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venerdì 23 marzo 2012

Gli ultimi Apache

fonte immagine: http://www.asianews.it/files/img/TIBET_-_Lhasa_marzo_2008.jpg

Era il 17 febbraio 1909 quando Geronimo si spense a Fort Sill. Mancavano solo cinque anni allo scoppio della prima guerra mondiale. Un altro mondo era sorto sopra i resti della grande leggenda ottocentesca americana, un mondo nel quale combattenti come Geronimo potevano considerarsi soltanto dei sopravvissuti. Ora i pellerossa si vedevano al cinematografo, nella rivista, al circo. Lo stesso Geronimo era stato "ripreso" dagli operatori di Thomas Alvas Edison per un breve documentario. Nel suo ultimo viaggio verso l'Est, che era stato un giro di propaganda per una marca di automobili, anche se il vecchio condottiero Apache non se n'era neppure reso conto, gli era toccata un'altra esperienza nuova e straordinaria:
"Fui invitato alla Fiera Campionaria del 1904 a Saint Louis...Una volta i sorveglianti mi portarono in una stanzetta che aveva quattro finestre. Appena ci fummo seduti, la stanzetta cominciò a scivolare sul terreno. Più tardi mi dissero di guardare fuori e quando lo feci mi presi un grosso spavento, perchè vidi che la piccola casa nella quale ci trovavamo si era levata in volo per aria..."
Si trattava di una cabina ruotante d'una grande giostra. Ma Geronimo si rifece della paura con un personale successo di curiosità:
"Per sei mesi di seguito vendetti mie fotografie a venticinque centesimi l'una".
Queste ed altre curiosità furono raccolte da un intraprendente giornalista americano, che convinse Geronimo, nel 1906, a dettargli la storia di tutta la sua vita. Ne uscì un volume molto vivace, che si chiamò appunto Geronimo's Story of His Life, a cura di S. M. Barrett.
Ma non tutti i ricordi del vecchio Apache erano così esilaranti. Vale la pena di riprenderne almeno uno, tragico, senza il quale questo libro non potrebbe dirsi completo. Tanti più che si riferisce a due personaggi che abbiamo visto a fianco di Geronimo sin dal secondo capitolo: i suoi cugini Penna Bianca e Volpe Veloce.
L'episodio è uno dei più sensazionali di tutte le guerre indiane, e probabilmente il più incredibile: eppure è autentico. Se ne danno addirittura diverse versioni. Alcuni storici affermano che esso si è svolto tra le trobù Cheyennes anzichè tra gli Apache. Ma i veri protagonisti furono Penna Bianca e Volpe Veloce.
Bisogna riandare alle ultime scorrerie di Geronimo del 1886: le tribù indiane si arrendevano l'una dopo l'altra al potere dell'esercito americano. Dal Nord era giunta la notizia che anche gli invincibili sakem dei Sioux, Toro Seduto e Nuvola Rossa, stavano per capitolare, e che Cavallo Matto, il grande ribelle, il vincitore del colonnello Custer a Little Big Horn, aveva pagato con la vita la sua sete di libertà.
Ebbene, in queste circostanze, i due guerrieri Penna Bianca e Volpe Veloce, che fino all'ultimo avevano obbedito fedelmente a tutti gli ordini di Geronimo in pace e in guerra, decisero di scindere la loro sorte da quella del loro più celebre cugino. Penna Bianca, che pure aveva fatto da intermediario nelle trattative fra Geronimo e Nelson Miles, rifiutò la resa, e informò Geronimo che non lo avrebbe seguito nelle riserve.
Sono rimaste parzialmente oscurate le ragioni che allora spinsero a tale decisione il vecchio guerriero (Penna Bianca, come del resto Volpe Veloce e lo stesso Geronimo, avevano tutti varcato da un pezzo la cinquantina). Ma forse furono soprattutto l'ira e il desiderio di vendetta per aver veduto cadere, nella battaglia della vallata di Santa Cruz, il fratello Volpe Veloce gravemente ferito. Volpe Veloce, rimasto sul campo dopo il combattimento, era stato considerato morto da Geronimo. Ma, raccolto e curato da alcune donne della tribù, si era rapidamente ripreso e Penna Bianca lo aveva raggiunto nel suo tepee il giorno seguente alla resa di Geronimo al generale Miles.
- I nostri fratelli Mimbreno partono per le lontane contrade che i visi pallidi chiamano riserve - disse Penna Bianca al ferito. 
- Ma il mio cuore è troppo colmo d'amarezza perchè io possa seguirli. Questa è la mia terra e non accetterò di allontanarmi da essa, fossi pure l'ultimo Apache vivente.
- Sono con te - disse Volpe Veloce.
 - Facciamo nostro il comandamento di Geronimo, ora che egli non lo rispetta più. Quel comandamento diceva: non dare quartiere a nessuno e non domandare pietà a nessuno. Per me esso vale ancora.
- Esso sarà la nostra lancia e il nostro scudo - disse fieramente Penna Bianca.
Trascorsero alcune settimane nel tepee, mentre Volpe Veloce riprendeva gradatamente le forze. Poi lasciarono a cavallo la vallata e mossero in cerca degli Apache rimasti.
Ben pochi ne trovarono. Geronimo era partito con il suo popolo verso quel viaggio di inganni e sotterfugi che già abbiamo raccontato, e che doveva relegarlo infine, anzichè nell'assolata Florida, nel freddo Alabama e poi nell'inospitale Oklahoma dal clima micidiale per gli indiani del Sud. I due fratelli scoprirono, attendati miseramente qua e là, alcuni
nuclei sparsi, privi di cibo, appiedati, in preda allo sconforto. Gli uomini erano poco più di una trentina; un centinaio le donne. Pochissimi i bambini, che la febbre e i digiuni s'incaricavano di falciare senza misericordia. 
Ma quegli uomini possedevano delle armi, persino dei fucili, benchè non fossero più disposti a servirsene. Penna Bianca e Volpe Veloce invece se ne servirono ancora contro i bianchi.
Il capitano Crawford, rimasto a presidiare i contrafforti della Sierra Madre dopo l'esodo di Geronimo, vide con stupore che le aggressioni ricominciavano, le imboscate si ripetevano come ai tempi della guerriglia. I depositi viveri venivano saccheggiati quasi ogni notte. I corrals dei cavalli diventavano malsicuri. I misteriosi assalitori non lasciavano traccia di sorta. Erano Apache fantasma. Crawford, imprecando raddoppiava le sentinelle, ma i colpi di mano si rinnovavano inesorabili.
- Come mai queste pattuglie Apache si rendono invisibili? - si chiedeva il capitano. - Dove si nascondono, dove vivono?
Egli pensava di aver di fronte qualche contingente numeroso e ben equipaggiato; la soluzione dell'enigma che lo arrovellava consisteva invece nel fatto che i nemici erano soltanto due. Due indiani, specie due veterani quali Penna Bianca e Volpe Veloce, sanno rendersi praticamente invisibili.
Forse Crawford non avrebbe mai risolto il mistero se non avesse avuto al suo servizio, come esploratori ausiliari, trenta indiani delle antiche tribù Mescaleros. Furono costoro, in passato alleati dei Mimbreno, a scoprire la verità e a informare il capitano delle spericolate imprese dei due ultimi guerrieri Apache.
- Due? - ripetè incredulo l'ufficiale, fissando lo scout Mescalero che aveva alzato indice e medio della mano.
- Penna Bianca, Volpe Veloce - aveva risposto l'esploratore.
Crawford aveva esitato a lungo prima di prendere una decisione. Era un ufficiale molto umano, a sua volta esperto delle cose di frontiera. Sapeva che la fame, più d'ogni altro impulso, induceva i due guerrieri a quei colpi di mano, destinati a procurare un pò di cibo agli altri indiani estenuati e morenti tra le gole della Sierra. Un esercito non può muover guerra a due uomini.
- E' grottesco - disse ad alta voce. - per me la guerra è finita e non voglio riaprirla. Rafforzate ancora le sentinelle ai depositi, mettete dei reticolati, scavate delle buche. Impedite che i saccheggi continuino. Ma non sparate su quei due Apache. Non sarò io - concluse bruscamente, andandosene con le mani affondate nelle tasche - a cancellare dalla faccia della terra gli ultimi rappresentanti di una razza che era qui prima di noi.
Fu obbedito, ma la sua magnanimità non servì a nulla. Gli agguati di Penna Bianca e Volpe Veloce si moltiplicarono. Vi furono dei morti fra le sentinelle. Dal quartier generale un colonnello infuriato chiese un rapporto dettagliato su quegli strani avvenimenti. Crawford cercò di velare i fatti, ma non potè tacerli e così si seppe che da mesi un paio di Apache, letteralmente un paio, conducevano una vera e propria guerra personale contro l'esercito degli Stati Uniti d'America, il quale restava scandalosamente inerte e tollerava la situazione.
Un dispaccio di due righe giunse al capitano Crawford. Gli si concedevano tre giorni di tempo per " eliminare " i selvaggi disturbatori. Il messaggio non diceva cosa sarebbe accaduto in caso contrario, ma Crowford capì che ormai le sue spalline erano attaccate a un filo. Bisognava agire.
Si mise in moto uno squadrone di cavalleria, preceduto delle guide Mescaleros. Sui primi contrafforti della Sierra Madre si apriva un certo numero di grotte naturali, che il capo degli scouts indicò significamente al capitano.
- Là - disse.
Crawford si sentiva vagamente ridicolo. Ma dispose i suoi cavalleggeri in linea di fronte, sciabole sguainate come fossero in procinto di caricare. Poi, con dodici uomini e una bandiera bianca, avanzò a piedi verso le rocce.
Ed ecco apparire di fronte a lui l'armata nemica: Penna Bianca e Volpe Veloce. Erano a cavallo, armati di lancia e di fucile. Vedendoli, tuttavia, Crawford non ebbe più voglia di ridere della grottesca avventura. I due Apache erano sparuti, risecchiti, evedentemente affamati; nè i loro cavalli apparivano in migliori condizioni. All'ingresso delle grotte altre larve umane apparvero sbattendo penosamente le palpebre alla chiara luce del giorno: vecchi e donne Apache. Qualche bambino. Gli ultimi superstiti di un grande popolo.
- Ho l'ordine di trasferirvi nelle riserve - disse il capitano Crawford. - Non vi sarà fatto alcun male e avrete cibo,vestiti, cure per i vostri ammalati. Perciò deponete le armi e seguitemi in pace. Anche per le azioni contro i miei soldati, che hanno avuto luogo negli ultimi tempi, non vi sarà alcun castigo. Aspetterò nella pianura finchè il sole avrà compiuto metà del suo giro nel cielo. Se le mie richieste non saranno ascoltate, darò ordine ai miei cavalleggeri di salire sulla Sierra.
Non ottenne risposta. Gli Apache lo fissavano inerti, immoti, avvolti nei cenci. E le due statue a cavallo che li comandavano non batterono ciglio. I raggi del sole giocavano sulle canne dei due fucili.
Crawford si ritrasse e l'attesa ebbe inizio. Lo squadrone nella pianura, ad un comando del capitano, rinfoderò le sciabole. Poi vi fu solo silenzio e immobilità. Ogni tanti il nitrito d'un cavallo che proprio quel'insolito silenzio rendeva nervoso.
Finalmente gli Apache si mossero. Lentamente, in fila, inciampando sul sentiero, scesero verso il reparto schierato. A un cenno del capitano un sottufficiale li prese in consegna, distribuì a tutti del pane e della carne affumicata, e li avviò verso l'accampamento.
- Ne mancano due - disse il capitano.
Sapeva che non sarebbero mai scesi a patti. Il sole era ormai allo zenit, ma Penna Bianca e Volpe Veloce erano rimasti lassù sulle loro rupi, fucile imbracciato, lancia in resta. Non s'erano scambiati neppure una parola tra loro.
- Bisognerà andare a prenderli. Maledetti testardi - grugnì il capitano fra i denti.
Invece non fu necessario. Ciò che accadde fu ancora più strano e drammatico. non fu lo squadrone a caricare i due Apache, furono i due Apache a caricare lo squadrone. Impugnarono le briglie e Penna Bianca guardò Volpe Veloce:
-Eravamo in tre contro Tres Alamos, ancora in tre contro santa Rita - disse - e abbiamo vinto. Oggi siamo in due, fratello, contro la cavalleria dei visi pallidi.
- E sia. All'assalto - rispose Volpe Veloce. - Tanto non si tratta più della nostra vittoria, ma dell'onore della nostra razza.
Allentarono la briglia e mossero a corsa folle giù per la petraia, lanciando il grido di guerra. I cavalleggeri di Crawford li guardarono arrivare con gli occhi sbarrati, come di fronte a un incubo.
No, i due Apache non serzavano: combattevano la loro battaglia, per l'ultima volta. A testa bassa, chini sulla criniera dei cavalli, andavano a urtare contro la muraglia dello schieramento dei vidi pallidi.
Crawford masticò un' imprecazione.
- Aprite le file! Che nessuno spari! - ordinò a gran voce. Fu obbedito appena in tempo. Penna Bianca e Volpe Veloce erano arrivati sparando e bilanciando la lancia. lo squadrone si aperse a ventaglio, senza un grido, e formò un lungo corridoio nel quale gli indiani s'immersero a capofitto attraversandolo da un capo all'altro. Per fortuna nessuno dei soldati era stato colpito dalle pallottole dei due guerrieri.
- Arrendetevi! Arrendetevi o sarò costretto a comandare il fuoco! - urlò Crawford.
Era come parlare al vento. Già i due indiani avevano trattenuto i cavalli, avevano eseguito un rapido dietrofront e si preparavano a caricare di nuovo.
Un mormorio ostile si levò fra i cavalleggeri, e qualche fucile si alzò in posizione di tiro.
- Fate largo ! Lasciateli passare ! - ripetè freneticamente l'ufficiale, che vedeva ormai precipitare la già critica situazione.
In mezzo alla siepe dei fucili dello squadrone Penna Bianca e Volpe Veloce percorsero ancora l'intera lunghezza del reparto. Non scagliavano la lancia, per non restare disarmati; cercavano di colpire qualche soldato al volo. Non vi riuscirono. Avevano entrambi gettato via i fucili, segno che i proiettili erano terminati.
Ritornati sulle giogaie della Sierra, sempre al galoppo, si preparavano ora al terzo attacco. Crawford aveva i nervi tesi. Certo sarebbe stato facile stringere i due ossessi tra le due ali dello squadrone, come in una morsa, e disarmarli e rovesciarli di sella. Ma sarebbe stato un modo di immeschinire l'impresa. di avvilire il significato ch'essa rivestiva per i due Apache.
Crawford lo capiva. Era un modo selvaggio di rispettare l'onore guerresco, ma era anche il modo di trasformare una sconfitta definitiva in una apoteosi.
- Vogliono morire combattendo - disse il vecchio sergente che caracollava accanto a Crawford - non chiedono altro. Bisogna ucciderli capitano.
- Non voglio ucciderli - ripetè Crawford - non è giusto. Voglio dimostrare che sono loro amico.
- Ucciderli, è ora il solo gesto d'amicizia che ci rimane - disse il sergente,e lentamente portò alla spalla il fucile. Senza che il capitano parlasse, in silenzio perfetto, tutto lo squadrone prese la mira. Nella valle echeggiava solo il grido di guerra dei due Apache e il galoppo dei due magri cavalli lanciati per la terza volta all'assurda carica.
Penna Bianca precedeva Volpe Veloce. Alzò la lancia sopra la testa e con un moto roteante delò braccio la avventò contro i soldati. Un uomo colpito di striscio, cadde di sella.
Crawford diede l'ordine di fuoco? Non si seppe mai, nè lui stesso avrebbe saputo dirlo con sicurezza. Certo fu l'unico a non sparare. Un uragano di proiettili eruppe da tutti i fucili e avvolse le epiche figure dei due Apache al galoppo. L'urlo di guerra cessò di botto, come tagliato da una lama. Penna Bianca, Volpe Veloce e i loro cavalli morirono insieme, come un essere solo.
L'eco invece perdurò a lungo, rimandata da una catena di colline all'altra, al di là delle pendici della Sierra. Rimbombò nelle grotte oramai abbandonate, arrivò fino all'orecchio dei vecchi e delle donne che, scortati dalla cavalleria, si dirigevano verso le lontane riserve dei visi pallidi. Nessuno volse il capo. Nessuno si rigirò a guardare per l'ultima volta quella terra di sole e di pietre, la terra degli Apache sulla quale non esisteva più nemmeno un Apache.


tratto da: Gli ultimi Apache  di H. Clegg - titolo originale: Geronimo, Apache Warrior- editrice AMZ Milano.- 1961