentino lo fanno per ignoranza o per malafede. Il consenso può essere raffigurato, metaforicamente, da una oblunga scansia vuota disposta in senso trasversale ad un osservatore nella quale possiamo subito identificare i due estremi – sinistra e destra – correlati, tra loro, da uno spazio centrale. In una ottica dimensionale, dunque, uno stato totalitario deve, per quanto possibile, occupare tutto lo spazio disponibile cercando di abbracciare, con le proprie propaggini, anche le ali estreme. In una ottica politica, quindi, questo si traduce in un organismo unico al cui interno, però, devono convivere, necessariamente, una serie di correnti centripete volte ad occupare il maggior spazio possibile ma tenute insieme dall’organigramma di una struttura partitica monolitica al cui vertice si pone il capo dell’esecutivo. Il Partito nazionale fascista non esulava da questa connotazione ed era caratterizzato, infatti, dalla coesistenza, al suo interno, di variegate correnti di pensiero ed annoverava, tra le sue fila, esponenti rappresentativi delle varie componenti sociali del paese. Accanto, ad esempio, al ras Roberto Farinacci – un fascista della prima ora ed uno dei più beceri squadristi che la storia recente del paese annoveri nonchè bieco esponente di quella retriva borghesia agraria da cui il fascismo delle origini pure prese le mosse – c’era Dino Grandi che era un convinto fautore dello stato liberale e nutriva spiccate simpatie per il primo ministro della corona britannica e, più in generale, per il Regno Unito. I quadri gerarchici del partito, inoltre, annoveravano, fra gli altri, anche il conte Galeazzo Ciano che, solo in seguito, ascese ai vertici del regime – anche in virtù del matrimonio contratto con la primogenita del duce, Edda Mussolini – ma che era, altresì, un rappresentante della aristocrazia nobiliare tradizionalmente legata alla corona di casa Savoia. Anche il mondo accademico fu reclutato – e rappresentato, dunque – dal regime svolgendo un ruolo vitale sia nel ridisegnare l’architettura costituzionale del paese – può sembrare paradossale ma il fascismo, a differenza di quanto si possa pensare, fu molto attento sia all’aspetto formale che a quello strutturale della carta costituzionale laddove uno stato di polizia si sarebbe limitato, sic et simpliciter, a sospendere le garanzie sociali e politiche del paese – che nello stendere una serie di riforme di carattere sociale e legislativo. I nomi che, maggiormente, ricorrono son quelli del napoletano Alfredo Rocco, docente di diritto commerciale e di codice di procedura civile, il quale ridisegnò e dette il proprio nome al nuovo codice di procedura penale ; ed il filosofo Giovani Gentile la cui riforma omonima contrassegnò l’istruzione primaria e secondaria del paese. Nel partito, quindi, allignavano personalità, sensibilità, ideologie ed istanze anche molto diverse tra loro che, però, trovavano composizione in quella che era la struttura corporativa dello stato totalitario. La politica sociale ed economica perseguita dal regime fu ad ampio raggio – e non poteva, in questa ottica, non esserlo – e fu contrassegnata anche da una particolare attenzione verso quello che sarebbe stato, di lì a poco, vaticinato come “stato sociale” e che, oggi, ha assunto la denominazione anglosassone di "welfare" tant’è che quella che, ancora oggi, viene definita come “destra sociale” prende le mosse proprio da quelle correnti. Le prime legislazioni che tutelavano i disabili – definiti, allora, con una cruda locuzione di matrice ottocentesca che era mutilati – e gli invalidati sul lavoro sono una prerogativa del ventennio. La previdenza pubblica – mi verrebbe da dire, oggi, “questa sconosciuta” – fu introdotta dal regime fascista. Nella struttura corporativa dello stato totalitario, quindi, coesistevano sia le istanze delle borghesie – da quelle tradizionali agrarie e metropolitane a quelle finanziarie che andavano assumendo, proprio in quegli anni, una maggiore consistenza e visibilità – che quelle dei lavoratori che avevano dei propri organi di rappresentanza sindacali. Il regime, quindi, cercava – per quanto gli era possibile – di includere al suo interno tutte le istanze socioeconomiche di un paese nel quale si andava prefigurando, seppure in uno stato ancora embrionale, uno scenario tipico delle società industriali più avanzate dove ad una economia tradizionale, imperniata sulla produzione di beni, si andava affiancando una nuova economia imperniata sulla produzione di servizi con la ascesa conseguente, a livello sociale, di quello che, oggi, viene definito come terziario. Uno sviluppo economico ancorato ad una fase pre – ovvero neo – industriale è stato, storicamente, lo scenario politico dove hanno allignato tutti i totalitarismi, di destra e di sinistra, del secolo scorso – con la sola eccezione, parziale, della Germania – perché a questa transizione non si accompagnano, contestualmente, una immediata palingenesi e disomogeneità sociale. Sviluppo economico, palingenesi e disomogeneità sociale sono, come si può facilmente intuire, tre fattori strettamente correlati ed incardinati fra loro perché ad una mutazione delle strutture produttive corrisponde una mutazione del tessuto sociale. Un paese nel quale lo sviluppo economico è allo stadio di cui sopra sarà contraddistinto da un tasso di disomogeneità sociale statico perché gli operatori economici e le figure professionali che si affermeranno saranno caratterizzati da un basso profilo tecnico e saranno, vieppiù, relativamente esigui tali da non incidere profondamente nel tessuto sociale preesistente in cui si andranno ad innestare. Questo profilo socioeconomico è, quindi, terreno fertile per la instaurazione e l’affermazione di un sistema politico totalitario proprio perché il basso tasso di disomogeneità sociale ivi presente consente ad una struttura partitica monolitica di riempire tutti gli spazi di organizzazione e gestione del consenso – anche a scapito di altri soggetti partitici a cui, nei fatti, ne precludono la rappresentanza – proprio perché relativamente esigui. Un paese, invece, nel quale lo sviluppo economico è già in una fase industriale – ovvero post-industriale – sarà contrassegnato da un tasso di disomogeneità sociale molto dinamico perché gli operatori economici e le figure professionali saranno caratterizzati da un profilo tecnico molto alto – quando non, addirittura, iperspecializzato – e costituiranno una cospicua fetta della società tali da incidere in maniera determinante nel tessuto sociale in cui si innesteranno. In questo scenario così articolato, frammentato e complesso, un totalitarismo risulta palesemente inadeguato a coprire gli spazi di cui sopra ed a dare una rappresentanza ed una risposta politica alle istanze di un tessuto sociale altamente variegato e disomogeneo. In una ottica dimensionale potremmo, dunque, dire che la scansia di cui sopra si è allargata a dismisura per cui un solo soggetto politico, per quanto omnicomprensivo, non è più in grado di poterla riempire adeguatamente. In una ottica politica, quindi, urge il ricorso ad una forma di gestione e rappresentazione del consenso diversa capace di dare istanze a tutte le varie componenti della società ed è, quindi, palese che debba essere delegata a un numero più ampio di soggetti donde il ricorso ad una forma politica più avanzata che è quella della democrazia rappresentativa. Sopra accennavo al fatto che la storia ci ha mostrato come tutti gli stati totalitari abbiano allignato là dove il panorama economico e sociale – Italia e Spagna su tutte – era ancora agli albori se non, come in Cina ed, in parte, anche in Unione Sovietica ancora legato ad un assetto sociale di stampo parafeudale, di una trasformazione industriale e non, come preconizzato da Marx, in quei paesi contrassegnati da uno sviluppo industriale avanzato. Ed alla luce delle considerazioni che ho, dianzi, esposto alcune motivazioni, anche sotto un profilo squisitamente sociologico e politologico, sembrano, oggi, più nitide. Marx, prigioniero degli schematismi mentali hegeliani, incorse in tre gravissimi errori di prospettiva. Il primo – dettato da una deficienza terminologica e da una scarsa e raffazzonata conoscenza degli studi di politologia – fu quello di non aver inquadrato la “dittatura del proletariato” in una categoria politica più ampia che era quella dello "totalitarismo" anche se, va detto, a sua attenuante va messo in conto che le terminologie attinenti furono elaborate e coniate solamente all’alba del secolo successivo ; pur tuttavia lo scenario politico che egli preconizzava era, parimenti, proprio quello di una struttura politico-partitica similare. Il secondo – diretta emanazione del primo – fu quello di non aver intuito che il totalitarismo – quello che, ripeto, Marx identificava come “dittatura del proletariato” – non sarebbe stato, necessariamente, connotato da un solo colore politico e da una sola classe sociale ma che avrebbe potuto, per converso, essere contrassegnato da una matrice sociale e politica di segno opposto. Ed il terzo, ed in assoluto il più grave, fu quello di un grossolano errore di valutazione della complessa dinamicità dei processi storici e sociali schematizzati in una mera ottica hegeliana capovolta che della rigorosità sociologica e storiografica non avevano assolutamente nulla ridotte, com’erano – sulla falsariga della dinamica tesi-antitesi e sintesi – a mere contrapposizioni dialettiche e traslate, quindi, da un’ottica scientifica positivista a quella di una anacronistica speculazione filosofica di matrice ottocentesca. Niente male, direi, per colui il quale si fregiava di essere il propugnatore di un “socialismo scientifico” in antitesi con quello che connotò, con superbia e sprezzo, “utopistico”. I suoi auspici, e quelli dei suoi epigoni “àuguri”, furono sconfessati, ancor prima che dalla storia, dalle sue miopi premesse. Lo scrivente, all’epoca dei fatti ancora studente liceale, ricorda che rimase alquanto perplesso, per non dire basito, quando lesse il preludio del “Manifesto del partito comunista” steso da Marx ed Engels nel 1848 nel quale si riportava la seguente dicitura : “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”. Quella volgare, nonché grossolana, riduzione della variegata e complessa storia della Roma repubblicana, di cui ero alquanto ferrato, stereotipata in una mera contrapposizione tra “liberi e schiavi”, “patrizi e plebei” ed “oppressori e oppressi” denotava una tale approssimazione, per non dire ignoranza, che mi fece cascare le braccia. Eppure, già allora, l’insigne storiografo danese, nonché futuro premio nobel, Theodor Mommsen teneva docenze universitarie nelle quali prefigurava, in maniera dettagliata, uno scenario storico della Roma repubblicana assai diverso e, decisamente, assai più complesso delle patetiche schematizzazioni marxiste. Se, inoltre, mettiamo di conto che l’opera omnia del Mommsen, “Storia di Roma”, ancora oggi considerato un “caposaldo”, ancorché datato, della storiografia classica dell’Urbe, vide la luce tra il 1854 ed il 1856, che Karl Marx si spense nel 1883 e che, in tutti quegli anni, l’economista tedesco non ebbe mai modo di rivisitare “neanche una” delle sue premesse storiche, sociologiche e filosofiche mi viene da pensare che, se pure c’era, Marx era molto “distratto”. Questa sua “distrazione” fu una caratteristica molto diffusa, e molto perniciosa, che permeò, largamente, il pensiero e le ideologie di quei movimenti e di quei partiti che si ispireranno proprio al marxismo e, cosa ancor più grave, che ancora sottende, nel 2010, ad un certo modo – assiomatico – di pensare e di interpretare i cambiamenti economici ed i conflitti sociali dell’età contemporanea. Eppure, agli inizi del secolo scorso, qualche scomodo “eterodosso”, all’interno del partito comunista italiano, alcune di queste problematiche se le cominciava già a porre. Antonio Gramsci, nei suoi “Quaderni”, prese ad analizzare le motivazioni per le quali le preconizzazioni marxiste avevano clamorosamente fallito nella interpretazione politica e storica degli avvenimenti incorsi in Italia e del perché, al posto della dittatura del proletariato, si fosse instaurato un regime di destra. Quel che non poteva intravedere il filosofo sardo, coevo di quegli avvenimenti, era che il fascismo, letto come categoria politica del totalitarismo, sarebbe stato, per ironia della sorte, persino confacente alle analisi di Marx – inquadrate in una prospettiva più ampia e scevra da zavorre ideologiche – pur se contrassegnato da una matrice politica di segno opposto. Ma poiché anche Gramsci era “prigioniero” degli schematismi hegeliani e della omonima dialettica inquadrò i conflitti sociali e politici del suo tempo in una dicotomia imperniata – anche allora ! – sulle categorie politiche fascismo-comunismo e non riuscì ad inquadrare, in una più ampia ed esaustiva prospettiva, le motivazioni profonde che sottesero alla instaurazione e, soprattutto, al consolidamento del regime nonché alla adesione, entusiasta e convinta, proprio di quelle masse operaie e contadine che avrebbero dovuto fungere da insormontabile baluardo alla instaurazione del regime fascista nochè essere, al contempo, motore propulsore di un altro tipo di sviluppo storico. Qualche spunto, comunque, lo individuò proprio nella complessità della società italiana e delle politiche sociali del regime che avevano depotenziato, assorbito e metabolizzato certe pulsioni e certe istanze provenienti dal mondo del lavoro trasfigurandole ad uso e consumo del regime. Purtroppo Gramsci non riuscì mai del tutto ad affrancarsi dall’ortodossia del pensiero marxista e pur individuando, nelle sue indagini, alcuni spunti preziosi non aveva ancora quelle categorie del pensiero – oggi diremmo quelle “parole” – tali da poter gettare le basi, sin da allora, per una rilettura, in chiave “moderna” del pensiero e della ideologia comunista. Inutile dire che queste riflessioni, potenzialmente “eversive”, restarono lettera morta all’interno del partito, sia allora che negli anni a venire tant’è che, tuttora, molti – troppi – esponenti politici o militanti di sinistra si imbevono delle parole di Gramsci – meglio, di qualche “aforisma” pescato qua e là sul web – senza aver mai avuto modo né di leggerlo né, tantomeno, di comprenderlo. Se lo avessero fatto, probabilmente, comincerebbero a capire “chi”, e "perché", aveva un reale interesse a farlo marcire nelle prigioni fasciste. Insomma se Marx era molto distratto e Togliatti “non si era avveduto” delle problematiche teoriche, socioeconomiche e politiche che Antonio Gramsci, già allora, andava ponendo qualcun altro, invece, prestava molta attenzione a tutti questi aspetti. Era, ovviamente, il capo del fascismo. Questo aspetto non deve lasciare sconcertato o disorientato il lettore ; non bisogna dimenticare che Mussolini, prima di divenire il capo del fascismo, era stato un socialista rivoluzionario per cui certe teorie le conosceva sin troppo bene. Anche in questa ottica, quindi, vanno inquadrate le immense opere di bonifica intraprese dal fascismo durante il ventennio. Non si trattava, cioè, soltanto di dare a braccianti e coloni un appezzamento di terra ma, altresì, di depotenziare il fenomeno della urbanizzazione crescente ai fini di staticizzare una situazione socioeconomica estremamente favorevole all’avvento ed, in prospettiva, al consolidamento del fascismo. Il mio auspicio, in merito alle considerazioni di cui sopra, è che una lettura attenta e rigorosa degli avvenimenti storici faccia da monito a tutti coloro che, allegramente, parlano – oggi – di fascismo, di neo fascismo e quant’altro. Alle volte occorrerebbe mettere da parte categorie, stereotipi e parole stantie che trasudano soltanto propaganda ma che sono, ontologicamente, prive di senso ed assolutamente inadeguate nel farci comprendere gli epocali mutamenti storici, politici, sociali ed economici che stiamo vivendo.
Tornando, adesso, alla gestione del consenso in età contemporanea ed al rapporto che si sta instaurando anche sul web, possiamo, subito, dire che la rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha messo a disposizione, come mai prima d’ora, un bagaglio cognitivo straordinariamente ricco e pregnante per tutti coloro i quali operano o studiano le forme, le rappresentazioni e la gestione del consenso. Anche facebook rientra in queste casistiche poiché uno dei movens che sottende alla creazione di nodi virtuali tra utenti è, alla stregua della vita reale, l’orientamento politico degli iscritti. Se l’utente X è, politicamente, orientato verso lo schieramento di centrodestra è molto probabile che, nel novero dei suoi contatti, ci siano altri utenti parimenti orientati. Questi contatti possono, vieppiù, integrarsi a seguito di iscrizioni a gruppi ovvero a pagine di matrici espressamente politiche che rientrano nell’alveo di quegli schieramenti partitici inducendo l’utente ad arricchire la sua agenda di amicizie indotte a seguito di interazioni virtuali. Abbiamo visto, sopra, che le funzioni amicizia e condivisione vanno di pari passo perché, potenzialmente, ogni amicizia è strettamente incardinata ad una condivisione. Nella prassi quotidiana di un social network, quindi, accade che se l’utente X ha, mettiamo, allacciato trenta nodi virtuali – contatti – nella propria rubrica sulla falsariga di una comunione politica quando si affaccerà sul software e sarà indirizzato, automaticamente, verso la propria home page troverà ivi esposto, in ordine cronologico, quanto postato da tutti i suoi amici. Se trenta di loro sono correlati alla sua home page sulla base di affinità politiche rinverrà, con molta probabilità, una serie di post che avranno, come oggetto, proprio la militanza politica. E, su questa base, con alta incidenza probabilistica, rischierà di leggere, a più riprese, sempre il medesimo post che i suoi contatti hanno ritenuto consono reiterare, attraverso la condivisione, sul web. Quel post, quindi, alla stregua di un spot pubblicitario, gli sarà riproposto svariate volte suscitando una dinamica emulativa in virtù della quale anche l’utente X sarà, adesso, indotto a condividerlo ed a postarlo, a sua volta, sulla propria home page senza, magari, tentare – prima della condivisione – di analizzarne, criticamente, il contenuto ma, unicamente, in virtù del fatto che i suoi contatti hanno ritenuto opportuno diffonderlo inducendolo, così, ad effettuare una scelta consapevole ma del tutto acritica. E’ un meccanismo molto pernicioso perché, col tempo, tende, vieppiù, a configurarsi come del tutto automatico. L’automazione di una condivisione sulla base di una icona con, in allegato, un mero titolo riassuntivo ad effetto è diventata, alla stregua di un titolo cubitale esposto su un quotidiano, una prassi talmente diffusa sui social network che porta, progressivamente, un utente a smarrire la propria capacità analitica ed a diventare un mero vettore inconsapevole.
Il meccanismo della condivisione, poi, è studiato in maniera tale – un pò come il linguaggio del web – da suscitare emulazione, e quindi diffusione, attraverso le icone ossia mediante una fotografia o un’anteprima di un filmato. La condivisione di un post di un utente basato, unicamente, su una mera stesura è raro e poco efficace poiché, visivamente, non carpisce e non stimola l’interesse di un navigante. Molto più immediato e semplice, invece, catturare la sua attenzione attraverso una icona in quanto una immagine è, sotto un profilo squisitamente ontologico, assolutamente esaustiva e non necessita di alcun corollario in quanto il suo scopo non è quello di indurre un osservatore a svolgere un processo di analisi bensì di suscitargli una mera associazione sillogica indotta.