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domenica 28 marzo 2010

Una piccola digressione, l'ostracismo a Totò, il suo qualunquismo, l'intellighenzia di sinistra parte seconda

Totò non fu l’unico artista che, in quegli anni e in quelli a venire, patì un ostracismo comminatogli dai vertici della neonata televisione. Ci furono, invero, anche altri personaggi del mondo dello spettacolo che caddero sotto la scure di attacchi censori a tutto campo.
Dario Fo e Franca Rame, ad esempio, furono banditi dal piccolo schermo per reiterati e quanto mai “inopportuni” accenni e riferimenti ad alcune coeve vicende sociali e politiche in concomitanza di alcune edizioni di “Canzonissima” dei quali erano i conduttori. Uno degli episodi che indusse l’azienda a prendere un provvedimento di tal genere fu uno specifico riferimento dell’attore alle morti bianche sul lavoro. Curioso notare come questo tema sia, poi, diventato una sorta di leit-motiv che, a scadenze programmate, viene periodicamente riproposto dalle confederazioni sindacali, dalle organizzazioni partitiche e persino, recentemente, dal capo dello stato. E, parimenti, curioso risulta, paragonato a quello di quaranta anni orsono, l’atteggiamento dei vertici dell’informazione pubblica – ed, oggi, anche privata – che mentre, ieri, in virtù di un indirizzo anche pedagogico tendeva ad offuscare determinate notizie viceversa, oggi, contribuisce ad alimentarle conferendole un morboso pathos con edizioni roboanti, servizi speciali ed “approfondimenti” in seconda serata salvo, poi, apporre una assordante sordina e contribuirne, repentinamente, alla rimozione per dare in pasto, alla opinione pubblica, un nuovo scandalo di mala sanità, un nuovo stupro di un extra comunitario – meglio se romeno – un nuovo caso di pedofilia per, poi, ciclicamente, ritornare sulle morti bianche osservando, così,strettamente la falsariga del linguaggio pubblicitario che modifica, periodicamente, l’oggetto del desiderio che fa da corollario al prodotto. Per alcuni partiti politici storicamente legati al mondo del lavoro, poi, le morti sul lavoro sono uno occasione ghiotta per rifarsi il maquillage e conquistare un pò di visibilità mediatica. Per qualche segretario politico con minor scrupoli, infine, è anche una ghiotta occasione per recuperare qualche consenso candidando qualche operaio superstite nelle proprie liste. In ogni caso sia Fo, che la Rame, ripiegarono sulla loro compagnia e sulla loro attività teatrale anche perché la loro militanza politica contribuì a preservarli anche artisticamente. Se furono boicottati sul piccolo schermo, dove ritornarono qualche lustro più tardi in occasione della messa in onda del programma televisivo “Mistero buffo”, la longa manus del partito, in qualche maniera, contribuì a preservarne l’attività teatrale consentendo loro di poter avere libero accesso ai teatri di mezza Italia. Dario Fo e Franca Rame patirono, quindi, una censura di matrice politica ad opera di alcuni settori che si richiamavano, politicamente, alle aree più conservatrici della Democrazia Cristiana.
Mina Mazzini, invece, fu epurata dalla televisione di stato per la sua “scandalosa” relazione con l’attore Corrado Pani da cui ebbe anche un figlio – Massimiliano Mazzini – che il padre, all’epoca già coniugato, poté riconoscere solamente molti anni più tardi riuscendo a conferirgli il proprio cognome ma riuscì, in virtù di un talento vocale semplicemente straordinario, a ritagliarsi un suo spazio nel mondo della musica – intensificò la sua attività canora riprendendo la via delle tournee – per poi, di lì a poco, essere richiamata e rientrare nuovamente in Rai. L’ostracismo comminato a Mina fu, quindi, di matrice etica, non politica, e fu, in qualche maniera, immediatamente rimosso. E’ probabile che, in questa specifica circostanza, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche abbiano fatto sentire la propria voce di biasimo per il comportamento, moralmente, assai poco ortodosso dell’artista.
Lelio Luttazzi e Walter Chiari, invece, furono vittime di un fumus persecuzionis ante litteram ad opera di alcuni giudici che, sulla base di accuse rivelatesi assolutamente inconsistenti ad opera di presunti e, quanto mai, improbabili e credibili collaboratori di giustizia, non esitarono un istante, in cambio di qualche spicciolo di notorietà, a disporre la traduzione in arresto immediata dei due artisti prelevati sotto l’occhio morboso, ed impietoso, delle telecamere del servizio pubblico.
I rotocalchi dell’epoca non esitarono un attimo a riprendere, con il tele obiettivo, alcune istantanee di Walter Chiari, smagrito e con lo sguardo scavato, abulico ed assente, durante l’ora d’aria che pubblicarono immediatamente senza scrupolo alcuno dando in pasto, ad una opinione pubblica già famelica che andava perdendo una qual sorta di innocenza, una crudele, e sadica, rappresentazione della verità. Del resto quegli stessi rotocalchi non avevano esitato, parimenti, un momento a fare la medesima operazione di sciacallaggio mediatico in occasione del decorso terminale della malattia che colpì papa Pacelli qualche anno prima. Furono prove tecniche di trasmissione che si rivelarono molto utili qualche lustro più tardi in occasione dell’inchiesta “Mani pulite” che fu contrassegnata, sotto un aspetto meramente informativo, da uno sciacallaggio senza pari. Luttazzi, musicista di rara sensibilità, riuscì, in qualche maniera, ad uscirne relativamente indenne e, dopo esser stato prosciolto da ogni accusa, riprese a fare un po’ di televisione salvo, poi, ritirarsi nella sua Trieste rifugiandosi nella sua attività di concertista amareggiato e sconcertato per l’assurdo linciaggio mediatico cui venne reiteratamente sottoposto in tutti quegli anni. Ma Walter Chiari, invece, che era nato, per così dire, con la televisione pagò un prezzo assurdo. L’arresto e la detenzione al penitenziario di Regina Coeli lasciarono un segno talmente indelebile nel fisico e nel morale dell’uomo Walter Annicchiarico da cui l’attore non si riprese mai più.
Questi tre esempi che abbiamo ripercorso in un lasso di tempo di una decina d’anni mostrano come l’ostracismo possa seguire vie diverse e, talora, drammatiche. Quello di Totò, invece, fu contrassegnato da una triplice direttiva di stampo artistico, politico ed etico. Del resto, in un’ottica prettamente artistica, ancora oggi risulta improbo catalogare, in senso ortodosso, molta della produzione di Totò nella categoria dei lungometraggi e questo perché più che realizzazioni compiute – con tanto di sceneggiatura, montaggio e quant’altro – le sue pellicole erano, per così dire, una summa di gags scollacciate tra loro assolutamente prive di dialoghi consistenti e che si reggevano, stentatamente, ad un copione maldestro. Se, ad esempio, provassimo a scorporare dal film “Totò, Peppino e la malafemmina” le scene nelle quali recitano i due mattatori il rimanente sarebbe un prodotto di ben infima qualità. E questa “incisione” operata nella stragrande maggioranza dei suoi film produrrebbe il medesimo effetto. Sotto un profilo squisitamente tecnico, dunque, la critica aveva modo di potersi destreggiare senza problemi di sorta proprio perché la maggior parte delle pellicole girate da Totò prestavano il fianco a tutta una serie di osservazioni ed appunti. A cominciare, ad esempio, proprio dai titoli delle pellicole che lo vedevano protagonista contrassegnate, troppe volte, dal suo nome d’arte. La carriera cinematografica di Totò si dipana in un arco temporale di ben sei lustri dal 1937 – il suo primo lungometraggio, “Fermo con le mani” è, appunto, di quell’anno – al 1967 ma, solamente, nel dopoguerra la sua produzione assumerà un ritmo decisamente frenetico e commerciale. Se andassimo a dare una rapida scorsa ai titoli dei film interpretati dall’attore potremmo notare, subito, come il suo nome campeggiasse in moltissimi, decisamente troppi, titoli delle pellicole che lo videro protagonista : Totò, Peppino e la malafemmina, Totò Lemokò, Totò contro i quattro, Totò, Peppino e i fuorilegge, Totò al giro d’Italia, Totò, lascia o raddoppia ?, Totò e Peppino divisi a Berlino, Totòtruffa ’62, Totò e Cleopatra, Totò contro Maciste, Totò sceicco, Totò all’inferno, solo per citarne qualcheduno ; questa connotazione era, naturalmente, una mera operazione commerciale perché il suo nome, impresso a caratteri cubitali sulle locandine, era un irresistibile richiamo che induceva frotte di spettatori ad affollare le sale di proiezione per poterlo vedere in azione epperò contribuiva a marginalizzarlo dalla considerazione del gotha cinematografico ed a fornire pretesti ulteriori per fomentare la campagna di aparthaidizzazione fomentata dalla critica. Le sceneggiature, d’altronde, non erano che stralci di bozze messe su alla rinfusa e sulle quali l’attore aveva ampia facoltà d’intervento come abbiamo già visto, ad esempio, nel lungometraggio “Totò, Peppino e la malafemmina” circa la stesura della lettera che nulla, o quasi, serbava del copione originario. Le inquadrature lamentavano, troppo spesso, una statica rigidità della cinepresa denotando una fissità nella quale la mano del regista era, spesso e volentieri, latitante.
I montaggi erano, parimenti, alquanto raffazzonati anzi, talora, del tutto assenti. La fotografia, inoltre, denunciava un pressappochismo sconcertante priva com’era di dettagli, particolari e sfumature. I dialoghi, sui quali si incardinava la struttura della pellicola, ad eccezione – e, va detto, non sempre – di quelli che lo vedevano protagonista, erano, spesso, privi di consistenza e di pregevolezza artistica. Le atmosfere che si respiravano in quei lungometraggi denunciavano delle cadute di pathos, alle volte, decisamente imbarazzanti. Con buona pace dei protagonisti e, anche qui non sempre, dei co-protagonisti, il resto della pellicola era contrassegnata da comparse decisamente goffe ed inadeguate. C’erano, insomma, tutti gli elementi per catalogare queste pellicole come prodotti di scarso valore qualitativo eppure, ciò nonostante, quei lungometraggi riuscivano ad incardinarsi in una struttura filmica proprio in virtù della immensa vis recitativa che propugnava Totò il quale riusciva a conferirne una parvenza filmica fungendo da cosmetico connettivo cicatrizzante tutte le smagliature del prodotto. Queste considerazioni erano di appannaggio anche della critica cinematografica ma soltanto dopo quella “improvvida” sortita al varietà “Il musichiere” di cui sopra furono poste in risalto tralasciando, in maniera disonesta e del tutto faziosa, quanto di pregevole e, artisticamente parlando, di spessore l’attore aveva, già allora, profuso in opere di qualità indiscussa ed, altresì, di minor calibro. Curioso, per non dire altro, notare come, ad esempio, la ferocia con la quale i critici si scagliarono contro Totò non fosse, parimenti, riservata, dagli stessi, a Peppino De Filippo, ad Aroldo Tieri, a Nino Taranto, a Mario Castellani, ad Isa Barzizza, a Sophia Loren, ad Aldo Fabrizi, a Luigi Pavese che, pure, avevano accompagnato spesso e volentieri l’attore nelle sue produzioni. E, parimenti, molto curiosa, per non dire sospetta, la retroattività dei biasimi e delle ingiurie comminategli quasi come se, fino a quel momento, nessuno di loro si fosse avveduto di che cosa Totò avesse prodotto fino a quel momento. Fu una operazione vergognosa ed ignobile espletata con il tacito consenso dei redattori di quotidiani, specializzati e non, e con l’indiretto avallo conferito dall’ostracismo comminato, dalla televisione di stato, a Totò a cui fu preclusa la partecipazione – riservata ad altri attori con asfissiante cadenza – ai varietà di intrattenimento televisivi che cominciavano a fungere, in quegli anni, da propellenti promozionali alle pellicole sull’orlo delle uscite, nelle sale cinematografiche del bel paese, in prima visione. Questa operazione, inoltre, ebbe l’avallo anche di quelle strutture e di quelle fondazioni culturali intrinsecamente legate al partito comunista la cui influenza, già allora, era estremamente pregnante sulla sedicente intellighenzia del paese. Ma l’ostracismo comminato a Totò fu, altresì, corroborato anche da quella parte più conservatrice della cultura cattolica che condannava, senza remore, la vita privata dell’uomo Antonio De Curtis reo, ai loro occhi, di aver ratificato, de facto, il suo concubinaggio, in quegli anni, con l’attrice Franca Faldini una donna bellissima e di una sensibilità umana, prima ancora che artistica, fuori dal comune che fu, dapprima, compagna di lavoro e, poi, compagna di vita dell’attore.
Nel link allegato, tra i vari interventi, c’è una testimonianza, in particolare, molto toccante riportata a Maurizio Costanzo proprio dalla Faldini di cui non anticipo assolutamente nulla perché mi parrebbe, oltremodo, a dir poco irriguardoso cercare di apporre un mio commento ovvero una mia osservazione ad una vicenda così intensa e così intima che ha visto protagonisti i due attori se non quella – sociologica – che questo accorato racconto profuso in un talk show riesce a far trasudare, in poche battute, quella tetra ed asfissiante atmosfera che si respirava in quegli anni e che ha contribuito a soffocare, prima ancora dell’artista, l’uomo Antonio De Curtis. La scarna crudezza con la quale Franca Faldini riporta quell’episodio mi ha fatto accapponare la pelle. Totò, del resto, era perfettamente consapevole di questa cortina di ferro ricamatagli attorno volta ad emarginarlo dal contesto artistico e sociale del paese ed, amaramente, ne fece menzione, più volte, in una di quelle frasi passate, per ironia della sorte, nella storia della cinematografia : “Poi dice che uno si butta a sinistra ! Poi dice che uno si butta a destra ! poi dice che uno si butta al centro ! Non sai dove ti devi buttare !”. Questa locuzione, alla luce di quanto esposto sopra e di quello che ascolterete nel link in allegato, si colora di una tinteggiatura talmente amara che, oggi, io non riesco proprio più a riderne. Totò, quindi, è vittima di un triplice ostracismo sul piano umano, politico ed artistico. Una censura, potremmo dire, di matrice cattocomunista da cui riuscirà a districarsi in virtù, unicamente, della sua immensa vis recitandi che gli consentì di non naufragare nel dimenticatoio
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