Una
volta, tanti anni fa, ma tanti quanti non potete
nemmeno
immaginare giacché forse si trattava addirittura
d’un
altro ritorno storico, c’era una vecchia astronave,
cosi
vecchia, poverina, che era piena di rabberciature e
di
pecette, ma d’altra parte questo era l’ultimo viaggio
interplanetario
che avrebbe compiuto e inoltre, affinché
non
facesse proprio brutta figura e soprattutto non sco-
raggiasse
fuor di modo i viaggiatori, le avevano dato una
bella
mano di tinta fosforescente color arancione, sulla
quale
il nome del glorioso astromobile, che un secolo e
mezzo
avanti era stato tra i primi ad atterrare per cosi
dire
sulla Luna, spiccava in azzurro con tutto il suo buon
sapore
di vecchi sentimenti: Speranza N. 5.
In
quel pomeriggio del 16 settembre, mercoledì, in cui
la
nostra storia comincia, la Speranza N. 5, ridipinta come
si
disse a nuovo, giaceva bellamente spaparanzata sul-
l’alto
dello scivolo di lancio dell’astroporto di Vibo Valen-
tia
— sapete: in provincia di Catanzaro — e a guardarla
faceva
venire in mente, più che altro, l’Arca di Noè. In
effetti
vi stava salendo una lunga processione di esseri
viventi
dove le bestie erano più numerose degli umani e,
se
si eccettuano le bestie feroci, vi erano rappresentate
un
po’ tutte, almeno quelle che vivono nel clima medi-
terraneo:
dalle vacche alle galline, dai maiali ai canarini,
dalle
pecore ai conigli, e molti ciuchi si capisce, e anche
un’intera
famiglia di topi che s’era nascosta dentro un
sacco
di lupini che Massaro Vincenzo Lotorto da Cocco-
rinello
si portava sulle spalle perché i lupini gli piace-
vano
moltissimo e pensava di seminarne un campo intero
lassù
sul pianeta Saturno dove la Speranza N. 5 l’avrebbe
portato.
Pur che crescessero i lupini, lassù, se ne senti-
vano
dire tante, su questo pianeta Saturno...
Mentre
dunque la lunga processione di bestie e di umani
saliva
ordinatamente dentro il capace ventre dell’astro—
nave
in partenza per Saturno, tutto intorno c’era fervore
di
preparativi e rapido movimento di macchine e di tec-
nici,
e rumori di pompe, valvole, tubi di caricamento,
ingranaggi,
carrucole, gru, sirene come quelle che un
tempo
usavano i pompieri, e sopra questi rumori un buon
numero
di altoparlanti sparsi un po’ dappertutto diffon-
devano
musichette piacevoli ed energetiche, le quali però
a
tratti s’interrompevano per lasciare posto a una voce
ferma,
autorevole, perfino un po’ irritata, alla quale certi
diffusori
speciali davano una risonanza ampia ed eccelsa,
come
se si fosse trattato della voce del Buon Dio pro-
veniente
dall’alto dei cieli in un suo momento di malu-
more,
mentre in realtà era semplicemente la voce d’un
superannunciatore
della Propaganda che declamava motti
psicopolitici:
“ L'uomo ubbidiente é padrone dell’Uni—
verso!
“ “ Noi stiamo vivendo nella felicita dell’Avve-
nire!
“ “ Il cittadino dell’Era Cosmica è pacifico e con-
tento!
“ “ La Statistica ha sempre ragione! “.
In
verità né Massaro Vincenzo Lotorto da Coccorinello,
né
Mastro Antonio Caronte da Loppolo, né Comare Grazia
Polimeni
da Panaia, né alcun altro di quei milletre-
centoquarantasette
emigranti che formavano l’ultimo e
definitivo
gruppo di terrestri in partenza dalle regioni del
Mezzogiorno,
capivano bene cosa volessero dire tali motti
o
slogan psicopolitici, non possedendo essi ad esempio
idea
chiara di che fosse la Statistica, sia nel suo vecchio
significato
di scienza avente per oggetto lo studio di feno·
meni
interessanti collettivita di individui presi un po’
come
numeri, sia nel nuovo significato di Divinita oscura'
e
onnipotente che in effetti prendeva gli individui sol-
tanto
come numeri, però che la Statistica avesse sempre
ragione
lo sapevano benissimo, e così in ogni caso il risul-
tato
dell’emissione era positivo, nel senso che ficcava loro
vieppiù
profondamente nella testa il concetto che, ecco,
non
potevano farci nulla.
D’altra
parte essi parevano non addolorarsene affatto,
anzi
sembravano tutti allegri e contenti, sorridevano, can-
ticchiavano,
alcuni di quando in quando eseguivano per-
fino
passi di danza e piroette mentre procedevano verso
il
ventre spalancato dell’astronave, e soltanto guardando
un
po’ più profondamente nei loro occhi ci si sarebbe
potuti
accorgere che l’euforia era artificiosa, prodotta dalle
pillole
timolettiche di eucatecoltonina che le ragazze del
Comitato
per la Felice Evacuazione delle Aree Depresse
avevano
loro somministrato durante la settimana di pre-
parazione,
e che in realtà quella gente era molto addo-
lorata
di dover lasciare la casa, il paese e anche la Terra.
La
lasciavano, infatti, non di propria volontà, ma per
ordine
e disposizione dell’Ufficio Statistico della Que-
stione,
il quale aveva capito, Verso il 2160, che sulla
ormai
trisecolare Questione del Mezzogiorno s’era accu-
mulato
un tale groviglio di piani, schemi, imbrogli, Leggi
speciali,
idee risolutrici e buone intenzioni, che l’unica
cosa
saggia che rimanesse da fare era infine spedire gli
abitanti
delle zone meridionali, volgarmente chiamati ter-
roni,
sul pianeta Saturno, lasciando obbligatoriamente
disabitate
le loro terre d’origine, affinché presto o tardi
non
vi nascesse una nuova questione.
Il
pianeta Saturno era stato opportunamente scelto, dal-
l'Ufficio
Centrale di Statistica del Primo Blocco, prima
di
tutto perché molto grande — dopo Giove il più grande
del
Sistema — e quindi i terroni vi si sarebbero potuti
riprodurre
liberamente senza pericolo vicino di sovrappo-
polazione,
e in secondo luogo perché, essendo il grosso
globo
collocato lontano dal Sole e per di più perenne-
mente
immerso in densi vapori, vi mancavano quelle con-
dizioni
di clima e di paesaggio che sulla Terra avevano
reso
i terroni alquanto svagati e, diciamolo pure, pigri.
In
questo senso, ossia come correttivo del carattere e del
costume,
il trasloco su Saturno di intere popolazioni de-
presse,
benché assai recente e anzi ancora in via di com-
pletamento,
aveva dato risultati eccellenti, e all'Ufficio
Centrale
del Primo Blocco già si sapeva, ad esempio, che
la
produttività media dei terroni, in un clima freddo e
umido,
e con visibilità limitata ai 5-7 metri, era aumen-
tata
del 209 per cento, e continuava ad aumentare.
I
milletrecentoquarantasette viaggiatori della Speranza
N.
5 erano dunque gli ultimi abitanti dell’Italia Meri-
dionale
che lasciavano il Mezzogiorno ormai libero da
popolazione
e ad essi l’Ufficio Statistico della Questione
aveva
applicato le stesse regole e provvidenze applicate
ai
9 milioni circa di terroni che li avevano preceduti su
Saturno,
e cioè ciascun viaggiatore, tenuto presente che
per
l’intera durata del viaggio cibo e bevande sarebbero
stati
forniti dal Comando dell’astronave, poteva portare
con
sé cose, oggetti d’uso o animali per un peso corri-
spondente
al proprio peso, essendo tuttavia consentito
che
separati individui si unissero per formare un peso
complessivo,
in modo che ad esempio due o più persone
potevano
mettersi insieme per raggiungere un peso che
consentisse
di portare un torello, o una vaccina, o un
cavallo.
Naturalmente
anche qui c’erano i furbi, come dapper-
tutto,
ma uno più furbo di Michelangelo Maiera, proprie-
tario
del negozio di Generi Alimentari e Diversi di Orsi-
gliadi,
sarebbe stato difficile trovarlo, almeno in quel
gruppo.
Infatti egli aveva una famiglia composta da mo-
glie
e sette figli, e negli ultimi mesi li aveva superali-
mentati
con le vitamine dei polli, sicché ora tutti insieme
i
nove componenti la famiglia pesavano la bellezza di
il
quintali e 79 chili, ed egli aveva disposto che ognuno
di
essi portasse soltanto un sacco col proprio peso di
sale
da cucina; giacché gli avevano detto — ma chi mai
gliel’avesse
detto era un mistero — che sul pianeta di
destinazione
il sale scarseggiava e portandone un bel po’
si
diventava rapidamente ricchi.
Povera
Pamela Maiera! Un tempo era stata una fles-
suosa
fanciulla dagli occhi neri come il carbone, che i
giovanotti,
quando veniva dalla fontana con la brocca
sulla
testa, si mangiavano a furibonde occhiate, tanto era
splendida
e ben fatta, mentre ora era una cicciona bar-
collante
sotto 96 chili di sale, e i suoi famosi occhi neri
nessuno
poteva vederli dal momento che giacevano addi-
rittura
sepolti nel grasso, ma si capiva che gli occhi sta-
vano
in quel punto dove stavano giacché da li scende-
vano
lacrime, dato che sulla povera Pamela gli psico-
farmaci
timolettici avevano scarso effetto, trovandosi essa
col
cuore sanguinante perché Agostino Gramuglia, ossia
il
suo molto amato amoroso, l’aveva piantata: cicciona
com’era,
non gli piaceva più.
Un
tipaccio, davvero, questo Agostino Gramuglia! Stava
Ii
poco più avanti nella lunga fila che entrava nel ven-
tre
dell’astronave, magro da non dire e spavaldo, anzi
sfottente
— mai una volta che si fosse girato indietro
verso
Pamela — e sulle spalle, in luogo d’un sacco di sale,
portava
la sua splendida fisarmonica a centosessanta bassi
c
tripla tastiera. E a fianco gli camminava Serafino Par-
ghelia,
che aveva undici anni ed era per cosi dire orfano,
nel
senso che per uno sbaglio della macchina dei conti — se
ci
è concesso dire che le macchine, naturalmente elettroni-
che,
possono sbagliare — i suoi genitori e fratelli erano
stati
spediti su Saturno otto anni prima, e lui, rimasto
solo
sulla Terra, era stato allevato da una nonna di Zac-
canopoli,
e in seguito, mortagli la nonna, che d’altra parte
aveva
quasi cent’anni, s’era attaccato ad Agostino, e suo-
nava
il tamburello quando Agostino andava per le feste
a
suonare la Fisarmonica, e pure lui suonava la fisarmo—
nica
quando Agostino gliela lasciava. Serafino, sconside-
rato
al pari di Agostino, portava su Saturno, invece di
salami,
galline o conigli, il suo cane Fraticchio, i suoi
gatti
Aurora e Tramonto, e la gazza Bettina, la quale gli
stava
appollaiata sulla testa ed era l’unico essere vivente
che,
quando gli altoparlanti gridavano: —— La Statistica
ha
sempre ragione! ——, si permetteva di dissentire: sbat-
tendo
le ali, alzando il becco e gracchiando: —-— Gua!
Gua!
Gua!
Giuseppe
Berto -La fantarca - 1965