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mercoledì 6 aprile 2011

Bean's return ovvero il ritorno di mister Bean, parte terza

Savoiardescamente... Bean !!!




E’, quantomeno, curiosa la tesi propugnata da mister Bean secondo la quale il fascismo operò negli ambiti contemplati dall’architettura costituzionale coeva ma prima di sbilanciarmi attendo un istante perché temo che anche questa sua uscita possa essere l’ennesimo tranello tattico per colpirmi, fulmineo, con le sue ripartenze per cui lascio, dopo un istante di surreale silenzio, che prosegua nella sua disquisizione. Bean sostiene che nessun regime totalitario, ad eccezione del fascismo appunto, ha mai prestato una così maniacale attenzione agli aspetti costituzionali dell’architettura del potere perché il partito non si è limitato ad occupare ed a presiedere la gestione della res pubblica ma ha operato una serie di accorgimenti, taluni addirittura maniacali secondo lui, per consolidare la sua struttura e questo, a ben vedere, nell’ottica di un superamento del fascismo stesso.
Non lo seguo molto, in verità, perché questa idea secondo la quale il fascismo abbia lavorato per porre fine a sé stesso mi sembra una asserzione, a dir poco, fantasiosa laddove, secondo Bean, questa evoluzione politica era intrinseca al movimento stesso e per cercare di capirne le recondite motivazioni il nostro eroe sposta la macchina da presa ed inquadra il fenomeno da svariate angolazioni antitetiche ma, al contempo, speculari.
Da un lato – mi dice – occorre prendere in considerazione la personalità del futuro duce. La storia politica di Benito Mussolini quella, per intenderci, che connotò il suo trascorso prima che desse i natali al nuovo movimento in quel di piazza San Sepolcro a Milano, fu costellata dalla sua appartenenza al socialismo rivoluzionario una corrente, questa, decisamente antiborghese e antisistemica, per così dire, poiché alla stregua dei movimenti più radicali non si proponeva di modificare dall’interno, e per vie legali, lo sviluppo politico del paese bensì di sradicarne gli apparati con una azione violenta ed extraparlamentare attitudine questa che, se vogliamo, preservò, almeno in parte, fino all’alba della sua ascesa ai vertici dell’esecutivo in seguito alla famigerata marcia su Roma del ’22.
Ma una volta acquisito e, soprattutto, consolidato il potere il partito – a quel punto partito unico, naturalmente – cominciò ad operare una serie di stravolgimenti non soltanto pratici ma, ed è quel che più conta in questa sede, soprattutto teorici apportando alcune modifiche sostanziali all’architettura costituzionale del paese.
Questo aspetto, praticamente misconosciuto o quasi ai non addetti ai lavori, fu una peculiarità che caratterizzò, come nessun altro, proprio il totalitarismo fascista il che lo pose, quindi, agli antipodi con i meri stati di polizia nei quali, allora come oggi, era sufficiente l’abrogazione dei diritti civili e l’applicazione della legge marziale contemplata, peraltro, come estrema ratio persino nelle strutture apparentemente più democratiche. Il fascismo, infatti, non sospese affatto i diritti civili limitandosi ad abrogare quelli potenzialmente perniciosi – la libertà di associazione ovvero di opinione e quant’altro – nell’ottica, però, di una struttura omogenea e coerente e, costituzionalmente, legittima.
E per far questo Mussolini si avvalse dei più insigni giuristi presenti nel Regno che, pur stravolgendo la vecchia carta costituzionale che si riallacciava, sostanzialmente, al più che vetusto statuto Albertino del 1848, si adoperarono per edificarne una nuova maggiormente in linea ed in sintonia con i tempi e con la prospettiva di inquadrarla non già in una democrazia liberale bensì in un totalitarismo ed il ricorso, ad esempio, ad un giurista come Alfredo Rocco, per ridisegnare il codice di procedura penale rientrava proprio in questa ottica.
Per i non addetti ai lavori la figura di Rocco si è ammantata, naturalmente, di una accezione, a dir poco, dispregiativa tant’è che, troppo spesso, si utilizzano delle locuzioni, del tutto a sproposito, tipo “roba da codice Rocco” laddove, di contro, per coloro i quali, viceversa, si occupano, ovvero si sono interessati, degli aspetti giuridici e costituzionali suddetta figura assume ben altra valenza tant’è che persino nel dopoguerra i padri fondatori della Repubblica Italiana han preservato moltissime di quelle direttive promulgate dal giurista in quanto, tecnicamente, ineccepibili persino in una democrazia parlamentare tant’è, molti lo ignorano, che il nostro attuale codice di procedura penale rispecchia, fedelmente, la struttura di quella varata dal docente napoletano.
I motivi per i quali il fascismo si prodigò alacremente per ridisegnare la struttura costituzionale nonché i rapporti fra i cittadini modificando, quindi, il codice di procedura penale nonché civile vanno ricercati in una serie svariata di motivazioni, naturalmente, che però possono riassumersi in due linee di fondo contemplanti il duce stesso e la monarchia sabauda.
Da un lato, come detto anche dianzi, c’era la personalità di Mussolini il quale nutriva punta, ovvero scarsa, fiducia sull’esito politico del fascismo una volta che fosse, giocoforza, uscito di scena in quanto consapevole che il movimento a cui dette i natali sarebbe, per così dire, naufragato con lui e, d’altro canto, le furibonde lotte intestine già allignanti all’interno del partito gli avevano fatto baluginare, per sommi capi, l’eutanasia a cui sarebbe andato incontro il regime.
Lungi dall’essere monolitico, infatti, all’interno del fascismo allignavano, già allora, una serie variegata di correnti centripete che, in quel frangente, erano tenute insieme proprio dalla straordinaria personalità del capo, nonché dal suo prestigio personale, ma Mussolini era, parimenti, consapevole che all’interno del partito non esisteva una figura dotata del suo carisma in grado, quindi, di preservarne e consolidarne la struttura che avrebbe, anzi, corso il serio rischio di sfaldarsi repentinamente nel corso degli anni a venire e, d’altro canto, erano solamente tre le figure in grado, almeno potenzialmente, di prenderne in mano le redini ovvero Italo Balbo, Dino Grandi e Galeazzo Ciano.
Balbo, però, perì nei cieli libici ufficialmente per una disgraziatissima avaria al motore del suo velivolo anche se, allora come oggi, si sussurrò che fosse assurto, suo malgrado, ad una sorta di preconizzatore del povero Enrico Mattei ancorchè, va sottolineato, una prova certa di un eventuale coinvolgimento del duce in questa sciagura – ovvero attentato – non è stata mai rinvenuta né allora né dopo.
Quanto a Ciano, invece, Mussolini, con estrema cordialità visti i rapporti di parentela, lo detestava reputandolo decisamente inadeguato – e non a torto, aggiungo, visto che la famigerata mozione Grandi del ’43 fu sottoscritta anche da Ciano che non si rese minimamente conto di quel che andava siglando di suo pugno denotando un acume politico prossimo allo zero assoluto – nonché esponente di quella aristocrazia che il suo trascorso da socialista rivoluzionario gli faceva vedere col fumo negli occhi.
Quanto a Grandi, infine, sarebbe stato, invero, l’uomo più consono ed accreditato ma gli scenari geopolitici offuscarono la sua stella in quanto l’entrata in guerra dell’Italia fascista accanto alla Germania nazionalsocialista misero il gerarca, notoriamente filobritannico, in posizione subalterna.
Non che non vi fossero altri, potenziali, aspiranti alla sua successione ma, certamente, la prospettiva di affidare le redini del partito ad uomini come Pavolini ovvero Farinacci non baluginò, neanche un momento, nei pensieri del duce che temeva – proprio perché la conosceva assai bene da vicino per essersene, reiteratamente, servita in più di una occasione – l’ala dura del fascismo nonchè la sua assoluta miopia politica che avrebbe rischiato di far scivolare il paese nel baratro della guerra civile cosa che, se vogliamo, avvenne dopo il ’43 all’indomani della costituzione della fantomatica Repubblica di Salò a testimonianza, tragica e postuma, che la visione politica di Mussolini era, ancora una volta, corretta cosicché l’unica possibilità che restava era quella di integrare il fascismo nelle strutture e nei cardini dello stato e, dunque, statalizzarlo.
Gli ossessivi richiami, propagandistici, allo stato fascista, all’Italia fascista e quant’altro, erano una sorta di eco di un processo, però, assai più sostanziale e profondo che avveniva, per così dire, dietro le quinte volto, quindi, ad istituzionalizzare il movimento all’interno di un quadro costituzionale nuovo e profondamente omogeneo nel quale il fascismo sarebbe stato, per così dire, osmotizzato e fu in virtù di questo recondito disegno politico che il duce si avvalse, nei campi più disparati, delle migliori risorse intellettuali e tecniche che l’Italia – tutta – in quegli anni, metteva a disposizione per cui se è vero che il fascismo fu un regime totalitario è, altresì, corretto sottolinearne il suo carattere specificamente tecnocratico visto che per riedificare le strutture economiche e politiche del paese il duce si rivolse ai grandi atenei del paese. Inoltre mister Bean ha parlato, nella sua nota precedente, di totalitarismo detotalizzatorio intendendo che, per quanto totalizzante fosse, il fascismo aveva sempre un contraltare forte nella corona sabauda. Si è troppo spesso enfatizzato il ruolo della monarchia negli eventi antecedenti la nomina di Mussolini al capo dell’esecutivo all’indomani della marcia su Roma e, parimenti troppo spesso, obnubilato quello assunto nel corso degli anni del consolidamento, e del consenso plebiscitario, del regime avvenuto, grosso modo, intorno alla metà degli anni ’30. La corona non aveva soltanto un mero ruolo notarile all’interno delle istituzioni né fu mai avulsa da un nefasto attivismo politico che, in virtù di non si sa quale diritto divino, contrassegnò sempre l’operato dei nostri monarchi sabaudi ed, in particolar modo, proprio di Vittorio Emanuele III° una figura che definire indegna rischia di essere persino un complimento.
Il re non soltanto preservò, per sé, il controllo dell’esercito ma intraprese una lunghissima, ventennale, schermaglia contro il duce frapponendogli, sistematicamente, i suoi veti ma non già in virtù dell’ambito costituzionale – che contribuì, come nessun altro, a sfaldare – concessogli bensì in grazia di un non meglio identificato protagonismo squisitamente politico che gli suggerì di cavalcare il fascismo nel pieno del suo apogeo nonché scaricarlo – e nel peggiore dei modi, aggiungo – non appena i venti cominciarono a spirare in direzione avversa.
Mussolini aveva scarsissima considerazione per questo reuccio da quattro soldi ma, certamente, non avrebbe mai potuto immaginare fin dove si potesse strascicare la meschinità di quest’uomo che, all’alba della presentazione delle sue dimissioni da capo dell’esecutivo, non trovò niente di meglio da fare che predisporne gli arresti in quel di villa Savoia facendo precipitare il paese nel baratro della guerra civile nonché riparando, vigliaccamente, in quel di Brindisi sotto l’egida del comando angloamericano di cui, fino ad una settimana prima, era acerrimo nemico.
Mister Bean è, decisamente, furioso !
Non l’ho mai visto perdere, in questo modo, la sua proverbiale flemma britannica eppure, amici miei, non riesco proprio a dargli torto ; d’altronde, prosegue, Vittorio Emanuele III° è stato un degno epigono di una casata invereconda che ha protratto la sua mala genìa persino ai giorni nostri ; non riesco a trovare parole adeguate – soggiunge – per descrivere la nausea che mi ha dato il vedere un principe esibirsi, come l’ultimo dei buffoni di corte, in una rassegna canora !
Non so voi, amici miei, ma questa rievocazione della partecipazione del principe Emanuele Filiberto al festival di Sanremo mi ha fatto rimpiangere, amaramente, il mio caro Ferdinando, il re lazzarone, che la storiografia risorgimentale – sabauda naturalmente ! – ha etichettato come indegno e, più in generale, l’intera casata borbonica di cui, collateralmente, Juan Carlos, l’attuale re di Spagna, ne è un facente parte.
Ed io non riesco proprio a figurarmi Juan Carlos esibirsi in un festival della canzone spagnola !
E se rifletto, per un momento, sul fatto che la mia città sia stata defraudata, con la violenza e con l’inganno, dalle mani dei re borboni per essere consegnata, poi, a questi ciambellani di corte mi viene, davvero, lo sconforto.