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mercoledì 28 settembre 2011

La partenza della Speranza N. 5




Una volta, tanti anni fa, ma tanti quanti non potete
nemmeno immaginare giacché forse si trattava addirittura
d’un altro ritorno storico, c’era una vecchia astronave,
cosi vecchia, poverina, che era piena di rabberciature e
di pecette, ma d’altra parte questo era l’ultimo viaggio
interplanetario che avrebbe compiuto e inoltre, affinché
non facesse proprio brutta figura e soprattutto non sco-
raggiasse fuor di modo i viaggiatori, le avevano dato una
bella mano di tinta fosforescente color arancione, sulla
quale il nome del glorioso astromobile, che un secolo e
mezzo avanti era stato tra i primi ad atterrare per cosi
dire sulla Luna, spiccava in azzurro con tutto il suo buon
sapore di vecchi sentimenti: Speranza N. 5.
In quel pomeriggio del 16 settembre, mercoledì, in cui
la nostra storia comincia, la Speranza N. 5, ridipinta come
si disse a nuovo, giaceva bellamente spaparanzata sul-
l’alto dello scivolo di lancio dell’astroporto di Vibo Valen-
tia — sapete: in provincia di Catanzaro — e a guardarla
faceva venire in mente, più che altro, l’Arca di Noè. In
effetti vi stava salendo una lunga processione di esseri
viventi dove le bestie erano più numerose degli umani e,
se si eccettuano le bestie feroci, vi erano rappresentate
un po’ tutte, almeno quelle che vivono nel clima medi-
terraneo: dalle vacche alle galline, dai maiali ai canarini,
dalle pecore ai conigli, e molti ciuchi si capisce, e anche
un’intera famiglia di topi che s’era nascosta dentro un
sacco di lupini che Massaro Vincenzo Lotorto da Cocco-
rinello si portava sulle spalle perché i lupini gli piace-
vano moltissimo e pensava di seminarne un campo intero
lassù sul pianeta Saturno dove la Speranza N. 5 l’avrebbe
portato. Pur che crescessero i lupini, lassù, se ne senti-
vano dire tante, su questo pianeta Saturno...
Mentre dunque la lunga processione di bestie e di umani
saliva ordinatamente dentro il capace ventre dell’astro—
nave in partenza per Saturno, tutto intorno c’era fervore
di preparativi e rapido movimento di macchine e di tec-
nici, e rumori di pompe, valvole, tubi di caricamento,
ingranaggi, carrucole, gru, sirene come quelle che un
tempo usavano i pompieri, e sopra questi rumori un buon
numero di altoparlanti sparsi un po’ dappertutto diffon-
devano musichette piacevoli ed energetiche, le quali però
a tratti s’interrompevano per lasciare posto a una voce
ferma, autorevole, perfino un po’ irritata, alla quale certi
diffusori speciali davano una risonanza ampia ed eccelsa,
come se si fosse trattato della voce del Buon Dio pro-
veniente dall’alto dei cieli in un suo momento di malu-
more, mentre in realtà era semplicemente la voce d’un
superannunciatore della Propaganda che declamava motti
psicopolitici: “ L'uomo ubbidiente é padrone dell’Uni—
verso! “ “ Noi stiamo vivendo nella felicita dell’Avve-
nire! “ “ Il cittadino dell’Era Cosmica è pacifico e con-
tento! “ “ La Statistica ha sempre ragione! “.
In verità né Massaro Vincenzo Lotorto da Coccorinello,
né Mastro Antonio Caronte da Loppolo, né Comare Grazia
Polimeni da Panaia, né alcun altro di quei milletre-
centoquarantasette emigranti che formavano l’ultimo e
definitivo gruppo di terrestri in partenza dalle regioni del
Mezzogiorno, capivano bene cosa volessero dire tali motti
o slogan psicopolitici, non possedendo essi ad esempio
idea chiara di che fosse la Statistica, sia nel suo vecchio
significato di scienza avente per oggetto lo studio di feno·
meni interessanti collettivita di individui presi un po’
come numeri, sia nel nuovo significato di Divinita oscura'
e onnipotente che in effetti prendeva gli individui sol-
tanto come numeri, però che la Statistica avesse sempre
ragione lo sapevano benissimo, e così in ogni caso il risul-
tato dell’emissione era positivo, nel senso che ficcava loro
vieppiù profondamente nella testa il concetto che, ecco,
non potevano farci nulla.
D’altra parte essi parevano non addolorarsene affatto,
anzi sembravano tutti allegri e contenti, sorridevano, can-
ticchiavano, alcuni di quando in quando eseguivano per-
fino passi di danza e piroette mentre procedevano verso
il ventre spalancato dell’astronave, e soltanto guardando
un po’ più profondamente nei loro occhi ci si sarebbe
potuti accorgere che l’euforia era artificiosa, prodotta dalle
pillole timolettiche di eucatecoltonina che le ragazze del
Comitato per la Felice Evacuazione delle Aree Depresse
avevano loro somministrato durante la settimana di pre-
parazione, e che in realtà quella gente era molto addo-
lorata di dover lasciare la casa, il paese e anche la Terra.
La lasciavano, infatti, non di propria volontà, ma per
ordine e disposizione dell’Ufficio Statistico della Que-
stione, il quale aveva capito, Verso il 2160, che sulla
ormai trisecolare Questione del Mezzogiorno s’era accu-
mulato un tale groviglio di piani, schemi, imbrogli, Leggi
speciali, idee risolutrici e buone intenzioni, che l’unica
cosa saggia che rimanesse da fare era infine spedire gli
abitanti delle zone meridionali, volgarmente chiamati ter-
roni, sul pianeta Saturno, lasciando obbligatoriamente
disabitate le loro terre d’origine, affinché presto o tardi
non vi nascesse una nuova questione.
Il pianeta Saturno era stato opportunamente scelto, dal-
l'Ufficio Centrale di Statistica del Primo Blocco, prima
di tutto perché molto grande — dopo Giove il più grande
del Sistema — e quindi i terroni vi si sarebbero potuti
riprodurre liberamente senza pericolo vicino di sovrappo-
polazione, e in secondo luogo perché, essendo il grosso
globo collocato lontano dal Sole e per di più perenne-
mente immerso in densi vapori, vi mancavano quelle con-
dizioni di clima e di paesaggio che sulla Terra avevano
reso i terroni alquanto svagati e, diciamolo pure, pigri.
In questo senso, ossia come correttivo del carattere e del
costume, il trasloco su Saturno di intere popolazioni de-
presse, benché assai recente e anzi ancora in via di com-
pletamento, aveva dato risultati eccellenti, e all'Ufficio
Centrale del Primo Blocco già si sapeva, ad esempio, che
la produttività media dei terroni, in un clima freddo e
umido, e con visibilità limitata ai 5-7 metri, era aumen-
tata del 209 per cento, e continuava ad aumentare.
I milletrecentoquarantasette viaggiatori della Speranza
N. 5 erano dunque gli ultimi abitanti dell’Italia Meri-
dionale che lasciavano il Mezzogiorno ormai libero da
popolazione e ad essi l’Ufficio Statistico della Questione
aveva applicato le stesse regole e provvidenze applicate
ai 9 milioni circa di terroni che li avevano preceduti su
Saturno, e cioè ciascun viaggiatore, tenuto presente che
per l’intera durata del viaggio cibo e bevande sarebbero
stati forniti dal Comando dell’astronave, poteva portare
con sé cose, oggetti d’uso o animali per un peso corri-
spondente al proprio peso, essendo tuttavia consentito
che separati individui si unissero per formare un peso
complessivo, in modo che ad esempio due o più persone
potevano mettersi insieme per raggiungere un peso che
consentisse di portare un torello, o una vaccina, o un
cavallo.
Naturalmente anche qui c’erano i furbi, come dapper-
tutto, ma uno più furbo di Michelangelo Maiera, proprie-
tario del negozio di Generi Alimentari e Diversi di Orsi-
gliadi, sarebbe stato difficile trovarlo, almeno in quel
gruppo. Infatti egli aveva una famiglia composta da mo-
glie e sette figli, e negli ultimi mesi li aveva superali-
mentati con le vitamine dei polli, sicché ora tutti insieme
i nove componenti la famiglia pesavano la bellezza di
il quintali e 79 chili, ed egli aveva disposto che ognuno
di essi portasse soltanto un sacco col proprio peso di
sale da cucina; giacché gli avevano detto — ma chi mai
gliel’avesse detto era un mistero — che sul pianeta di
destinazione il sale scarseggiava e portandone un bel po’
si diventava rapidamente ricchi.
Povera Pamela Maiera! Un tempo era stata una fles-
suosa fanciulla dagli occhi neri come il carbone, che i
giovanotti, quando veniva dalla fontana con la brocca
sulla testa, si mangiavano a furibonde occhiate, tanto era
splendida e ben fatta, mentre ora era una cicciona bar-
collante sotto 96 chili di sale, e i suoi famosi occhi neri
nessuno poteva vederli dal momento che giacevano addi-
rittura sepolti nel grasso, ma si capiva che gli occhi sta-
vano in quel punto dove stavano giacché da li scende-
vano lacrime, dato che sulla povera Pamela gli psico-
farmaci timolettici avevano scarso effetto, trovandosi essa
col cuore sanguinante perché Agostino Gramuglia, ossia
il suo molto amato amoroso, l’aveva piantata: cicciona
com’era, non gli piaceva più.
Un tipaccio, davvero, questo Agostino Gramuglia! Stava
Ii poco più avanti nella lunga fila che entrava nel ven-
tre dell’astronave, magro da non dire e spavaldo, anzi
sfottente — mai una volta che si fosse girato indietro
verso Pamela — e sulle spalle, in luogo d’un sacco di sale,
portava la sua splendida fisarmonica a centosessanta bassi
c tripla tastiera. E a fianco gli camminava Serafino Par-
ghelia, che aveva undici anni ed era per cosi dire orfano,
nel senso che per uno sbaglio della macchina dei conti — se
ci è concesso dire che le macchine, naturalmente elettroni-
che, possono sbagliare — i suoi genitori e fratelli erano
stati spediti su Saturno otto anni prima, e lui, rimasto
solo sulla Terra, era stato allevato da una nonna di Zac-
canopoli, e in seguito, mortagli la nonna, che d’altra parte
aveva quasi cent’anni, s’era attaccato ad Agostino, e suo-
nava il tamburello quando Agostino andava per le feste
a suonare la Fisarmonica, e pure lui suonava la fisarmo—
nica quando Agostino gliela lasciava. Serafino, sconside-
rato al pari di Agostino, portava su Saturno, invece di
salami, galline o conigli, il suo cane Fraticchio, i suoi
gatti Aurora e Tramonto, e la gazza Bettina, la quale gli
stava appollaiata sulla testa ed era l’unico essere vivente
che, quando gli altoparlanti gridavano: —— La Statistica
ha sempre ragione! ——, si permetteva di dissentire: sbat-
tendo le ali, alzando il becco e gracchiando: —-— Gua!
Gua! Gua!

Giuseppe Berto -La fantarca - 1965