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sabato 13 agosto 2011

Dedicato a Leo

In ricordo di Leo






Stendere qualche parola per commemorare una persona cara è, relativamente, semplice perché l’unica insidia è quella di scivolare nell’agiografico laddove redigere qualcosa sul mio piccolo Leo è estremamente complicato anche per chi, come lo scrivente, ha quella sufficiente padronanza del lessico che gli consente di destreggiarsi, più o meno bene, nelle argomentazioni che affronta in quanto il rischio che si corre è quello di precipitare, a di poco, nel grottesco.
Mi sono posto, innanzi tutto, il problema di come impostare queste righe ovvero se trascrivere una qual sorta di missiva ad personam ovvero un micro compendio terzo finendo, poi, con l’optare per la seconda modalità per due ordini specifici di fattori.
Il primo è che ritengo che le emozioni, quelle vere, vadano rigorosamente relegate nell’alveo della sfera personale e custodite gelosamente.
Il secondo è l’auspicio che la mia testimonianza diretta, per quanto possa valere, possa aiutare a far dismettere tanta, troppa direi, falsa coscienza che ancora circola, colpevolmente, sui felini tutti e sui gatti in particolar modo sui quali, peraltro, si annidano, perniciosi, una reiterata caterva di assurdi stereotipi molti dei quali, gioco forza, a dir poco nefandi retaggio, nevvero, di una disgraziatissima simbologia alto-medioevale che identificava in questo splendido animale, in particolar modo in quello caratterizzato dal vello nero, una qual sorta di incarnazione del demonio.
E’ stato, a dir poco, deprimente osservare, di sottecchi, gli sguardi sconcertati di alcune persone che restavano allibite quando vedevano, nella mia dimora, circolare liberamente ben due gatti neri uno dei quali, peraltro, privo dell’occhio destro.
E, credetemi, la cultura e l’istruzione non giovano affatto poiché anche la persona più erudita se non è riuscita a somatizzare neanche una briciola di quel che ha letto affoga, ineluttabilmente, nei paradigmi dell’inconscio che gli suggeriscono di guardare con estrema diffidenza questa meravigliosa perfezione della natura come ebbe a definirla Leonardo.
E se queste righe che mi accingo a scrivere ed a pubblicare sortiranno l’effetto sperato ovvero che una persona – anche una soltanto – leggendole abbandoni le sue remore ed accolga, fra le mura domestiche, un gatto – anche uno soltanto – conseguirò, forse, la certezza che il mio piccolo Leo non è morto invano e, magari, riuscirò a farmene persino una ragione visto che, per ora almeno, ancora non sono riuscito ad accettarne la dipartita.



L’incontro con Leo



Il mio primo incontro con Leo risale, oramai, a circa cinque anni orsono quando notai un meraviglioso meticcio dal pelo fulvo che stazionava sulla tettoia di una autovettura in sosta nel parcheggio condominiale sottostante la mia abitazione di allora.
La cosa che maggiormente mi stupì fu che quel gatto, evidentemente ramingo, palesava una familiarità con le persone altrimenti assente nei randagi tout-court che mi fece supporre, a ragione, di un suo trascorso in ambito domestico.
Venni a sapere, tempo dopo, che il piccolo aveva, effettivamente, vissuto in appartamento salvo, poi, essere stato abbandonato a sé stesso dai suoi antecedenti proprietari i quali, dopo aver divorziato, non avevano trovato niente di meglio da fare che sbatterlo fuori di casa in virtù, peraltro, di un temperamento indomito del cucciolo che soleva lanciarsi dalle balaustre del balcone prospiciente il vialetto d’ingresso per assaporare la libertà nonché tornare, lercio di fango, a casa onde sporcare tutte le suppellettili ed il sofà.
Ma quell’incontro non fu prodromo ad una nuova adozione poiché, da quel giorno, non rividi più quel gatto per parecchi mesi a venire salvo, poi, ritrovarmelo inaspettatamente nell’androne antistante il mio appartamento.
Rientrai immediatamente in casa e cercai qualcosa di commestibile nella mia dispensa non trovando niente di meglio di una salsiccia arrostita ma alquanto fredda custodita nel frigorifero.
Mi premunii, perciò, di tagliarla a fettine sottili e di metterla in un piattino di plastica che adagiai, però, all’interno dell’ingresso lasciando socchiusa la porta ed allontanandomi per invogliarlo a varcare quella fatidica soglia che per lui, ma soprattutto per me, costituiva una sorta di allegorica metamorfosi.
Lo vidi entrare, naturalmente esitante, a piccoli passi guardandosi circospetto tentato, certo, dalla fame ma, naturalmente, impaurito e diffidente. Lasciai che terminò il suo pasto e che si defilasse repentino giù per le scale senza tentare in alcuna maniera di accarezzarlo o di avvicinarmici in quanto desideravo, più di ogni altra cosa, rifocillarlo e conquistarne la fiducia.
Questo è lo scoglio più arduo da affrontare quando si vuole conquistare, per l’appunto, un felino in quanto, agli antipodi dalle attitudini del cane, il gatto non anela un padrone – ovvero un proprietario terminologia con la quale ho designato i suoi antecedenti ospiti che, non a caso, ho corsivizzato più sopra – bensì un compagno con il quale instaurare un rapporto paritario.
Ci vollero settimane affinché il cucciolo cominciasse a prendere coraggio e ad ispezionare il nuovo appartamento e le nuove persone che avevano deciso di accoglierlo.
Ebbi la piena consapevolezza che il nostro rapporto si era, definitivamente, consolidato allorquando, sicuro di sé, il piccolo cominciò ad ispezionare tutti gli ambienti della mia abitazione senza timori di sorta.
Solo a quel punto decisi di dargli un nome – non sapendo, peraltro, che già lo aveva – e decisi di chiamarlo Mozart anche se la mia pronuncia era decisamente teutonica e non latinizzata con la o che pronunciavo ou, la zeta dolce e la erre molto arrotata.
Optai per questo nome dopo averlo osservato con molta attenzione e ritenni fosse quello maggiormente consono ad identificarlo in quanto che l’armonia dei suoi movimenti faceva il paio proprio con la leggiadria e la grazia delle opere del grande compositore austriaco tant’è che di primo acchito avrei voluto chiamarlo Wolfgang.
Ma Wolfgang aveva il disgraziatissimo prefisso wolf – lupo – che, naturalmente, strideva maledettamente con le attitudini di un gatto e, d’altro canto, anche il nome Amadeus non mi sembrava tanto per la quale così, per esclusione, scelsi il cognome del genio di Salisburgo.
Solo in seguito seppi, come detto dianzi, del retaggio suo proprio nonché del suo vero nome di cui, peraltro, ancora serbava memoria tant’é che quando presi a chiamarlo – meglio, richiamarlo – come era avvezzo non solo lo riconosceva ma lo sentiva, decisamente, più suo.
Inutile dire che, seppur con un pizzico di malinconia, abbandonai immediatamente Mozart per adottare Leo perché se è vero, come è vero, che reiterando a chiamarlo in quell’altro modo avrei ottenuto il medesimo effetto sentivo, al contempo, che gli avrei fatto una qual sorta di violenza psicologica decisamente gratuita ed inutile ed unicamente, a conti fatti, per compiacere il mio sterile amor proprio.
Leo, dunque, tornò ad essere il nome con il quale presi a chiamarlo in particolar modo nelle afose sere d’estate quando, fedele ad un copione già scritto, soleva uscire di casa e riposare nelle frescure della vegetazione del nostro giardino condominiale.
Era delizioso guardarlo nel mentre alzava lo sguardo per donarmi un cenno d’intesa nonché ritornare meditabondo a cogitare i suoi oscuri pensieri così come, per converso, mi precipitavo, talora in abbigliamento niente affatto conveniente, giù per le scale ad aprigli il portone per farlo rientrare in casa allorquando, al suono del mio richiamo, soleva indirizzarsi nello spiazzo antistante il portone di ingresso.
Leo divenne, così, il terzo membro della nostra famiglia a cui offrivamo un ricettacolo sicuro dove poter riparare ma al quale, al contempo, non precludevo la possibilità di uscire ogni qualvolta me ne avesse palesato la necessità.
E se al suo rientro imbrattava il nostro sofà prendevamo un detergente e lo pulivamo anche perché, se vogliamo, detergenti e detersivi sono prodotti creati alla bisogna ed un divano, per quanto bello possa essere, resta pur sempre tale.
L’avvento di nostro figlio, però, mi pose un problema non da poco in quanto ignoravo quale sorta di reazioni avrebbe potuto suscitare una novità così dirompente tenendo, doverosamente, di conto che una delle sue reiterate abitudini era proprio quella di accucciarsi all’interno della culla del piccolo.
I miei timori, quindi, erano che, seppur involontariamente, avrebbe potuto anche fargli del male.
Non avevo, però, fatto i conti con la sua intelligenza e, soprattutto, con la sua sensibilità in quanto che ogni qual volta il lettino del bambino era vuoto soleva adagiarvisi supino salvo, poi, abbandonarlo quando doveva cedergli il posto.
Leo si è legato moltissimo a nostro figlio e da lui ha sopportato, a dir poco, di tutto.
Rammento, nitidamente, una circostanza particolare nella quale trasalii perché, maldestramente, mio figlio gli infilò un dito in un occhio.
Ebbene Leo non accennò ad alcun tipo di reazione lasciandosi scappare, semplicemente, un flebile e lamentoso miagolio di dolore conscio, com’era conscio del resto, di trovarsi di fronte un mero cucciolo d’uomo.
E fu proprio quel giorno che presi coscienza della mia infima pochezza di uomo.
L’amore, quello vero, di Leo per mio figlio mi aveva, letteralmente, sconvolto e da quel giorno smise, ai miei occhi almeno, di essere un gatto divenendo tanto, ma tanto, di più.


Il tradimento



La meravigliosa simbiosi instauratasi fra di noi venne, però, bruscamente spezzata allorquando dovemmo trasferirci.
Avevamo, da tempo, prospettato una soluzione rurale che contemplasse, dunque, ampi spazi verdi e dopo diverse traversie riuscimmo a trovare una abitazione consona ovvero una porzione di un vecchio cascinale da ristrutturare
situato nei pressi dell’acropoli di Cuma, in quel di Pozzuoli, con un ampio squarcio di terra coltivata ad alberi da frutta e non troppo distante dalle principali arterie di comunicazione della cittadina flegrea per cui cominciò un lungo e massacrante periodo nel quale, al termine della giornata lavorativa, mi recavo dall’altra parte della città per vigilare sull’andamento delle operazioni di restauro dell’immobile e se è vero, come è vero, che questo tipo di scelta fu fatta in considerazione delle nostre esigenze e di quelle del bambino è, altresì, vero che una spinta decisiva ci fu fornita proprio da Leo perché ritenevamo che una dimensione agreste come quella nella quale ci accingevamo a trasferirci potesse essere una soluzione ideale anche per lui.
Ma il 20 dicembre del 2008, il giorno nel quale rifinimmo le operazioni di sgombero dalla nostra abitazione, accadde un imprevisto.
Letteralmente terrorizzato dal viavai del personale di trasloco, il mio piccolo Leo sparì del tutto cosicché ci trasferimmo senza neanche averlo potuto salutare andandocene con la morte nel cuore ma estremamente propensi e decisi a ritornare ed a portarlo via con noi.
Qualche giorno dopo, infatti, munito di un trasportino mobile di stoffa comperato alla bisogna ritornai nella nostra, oramai, vecchia dimora e presi a cercarlo trovandolo spaurito nel cortiletto condominiale.
Purtroppo non riuscii ad infilarcelo dentro in nessuna maniera sortendo, per converso, di innervosirlo oltremodo ed inducendolo ad una reazione istintiva e pericolosa poiché il piccolo, presagendo un pericolo incombente, reagì istintivamente rifilandomi un vistoso graffio alla mano destra rifugiandosi nel folto della vegetazione del giardino e dileguandosi repentinamente.
Non gliene volli – come avrei potuto del resto ? – e con mestizia decisi di abbandonare ogni tentativo non solo, e non tanto, per le oggettive difficoltà di catturarlo ma, soprattutto, per il rispetto che avevo imparato a portargli e che mi aveva indotto a capire che sottrarlo dal luogo natio gli avrebbe comportato una sofferenza lancinante.
Ritornai a casa annichilito e mai come allora quella nuova dimora, per la quale avevo fatto l’impossibile, mi apparve così desolatamente vuota e priva di senso.
Passarono, lentissimamente, alcuni giorni contrassegnati da una struggente malinconia poiché il mio pensiero soleva sostare sovente su Leo specie, poi, in quelle fredde e piovose serate d’inverno nelle quali il mio cucciolo soleva rifugiarsi in casa e la sola idea che non disponesse più di una dimora mi faceva stare in angoscia.
Questa sorta di stallo, però, fu rotto di colpo perché una nostra vicina ci informò che durante la notte Leo aveva preso l’abitudine di sostare nel cortiletto condominiale piangendo e lamentandosi ed alzando lo sguardo verso una casa, la nostra naturalmente, oramai vuota.
Ruppi, così, gli indugi ed andai dal nostro veterinario Antonello per acquistare un trasportino rigido deciso a portarlo con noi ad ogni costo anche perché il rischio, purtroppo concreto, era che qualche casigliano, infastidito dai suoi reiterati e striduli miagolii, avrebbe potuto avvelenarlo.
Ci recammo, di buon mattino, al nostro vecchio appartamento e ritrovammo Leo nel giardino.
Era un po’ smagrito ed aveva uno sguardo perso nel vuoto così decidemmo di entrare nell’androne e salire le scale per rientrare nella nostra vecchia dimora inducendolo, così, a seguirci.
Una volta dentro Leo ispezionò nuovamente l’appartamento e rimase, letteralmente, disorientato perché davanti ai suoi occhi si poneva, adesso, il meschino spettacolo di una casa, pressocché, vuota.
Era completamente abulico e disorientato e prese a stendersi, melanconico, sul pavimento.
Colsi al volo quella occasione propizia e lo infilai, repentinamente, nel trasportino chiudendo ermeticamente le chiusure.
Leo non oppose resistenza alcuna forse incredulo o forse stremato dalla inedia ma quando percepì, nitidamente, che stava per abbandonare il suo luogo natio mosse al pianto.
Ed io non dimenticherò mai quel pianto a dirotto, continuo e lancinante, che ci accompagnò lungo tutto il tragitto che facemmo fra la nostra vecchia casa, a Napoli, e la nuova a Pozzuoli.
Adagiato nel trasportino collocato sul sedile anteriore destro della mia autovettura proruppe in un lamento disperato la cui eco ancora risuona in qualche anfratto della mia memoria.
In quel pianto c’era tutto : dolore, certo, ma anche una sorta di biasimo nei nostri confronti perché, in quel momento, Leo prese coscienza che alle sue spalle si era ordito e consumato un tradimento.



La vita nova



Per tre giorni, tre lunghi giorni, Leo rimase nascosto negli anfratti più remoti del nuovo appartamento mangiando pochissimo e dileguandosi ogni qualvolta cercavamo di avvicinarci a lui. Era spaurito, terrorizzato ed assunse un contegno, a dir poco, diffidente.
Furono momenti difficili perché in quei frangenti ripensai, e ripensai, alla nostra scelta di sradicarlo dal suo habitat e di impiantarlo in questo nuovo contesto bucolico denso, peraltro, di moltissimi gatti.
Ma la sola idea che potesse essere avvelenato mi indusse a tenere duro ed a perseguire in questa mia decisione e, poco a poco, cominciai a percepire, distintamente, che aveva preso a perdonarmi.
Cominciò a sostare sul davanzale della finestra della nostra camera da letto situata al secondo piano della nostra palazzina dal quale dominava tutto lo spiazzo prospiciente ed in quei frangenti intuii che stava ispezionando, da par suo, il nuovo territorio operazione, questa, prodroma ad una colonizzazione del nuovo spazio.
E la prima sera che decise di rompere gli indugi ed uscire, finalmente, allo scoperto lo accompagnai alla porta sostando a lungo sull’uscio cercando di seguirlo con lo sguardo finché non lo persi, del tutto, di vista.
Restai sveglio ad aspettarlo con l’apprensione di un padre verso il proprio figliuolo che, raggiunta la maggiore età, esce per la prima volta da solo ma con la sostanziale differenza di una amara consapevolezza ovvero quella che avrebbe anche potuto non far più ritorno allorquando, finalmente, lo intravidi dietro una delle grate delle finestre del nostro salone propenso a rientrare in casa.
Quella notte ebbi la netta percezione che Leo si era, finalmente, riconciliato con me.
Le dimensioni dell’appartamento, la sua ubicazione e la contestuale presenza di una colonia di gatti ci indusse, con il tempo, a dare asilo anche ad altri felini per cui, cominciammo ad adottarne di nuovi arrivando ad annoverarne, addirittura, dieci ed un cane di grossa taglia ma preservando per Leo una attenzione particolare e diversa facendolo
sempre sentire come il capo branco affinché percepisse, nitidamente, che ospitare nuovi piccoli amici non avrebbe comportato mutamento alcuno nel nostro rapporto.
Questo riguardo nei confronti dei felini è doveroso poiché, a differenza dei cani, i gatti son soliti dimorare in un ambiente unicamente se percepiscono una attenzione ed un amore costante laddove se sentono, in qualche maniera, di essere trascurati e malvoluti non si peritano di abbandonarlo per approdare in altri lidi e, decisamente, non volevamo
correre rischi di sorta con Leo talché nei due anni che ha trascorso con noi in questa nuova dimensione agreste abbiamo fatto di tutto per farlo sentire sempre a suo agio.
E la concomitante presenza di altri gatti nel nostro ambito domestico – Figaro ma, soprattutto, Minou – lo ha reso felice.
Vederlo girovagare per le campagne circostanti in compagnia di costoro ai quali tramandava la sua esperienza di provetto cacciatore era uno spettacolo da far accapponare la pelle.
Avemmo, per ben due volte, la conferma di questo nuovo stato psicologico di Leo, di questa vita nova come ho avuto modo di definirla all’inizio di questo capoverso, allorquando ci donò due pantegane sventrate che ebbe cura di depositare sull’uscio della porta d’ingresso.
Mi rendo conto che, di primo acchito, questo presente possa destare ribrezzo ma, a ben vedere, è il gesto d’amore più grande che un gatto possa fare per il suo ospite e, come tale, lo intesi premunendomi di non farmi scorgere dal mio cucciolo nel mentre conferivo sepoltura a questi due ratti in aperta campagna per non urtare, in alcun modo, la sua sensibilità.
Ma il gesto più bello, senza meno il più toccante, fu una attenzione particolarissima che, ancora una volta, Leo prestò per mio figlio.
Era una fredda serata d’inverno e mio figlio, febbricitante con punte che arrivavano a toccare punte di 41°, giaceva sul letto in preda ad una bronchite asmatiforme.
Mia moglie ed io ci premunimmo di somministrare al piccolo la tachipirina in modo tale da conferirgli, quantomeno, un po’ di sollievo e, per quella volta almeno, lo facemmo dormire nel nostro letto matrimoniale.
La cosa, però, che non mi sarei mai aspettato fu quella di rientrare in camera da letto e di trovare Leo rannicchiato nell’incavo delle gambe del bambino.
La prima cosa che mi venne, istintivamente, di fare fu quella di prenderlo e spostarlo da un’altra parte ma rimasi sbigottito perché non soltanto Leo non dette adito alcuno ad intendere di volersene andare ma di fronte alle mie perseveranze reagì in malo modo dandomi una zampata netta sulle mani tenendo, però, retratti gli artigli.
Non riuscivo a spiegarmi questa sua pervicacia ma conoscendo la sua ostinazione mi rassegnai a dormire anche con lui salvo, poi, destarmi un paio di ore più tardi e constatare che sul letto non c’era più.
Mi alzai per cercarlo e lo trovai che dormiva profondamente sulla cassapanca dove era solito trovare conforto e solo allora ebbi l’intuizione – corretta – di quello che, con molta probabilità, poteva essere accaduto.
Rientrai immediatamente in camera da letto ed accostai le mie labbra sulla fronte del bambino e lo trovai del tutto sfebbrato e allora, solamente allora, capii realmente che cosa era accaduto.
Leo aveva voluto donare il suo calore al piccolo salvo, poi, ritornarsene a dormire nel suo consuetudinario giaciglio una volta accertatosi che il bimbo non ne abbisognava ulteriormente.
Fu, a dir poco, sconcertante questo gesto d’amore che, ancora una volta, aveva voluto donare a mio figlio.
E di questo non finirò mai di ringraziarlo.



Gli ultimi giorni di Leo



Giovedì 16 giugno Leo, come suo solito, esce di buon mattino ma non rientra in casa neanche per spilluzzicare un boccone.
Sono diversi giorni, per la verità, che mangia poco e beve molto più di quanto non faccia di consueto ma non diamo troppo peso a questa anomalia anche perché le temperature hanno avuto, negli ultimi giorni, una brusca impennata
verso l’alto toccando punte tipicamente estive e, d’altro canto, anche gli altri gatti e lo stesso Astro, il nostro cane, mangiano di malavoglia anelando un po’ di frescura negli anfratti più umidi delle campagne circostanti e dell’appartamento.
Peraltro Leo non è nuovo a sortite del genere visto che la sua natura randagia lo porta ad allontanarsi anche per 36/48 ore salvo, poi, tornare a fare capolino nella nostra dimora per cui non ci allarmiamo oltremodo neanche quando venerdi, 17 giugno, non da segno alcuno della sua presenza.
Ma sabato 18 giugno la situazione precipita perché la sua assenza comincia, decisamente, ad allarmarci.
Ho un pessimo presentimento perché sono al corrente della attitudine tipica di molti felini, in senso lato, ovvero quella di allontanarsi dal proprio habitat naturale onde cercarsi un luogo appartato nel quale attendere, pazientemente, il decesso.
Comincio a cercarlo disperatamente in tutto l’agro circostante ma l’impresa è disperata in quanto la vegetazione, foltissima in questo periodo, mi preclude, praticamente, la visibilità per cui i miei reiterati tentativi non sortiscono l’effetto sperato ed all’imbrunire del terzo giorno Leo è ancora latitante.
Ma all’alba della domenica del 19 giugno un assordante brusio mi desta, mi affaccio e scorgo due trattori intenti ad arare una cospicua area di terreno incolto.
Sono fortunato perché è lo spiazzo dove, generalmente, Leo suole rifugiarsi per cui aspetto che terminino i lavori e vado a dare una occhiata nelle zone adiacenti dato che, in assenza di una vegetazione consona, è presumibile che il mio cucciolo si sia spostato in una zona contigua e, ad ogni modo, lo spiazzo, immenso, arato dalle macchine restringono sensibilmente l’area della mia ricerca.
Sono, peraltro, incentivato dal fatto che anche uno degli altri miei gatti, Figaro, si dirige proprio in quella direzione per cui decido di seguirlo anche se, di lì a poco, ne perdo le tracce ma non dispero poiché un presentimento mi fa sentire di essere sulla strada giusta.
Mi inerpico in un tragitto di cui, peraltro, non sospettavo neanche l’esistenza e dopo qualche decina di metri scorgo, da lontano, un felino fulvo che, in qualche maniera, mi ricorda proprio Leo solo che è assai più smunto.
Purtroppo le colonie di gatti che imperversano in questa zona sono caratterizzate da molti esemplari dal vello rosso per cui faccio per andarmene quando qualcosa mi spinge a ritornare sui miei passi e ad avvicinarmici.
Impiego qualche istante prima di riconoscerlo per via di una piccola cicatrice sull’orecchio destro e, conscio dei rischi che potevo correre, non esito un istante a raccoglierlo ed a stringerlo forte fra le mie braccia cercando, in ogni maniera, di precludergli qualsiasi movimento onde ricondurlo a casa con l’intenzione, questa volta, di non farlo più uscire e di portarlo immediatamente dal veterinario che, peraltro, quel giorno non fa ambulatorio – è domenica, rammento – ma che per l’occasione apre eccezionalmente il suo gabinetto appositamente per il mio piccolo ricoverandolo subito e diagnosticandoli un dimagrimento ed una forte disidratazione che spiegherebbe, per l’appunto, il suo reiterato ricorso alla ciotola piena d’acqua che avevamo in casa.
L’assunzione di un idratante ricostituente per via intramuscolare sembra dargli sollievo perché il piccolo denota, sin da subito, segni di miglioramento e riprende persino a mangiare.
La sua reazione mi conforta e trascorro, finalmente, una giornata relativamente serena tant’è che il mattino dopo mi reco al campo di allenamento, dove faccio correre Astro, senza particolari patemi d’animo facendo capolino, nel pomeriggio, in ambulatorio per fare una visitina al mio piccolo amico al quale Antonello continua a somministrare la medesima terapia.
Ma, nei giorni a venire, qualcosa non torna.
Il miglioramento repentino dei primi due giorni va scemando di colpo ; Leo rifiuta, nuovamente, di rifocillarsi, beve pochissimo e comincia, così, lentamente a scivolare verso una pericolosissima ipotermia.
La sua temperatura corporea, infatti, adesso oscilla intorno ai 35° ed Antonello è estremamente preoccupato in quanto la soglia del coma è, orientativamente, attorno ai 34° e, peraltro, ha notato alla palpazione un anomalo ingrossamento del rene sinistro che lo induce a rompere gli indugi e ad approntare, mercoledì 22 giugno, tutto l’occorrente per un prelievo ematico temendo il peggio ovvero che il piccolo abbia contratto il virus della F.I.P. una malattia mortale per i felini la cui epidemiologia, negli ultimi tempi, ha registrato delle impennate di morbilità assolutamente insospettate ed imprevedibili.
Giovedì 23 giugno, peraltro, mi prospetta la necessità, in attesa del referto del laboratorio di analisi, di predisporre una flebo per Leo in quanto che l’idratante che, finora, ha assunto per via intramuscolare non riesce a sortire più alcun effetto terapeutico cosicché venerdi 24 giugno, verso le 16.00, mi reco nel suo gabinetto a coadiuvarlo in questa delicatissima operazione.
La flebo dura, all’incirca, un’ ora ed occorrono quattro persone – Antonello, Maria, Adele e me medesimo – per tenerlo fermo e non correre rischi di sorta in quanto che, per sua indomita natura, il felino è assai restio a farsi manipolare in questa maniera e l’indole semirandagia di Leo potrebbe rendere estremamente pericoloso il decorso di questa terapia.
La temperatura risale, di lì a poco, da 35° a 36,5° per lui sembra che il tempismo diagnostico di Antonello sia stato, ancora una volta, decisivo per le sorti del mio cucciolo sicché esco fiducioso dal gabinetto veterinario poiché sono convinto che il peggio sia, oramai, alle spalle.
L’illusione, però, dura meno di tre ore perché intorno alle 19.00 ricevo una telefonata di Antonello che mi riporta il referto delle analisi.
Non ho bisogno di ascoltarlo per intuirne l’esito poiché esordisce con una pausa brevissima, un eloquente ed assordante silenzio che mi sembrò una eternità, che mi fa presagire il peggio.
Leo ha, effettivamente, contratto la F.I.P. ovvero una qual sorta di immunodeficienza acquisita di matrice virale che non lascia adito ad alcuna speranza di sorta e data l’alta contagiosità della malattia urge prendere una decisione repentina per alleviargli le sofferenze ed impedire un ulteriore contagio agli altri gatti della mia piccola colonia.
Decido di guadagnare tempo perché, pur non mettendo in dubbio l’esito delle analisi e la diagnosi di Antonello, scatta qualcosa dentro di me che mi induce ad ipotizzare un’altra ipotesi diagnostica ovvero che la malattia di Leo sia, in realtà, di origine psicosomatica e che sia sufficiente portarlo via dall’ambulatorio affinché si verifichi l’ennesimo miracolo.
E’, naturalmente, una mera illusione epperò mi persuado sempre più che, al di là dell’esito di tutto il decorso sanitario, Leo debba ritornare a casa poiché se è realmente in fin di vita è doveroso, da parte mia, rispettare la sua natura randagia e consentirgli, almeno, di spirare in un ambito a lui assai più familiare e non, certamente, sul lettino di un gabinetto veterinario.
Non posso, certamente, riportarlo là dove lo avevo scorto la settimana precedente perché potrebbe essere aggredito e dilaniato da qualche cane randagio onde per cui non mi rimane che riportarlo fra le mura domestiche conscio, peraltro, del rischio di contagio verso gli altri piccoli amici della comunità.
Ma è un rischio che devo correre perché è doveroso da parte mia donargli, da un lato, tutto il sollievo di cui sono capace onde confortarlo in questa delicatissima fase di trapasso e, d’altro canto, è parimenti doveroso che anche gli altri membri della famiglia vengano a conoscenza del fatto che Leo ci sta lasciando.
Sabato mattina, il 25 di giugno, mi reco al gabinetto veterinario, lo prelevo e lo riporto a casa.



L’ultimo regalo di Leo



Il tragitto che separa il gabinetto veterinario dalla mia abitazione è, fortunatamente, breve in quanto che Leo, alla stregua di molti felini, soffre moltissimo il trasbordo su una autovettura nel chiuso di un trasportino rigido.
Eppure, contrariamente al suo solito, non accenna a lamentarsi ed, anzi, appena trovata una posizione consona fa per addormentarsi poichè ha intuito, correttamente, che lo sto riportando fra le mura domestiche e questa prospettiva lo rasserena oltremodo.
Appena varco la soglia deposito, con molta cautela, il trasportino rigido sul pavimento e il piccolo, con qualche indugio di sorta, ne fuoriesce dirigendosi verso un anfratto fresco della cucina.
Gli altri piccoli amici della comunità fanno per avvicinarsi ma Leo li allontana recisamente desiderando di restare un po' da solo.
Dopodiché, raccolte le forze, prende e sale le scale dirigendosi al secondo piano in una stanza prospiciente al balcone adagiandosi, supino, sul terrazzino.
La scena è straziante perché, alla chetichella, tutti i nostri amici cercano di confortarlo ognuno in un modo diverso consono, se vogliamo, al proprio temperamento in quanto se è vero che i felini hanno alcune attitudini comuni è pur vero che, alla stregua delle persone, ognuno di loro reagisce in modo diverso a seconda della propria indole e del proprio carattere ; e se Moses si rifugia in un anfratto del sottoscala nascondendosi allo sguardo degli altri evitando di fare capolino per tutta la giornata Figaro, invece, resta sbigottito e non trova la forza di fare un movimento che sia uno quasi pietrificandosi.
I cuccioli Albin, Pilù e Luna cercano di confortarlo ma la loro vivacità infastidisce il mio piccolo che manifesta chiari segni di insofferenza per cui decido, a malincuore, di allontanarli.
Trillo, invece, delicatamente lo conforta accostando le sue labbra sul muso di Leo e si allontana in silenzio senza proferire miagolio alcuno.
Persino Astro, il nostro cane con il quale Leo non è mai andato punto d'accordo, cerca di dargli il suo conforto leccandolo e ripulendolo da alcune escoriazioni sanguinolente sulla bocca.
Ma la reazione che più mi colpisce è quella di Minou il figlioccio prediletto da Leo.
Pur essendo consapevole del delicatissimo stato del suo padrino rifiuta, decisamente, di accettarne le naturali conseguenze e si stende all'ingresso della porta, adesso rigorosamente socchiusa, della stanza impedendo a tutti gli altri di accedervi sfoderando persino gli artigli contro chiunque provi a fare capolino.
Non mi rassegno e decido di riempire una piccola siringa con un po' d'acqua, mi accosto a Leo e gliela cospargo sulle ferire sanguinolente ; la reazione di sollievo del piccolo mi induce a coltivare ancora una speranza anche perché il cucciolo, quando proferisco il suo nome, mi dona un cenno d'intesa agitando, flebilmente, la coda per cui decido di uscire e di acquistare dell'omogeneizzato per cercare, in qualche maniera, di rifocillarlo.
Al mio ritorno lo trovo disteso, questa volta, proprio a ridosso della porta della stanza quasi a volerla tener chiusa con il peso inerte del proprio corpo per cui faccio molta attenzione nel mentre la apro, mi stendo vicino a lui e comincio a spalmargli, delicatamente, sulle fauci il preparato a base di carne di vitello che, peraltro, a lui è sempre piaciuto.
Ma a queste mie premure, disperate, Leo reagisce con un miagolio lento e, al contempo, stridulo lamentandosi e guardandomi negli occhi e, finalmente, quello sguardo – che mi trapassa, letteralmente, da parte a parte – mi rende edotto della situazione.
E di tanto di più.
In quegli istanti si sono frapposti due mondi, due culture ; la mia, retaggio positivista, ovvero di colui che ritiene, in qualche maniera, di avere la forza di poter cambiare il naturale decorso delle cose figlia di un malinteso delirio di onnipotenza ; e la sua, retaggio storico di una cultura rurale che ne accetta, viceversa, serenamente le ineluttabilità tanto cara alle genti dimoranti nelle mie latitudini e che, pertanto, conosco assai da vicino.
E solo allora capisco che sono io, e soltanto io, a non voler accettarne la dipartita laddove lui, il mio piccolo Leo, è lì, inerte, pronto ad affrontare quest'ultima fase di trapasso ; e capisco, altresì, che i miei inani tentativi sono lì solamente ad infastidirlo ed a rendergli più penosa la cosa.
A quel punto posso aiutarlo solo in un modo ovvero chiamando Antonello predisponendo una iniezione letale volta ad alienargli le sofferenze, assurde ed inutili, che la mia pochezza di uomo gli sta conferendo per cui decido di scendere al piano di sotto, prendere la cornetta, chiamarlo e dirgli che siamo pronti per dare l'ultimo saluto al nostro piccolo amico.
E' una telefonata che dura qualche minuto soltanto ma è proprio in quei frangenti che Leo si spegne ; quando risalgo per trascorrere vicino a lui questi momenti drammatici mi accorgo, subito, che qualcosa non torna.
La coda presenta un rigonfiamento anomalo e la sua inerzia sembra assoluta per cui chiamo Astro che fuga ogni mio dubbio ; dopo averlo annusato con minuzia si gira e se ne va.
In quel momento ho la certezza che Leo è finito cosa che, peraltro, mi viene confermata, di lì a poco, da Antonello che ha chiuso repentinamente il suo gabinetto e si è precipitato nella mia abitazione con tutto l'occorrente per predisporgli l'iniezione letale.
E le parole che il mio amico Marco ha avuto la bontà di proferirmi in quei momenti così drammatici credo siano quelle che, più di ogni altre, possano illustrare quanto è, realmente, successo :
“Ti ha fatto il suo ultimo regalo di gratitudine evitandoti lo strazio di dover essere tu ad addormentarlo”.
Ma quel che Marco non sospettava – e di cui, per la verità, neanche io ne avevo piena coscienza – era che Leo mi aveva regalato anche qualcosa d'altro e di molto più profondo.
Mi aveva insegnato a morire con dignità.
Ed ora, grazie a lui, so come si fa.



Epilogo



Oggi Leo riposa in un vaso situato nello spiazzo antistante la porta d'ingresso nel quale abbiamo provveduto ad invasare delle piante che, in questo periodo, ci stanno regalando dei fiori meravigliosi alimentate, peraltro, da un pugno di terra che sono andato, appositamente, a raccogliere, qualche settimana orsono, là dove aveva vissuto i suoi trascorsi da cucciolo.
Abbiamo, vieppiù, provveduto a fare una lastra di marmo che abbiamo fissato al muro perimetrale dell'appartamento in corrispondenza del suo giaciglio con una sua fotografia ceramicata e sul quale abbiamo fatto incidere il suo nome ed il nostro commiato.
Ed a distanza, oramai, di più di un mese dalla sua scomparsa nutro la consapevolezza di aver perduto tanto di più rispetto ad una persona cara se neanche mio figlio è riuscito a colmarne, completamente, il vuoto.
Ma, se vogliamo, è una conseguenza più che naturale giacché oggi, solo oggi, capisco che Leo era, per me, per certi versi più di un figlio e l'amore che mi ha donato non potrà, in alcuna maniera, essere compensato da nessun altro.
Grazie Leo, grazie mio piccolo amico.
Grazie per avermi scelto come compagno di viaggio.