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mercoledì 17 giugno 2015

Amore e odio



BESTIA HUMANA - UNA MODERNA CARICATURA DELL'UOMO


Nella storia  dell'umanità si susseguono, quasi senza soluzione di continuità, capitoli sanguinari; né, fino a oggi, è cambiato qualcosa: solo che, forniti di armi atomiche, in caso di complicazioni belliche corriamo il pericolo di annientarci. Abbiamo imbrigliato le forze della natura, vinto le epidemie, sterminato gli animali feroci che un tempo ci minacciavano: oggi i nostri peggiori nemici siamo noi stessi - a meno che non si riesca di addomesticare le nostre pulsioni aggressive.
Ma, ve n'è la sia pur minima prospettiva? Non saremo forse dominati da un istinto di aggressione congenito, da una libido di assassinio che, nel caso migliore, possiamo reprimere, mai eliminare? Recentemente, proprio questo è stato ripetutamente affermato.
"Caino domina il mondo: a chi ne dubita consigliamo di rileggersi la storia" scrive Leopold Szondi nel 1969. Egli rappresenta la teoria secondo la quale a tutti gli uomini  è propria una disposizione all'assassinio, e parla di una diatesi di Caino, fattore istintuale innato; similmente scrive Robert Ardrey.
La stampa quotidiana e periodica riprende queste tesi. Così nel numero del 17 gennaio 1969 della rivista "Time" leggiamo che l'uomo è l'animale più aggressivo della terra, perché gioisce, fondamentalmente, nel torturare ed uccidere altri animali, compresi i congeneri. Addirittura, ogni figlio assassinerebbe volentieri suo padre se questo impulso naturale non venisse astutamente represso: un giorno, quel figlio si troverà infatti nella stessa situazione del padre.
La tesi afferma dunque che l'uomo è predisposto per sua natura all'assassinio, benchè ragione e capacità di previsione reprimano tale impulso: si potrebbe parlare di un concetto del bruto addomesticato. Da tale angolazione, nell'uomo, il bene è prodotto di cultura, il male risultato di pulsioni oscure contro cui egli nulla può. 
Non è una tesi nuova, questa dell'essenza asociale e omicida dell'uomo. Già la sosteneva il filosofo inglese Thomas Hobbes, riconoscendo all'uomo solo l'istinto all'autoconservazione e la brama di potenza. La lotta di tutti contro tutti, che necessariamente conseguirebbe alle premesse, sarebbe limitata, secondo Hobbes, solo dalla costrizione che le autorità esercitano sulla volontà dell'uomo.
 Ma è antica anche la tesi opposta secondo cui l'uomo, in origine, avrebbe avuto indole pacifica e buona e sarebbe stato guastato e reso aggressivo solo dalla civiltà (Jean-Jacques Rousseau). La disputa sulla 'vera' natura dell'uomo è giunta fino a oggi, e i punti di vista estremi sono ancora sostenuti da alcuni.
La tesi hobbesiana ebbe, nel corso del tempo, varie riedizioni: Thomas Huxley (1888) interpretava la darwiniana 'lotta per l'esistenza' in senso hobbesiano, come uno spietato scontro nel quale solo i più forti, agili e scaltri rimangono in vita. Egli confrontava tale processo con i combattimenti dei gladiatori, i quali ricevevano un trattamento d'eccezione per essere poi spinti, il giorno dopo, all'arena. Solo che, nel nostro caso, gli spettatori non hanno occasione di fare, prima, il gesto del pollice verso, perché, in ogni modo, non si concede grazia. Pjotr Kropotkin (1904), al contrario, ritiene che la socialità costituisca una legge di natura non meno della lotta. Egli fa notare che anche questo si sarebbe potuto leggere in Darwin, se del suo pensiero non fossero state colte più le formulazioni di maggiore effetto che la linea centrale.
I moderni paladini del concetto di 'bestia umana' si richiamano ai risultati della ricerca etologica e della psicoanalisi. Ambedue queste discipline hanno dimostrato che nell'uomo è innato un istinto aggressivo, e ciò viene poi sfruttato unilateralmente; da alcuni, a giustificare e scusare il comportamento aggressivo; altri, che rifiutano una posizione così conservatrice, curiosamente non rivolgono i loro strali contro chi usa illeggittimamente  l'etologia, ma sostengono che questa disciplina è responsabile dell'errore. Così, Arno Plack rimprovera gli etologi di aderire a corpo morto alla dottrina secondo la quale 'tutto è lotta', di costituire l'istinto aggressivo in istinto fondamentale di tutto ciò che vive, giustificando una cultura della violenza con la natura asociale dell'uomo. In analoga direzione si muovono molte delle critiche raccolte nel libro di Ashley Montagu. Si deve dunque supporre che questi autori credano che l'etologia insegni l'invariabilità della natura umana e veda in un istinto aggressivo la motivazione principe del comportamento dell'uomo.
Sfatare simili punti di vista è uno degli scopi di questo libro.
A questo proposito, è da premettere che accennare al carattere innato di un comportamento o di una predisposizione non implica affatto che essi siano tetragoni a qualsiasi influsso esercitato dall'educazione, né che li si debba ritenere 'naturali', intendendo con questa parola: 'funzionali'. Un comportamento sviluppatosi nel corso della filogenesi può perdere la sua funzione originaria: così, una forte pulsione aggressiva può aver promosso lo sviluppo intellettuale dell'uomo attraverso una drastica concorrenza fra gruppi umani, e, al contempo, può aver costretto l'uomo a diffondersi su tutta la terra. Ma oggi un eccesso di aggressività può per l'appunto portare all'autodistruzione; perciò non è il caso di accettarla incondizionatamente solo perché è innata, ma ci si deve sforzare di controllarla. L'etologia, attraverso l'indagine sulle situazioni basali, stabilisce le premesse per una terapia che dovesse eventualmente imporsi; essa cerca di investigare il funzionamento di quei meccanismi fisiologici che mettono in opera un certo comportamento allo scopo di riuscire a eliminare i disturbi dell'ingranaggio grazie alla conoscenza delle strutture funzionali. Così facendo, può risultare che certi adattamenti filogenetici sussistano in qualità di zavorra storica: siano, cioè, non funzionali o addirittura pericolosi per l'organismo, come lo è l'appendice ciecale. Simili 'appendici' possono darsi anche nel comportamento.
Non si vede bene su che si fondi l'obiezione di Plack che "gli etologi" ricondurrebbero tutto, in ultima analisi, all'istinto di aggressione: ma Konrad Lorenz, che Plack cita espressamente in questo contesto, parla, efficacemente, di un "parlamento degli istinti", dicendo chiaramente con ciò, che un animale viene motivato, spesso in modo polare, da diversi sistemi funzionali. La pulsione aggressiva è solo una fra molte. Ma poiché quelle accuse sono state tuttavia mosse, si deve supporre che, parlando di aggressività, si sia troppo poco posto in rilievo il potenziale sociale di uomini e animali.  Nelle predisposizioni alla consociazione è la chiave che può permettere di dominare il problema dell'aggressività. Perciò, in questo libro, vorrei parlare estesamente dei meccanismi sociativi, di quegli antagonisti naturali dell'aggressività su cui possiamo fondare le nostre speranze di un futuro di maggiore concordia. L'espulsione sociale (aggressività) e l'attrazione sociale (simpateticità) formano, nei vertebrati superiori, un'unità funzionale: e come tale io vorrei rappresentarle.
Difendo, cioè, la tesi che comportamento aggressivo e comportamento altruistico sono programmati attraverso adattamenti filogenetici e che, dunque, esistono norme prestabilite del nostro comportamento etico. A mio avviso, gli impulsi aggressivi dell'uomo vengono controbilanciati da inclinazioni alla socievolezza e al soccorso reciproco altrettanto profondamente radicate. Non è l'educazione che, per prima, ci programma al bene: siamo buoni già per predisposizione; e se riusciamo a dimostrare ciò cade la tesi citat all'inizio, che il bene sia sovrastruttura culturale secondaria. Esporremo come l'inclinazione alla collaborazione ed al soccorso reciproco sia innata come molte delle modalità comportamentali concrete del contatto amichevole. E' sarà oggetto di ricerca il perché tutte queste predisposizioni non siano state, finora, sufficienti a imbrigliare in ogni situazione le nostre pulsioni aggressive.
[...]
L'uomo è costituito originariamente per una vita di associazioni individualizzate: passando a una vita condotta in comunità anonime si verificano difficoltà di identificazione. Da un lato, esiste evidentemente l'impulso a fondare un rapporto anche con estranei; dall'altro, l'inclinazione a separarsi da altri chiudendosi in un gruppo. Noi incliniamo a coartare membri dei gruppi estranei in uno schema di ostilità: ci dobbiamo chiedere se, così facendo, veniamo indotti coattivamente a stabilire certi collegamenti di pensiero. Il chiarimento di questi nessi è di grande importanza per chi si dedichi allo studio delle premesse e modalità della pace. L'uomo, di fronte a estranei, si sente, sempre, meno legato, e dunque meno inibito nell'aggressività: questo è uno dei motivi per cui i conflitti intestini sono fra i più acri
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Noi uomini siamo in generale convinti di agire per libero arbitrio; crediamo di poter liberamente decidere di fare una cosa e non fare un'altra. Ma, a volte, l'insorgere dell'ira non turba forse la limpidezza delle nostre decisioni? Non diciamo forse, come se fossimo costretti, cose che in altra situazione psicologica non avremmo detto? E, ancora, non reagiamo forse, a certe situazioni, addirittura automaticamente, in modi sostanzialmente uguali, senza prima aver riflettuto?