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domenica 18 luglio 2010

Li chiamarono briganti

"Li chiamarono briganti" è il titolo di un lungometraggio, del 1999, sceneggiato e diretto da Pasquale Squitieri che narra della repressione del brigantaggio operata dallo stato sabaudo dopo il compimento dell'unità nazionale. Il film fu oggetto di un repentino ritiro dalle sale cinematografiche - leggi censura, quindi - operato dall'allora governo di centrosinistra senza che si levasse, da parte del mondo cinematografico ed artistico, una accorata e violenta presa di posizione ed è, tuttora, di difficile reperibilità sia sul mercato digitale che su quello magnetico. Questo dovrebbe far riflettere, e tanto aggiungo, sull'onestà intellettuale che pervade tanta - troppa - intellighenzia del nostro paese pronta a levate di scudi, anche chiassose, se un certo tipo di provvedimento viene preso da un governo "nemico" quanto prona e silente se il medesimo viene attuato da un esecutivo "amico". D'altronde la dicotomia amico-nemico, tanto cara a Karl Popper, è il substrato culturale dal quale si abbeverano gli intellettuali, i giornalisti, gli opinionisti in una parola tutti coloro che svolgono la funzione, vitale in "democrazia", di organizzare ed indirizzare i flussi di pensiero per catalizzarli e renderli, politicamente, spendibili in uno schieramento piuttosto che nell'altro. Una dicotomia, quindi, chiaramente artefatta e fittizia ma strumentale ed, oggettivamente, proficua ai fini del consolidamento e del radicamento del potere. Pasquale Squitieri ha pagato il fio di essere un "fascista" (?) ; peccato, poi, che il successivo esecutivo di centrodestra, il Berlusconi due per intederci, ha ben pensato di perpetuare l'azione censoria e di non provvedere allo sdoganamento del film. Chi scrive ha avuto modo di poter visionare il lungometraggio, nella sua interezza, attraverso il web e suggerisce, vivamente, di fare altrettanto. Entrando nello specifico premetto, sin dall'inizio, che non è facile stendere un giudizio su questa produzione. Lo scrivente non reputa Squitieri un insigne cineasta nè, tantomeno, giudica il film un capolavoro. Ma, ciò nondimeno, va dato atto al regista di aver affrontato, con grande coraggio, un argomento davvero spinoso sopperendo, in qualche maniera, a delle preoccupanti lacune non già degli storiografi nè, tantomeno, del mondo accademico quanto, piuttosto, della scuola pubblica che ha cosparso e, ancora oggi, cosparge - un pò meno, in verità - di agiografia e di stucchevole retorica la storia del nostro risorgimento. Purtroppo quest'opera, che avrebbe potuto - direi, anzi, dovuto ! - assurgere ad un capolavoro assoluto della cinematografia italiana, è stata prodotta da un "provocatore" che, neanche in questa occasione, ha pensato opportuno attenuarne la "vis" con l'esito, nefasto, di estremizzarla e di scivolare, quindi, irrimediabilmente verso una contrapposta, nonchè speculare, agiografia e retorica antirisorgimentale banalizzandone, alquanto, i contenuti tant'è che questa produzione è assurta, strumentalmente, ad "arma contundente" di alcuni circoli paraintellettuali del mezzogiorno e di vecchie, nostalgiche sedicenti cariatidi neoborboniche. La ricostruzione dello scenario storico che funse da "humus" allo spontaneismo insurrezioneale del mezzogiorno è abbastanza meticolosa e particolareggiata nonchè alquanto fedele a quelli che fuono, in concreto i fatti. Molto chiara, ed ambivalente, fu la posizione dello stato Pontificio come chiare, ed ambivalenti, furono quelle della aristocrazia latifondista meridionale pronta a foraggiare, prima, e ad asfissiare, poi, la rivolta. Un pò meno chiaro, invece, è lo sguardo che Squitieri getta sulla spedizione dei "mille" ; all'inizio lascia che un ragazzino, sputando per terra, esprima, sic et simpliciter, il suo disprezzo per Garibaldi lasciando, però, subito campo a Carmine Crocco che lo conforta evocando il sempiterno mito della rivoluzione tradita. Il tradimento è un'altra chiave, sottesa, di lettura paracristiana di tutto il lungometraggio con una chiarissima allegoria alla passione ed alla morte di Cristo. Alla stregua di Gesù, quindi, anche Garibaldi è stato tradito - anche se non si riesce a capire bene da "chi" - così come lo stesso Carmine Crocco verrà tradito, più tardi, dal brigante Caruso. Questo escamotage consente, così, a Squitieri di districarsi da una pericolosissima matassa da lui stesso evocata perchè è sicuramente ortodosso e corretto additare a Nino Bixio tutte le ombre e le malefatte di quella spedizione ma la sacralità della figura dell'eroe dei due mondi deve restare scevra ed avulsa da ogni sospetto. Più comodo, dunque, focalizzare il biasimo degli spettatori su una figura di secondo piano come Enrico Cialdini nominato "prefetto" dallo stato sabaudo con il compito di "normalizzare" un disagio sociale crescente che se si fosse saldato alle grandi aree urbane del sud avrebbe rischiato seriamente di degenerare in una sobillazione di massa. Anche l'atteggiamento della corona borbonica e, più in generale, della Spagna resta ai margini dello sguardo che getta Squitieri sulla lettura di quegli avvenimenti. Parimenti la stessa chiave di interpretazione del cineasta è il tradimento ; il generale Josè Borjes tradisce, appunto, Crocco promettendogli aiuti e finanziamenti che non arriveranno mai. In realtà basta poco a capire le reali motivazioni per le quali la Spagna e l'Austria non riuscirono a fornire un supporto adeguato al brigantaggio ovvero l'asfissiante controllo del bacino del mediterraneo da parte della flotta inglese che precluse i rifornimenti di viveri e di armi agli insorti così come aveva precluso l'ausilio militare invocato dal re borbone Francesco II - il famigerato "Franceschiello" - all'epoca della spedizione garibaldina. Ma tant'è che anche su questo aspetto Squitieri sorvola clamorosamente. Se vogliamo tutta la sua rielaborazione è troppo manichea ; il film, quindi, oscilla paurosamente tra una lettura storiografica, anche rigorosa, ed una qual sorta di fiction dando al lungometraggio toni e pathos decisamente altalenanti e contraddittori influenzandone, così, anche il ritmo che risente, paurosamente, di questi cambi di "campo": troppi dialoghi superflui oppure, di contro, troppa laconicità. La dicotomia, quasi surreale, che si instaura tra i piemontesi ed i briganti rasenta, alle volte, il ridicolo richiamando una chiave di lettura parahollywoodiano di seconda mano ; la latitanza di Squitieri nel cercare di inquadrare la difficile posizione del "prefetto" Cialdini che si trovò a gestire - e male, aggiungo - una situazione ai limiti della sedizione di massa è preoccupante. D'altronde il brigantaggio non fu, soltanto, un movimento spontaneo di senza terra e di braccianti ma ebbe saldi legami con la delinquenza locale sfociando in meschine degenerazioni e vendette trasversali. La gestione politica e sociale delle insurrezioni, quindi, talora assunse un carattere eminentemente bellico talaltra una connotazione di "mere" operazioni di polizia. Troppo poco, dunque, per un lungometraggio che avrebbe potuto assumere una fisionomia ben diversa ovvero una sorta di affresco della storia dell'Italia post-unitaria. Peccato davvero ma, ad ogni modo, ritengo "doveroso" consigliare la visione di questo film come, parimenti "doveroso", ritengo dare un plauso al coraggio di Squitieri che, almeno in ambito cinematografico, ha avuto il coraggio di affrontare, per primo, una tematica così spinosa e dolorosa che ancora evoca dolori e sofferenze patite dalla mia gente. Mi è molto piaciuta, infine, la ricostruzione e la sceneggiatura della presa di Melfi operata senza alcun effetto speciale e che nella sua "pochezza" cinematografica evoca, splendidamente, quella che, approssimativamente, è stato realmente quello specifico evento bellico. Quanto agli attori che han preso parte alla produzione del film a giudizio di chi scrive troneggia, senza mezzi termini, la interpretazione di Benoit Vallès che conferisce al generale Cialdini una fisionomia netta e "rassicurante" rasentando, certo, il grottesco seguendo però, in questo, le pedisseque e meticolose istruzioni indicategli dal regista e risultando, quindi, nell'ottica manichea della ricostruzione dei fatti, estremamente credibile. Consona anche la interpretazione di Carlo Croccolo (don Vincenzino) e di Enrico Lo Verso (Carmine Crocco). Il canto, struggente, della corifea Lina Sastri - chiara allusione al teatro greco antico - chiude, così come aveva aperto, il lungometraggio anche se, a mio giudizio, sarebbe stato preferibile tagliare questa sequenza "melodrammatica" che resta avulsa dal linguaggio cinematografico dell'opera.