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venerdì 31 dicembre 2010

Telè Santana, un tragico omerico epigono


Eccomi pronto ad adempiere alla promessa, in altre note pronunciata, e stendere qualche riga per ricordare un personaggio straordinario che, ob torto collo, sarà indissolubilmente legato, a doppio maglio, con la figura di Enzo Bearzot.
Telè Santana (Itabirito, 26 luglio 1931 – Belo Horizonte, 21 aprile 2006) è stato uno dei più grandi selezionatori e commissari tecnici di cui si sia mai potuto fregiare la federazione brasiliana. La sua morte, a seguito di una ischemia cerebrale e ad una amputazione della gamba sinistra, passò quasi sotto silenzio avvolta in una qual sorta di sudario di indifferenza quando non, addirittura, di ostilità. In concomitanza della sua dipartita rammento, distintamente, pochissime laconiche righe delle agenzie di stampa che rimbalzarono, repentinamente, da un angolo all'altro del globo che ne annunciavano la scomparsa.
Punto.
Me ne dolsi, allora, come me ne dolgo, parimenti, adesso.
La assurda sordina sull'epilogo della vicenda umana di Santana mi riportò alla memoria quella dell'estremo difensore brasiliano Moacir Barbosa Nascimento reo, agli occhi della opinione pubblica brasiliana, di essere il responsabile della disfatta che, nel 1950, precluse al Brasile la conquista di quella che sarebbe stata la sua prima coppa del mondo quando, al Maracanà di Rio, i carioca si inchinarono, nell'incredulità generale, agli uruguagi Ghiggia e Schiaffino che ribaltarono lo svantaggio e chiusero l'incontro vittoriosi per 2 ad 1.
Barbosa, incolpevole su tutte e due le marcature, pagò un ostracismo assurdo non soltanto da parte della federazione brasiliana ma financo della gente comune che lo bollò, sic et simpliciter, come una sorta di menagramo.
Si stenta a crederlo, me ne rendo conto, eppure questa patente pirandelliana accompagnò l'uomo Barbosa nel corso di tutta la sua vita al punto che - incredibile ma vero ! - quando nel 1994, in occasione dei mondiali di calcio disputati negli Stati Uniti, si recò al quartier generale della compagine verdeoro per salutare la comitiva carioca si vide porre un cortese ma netto rifiuto.
I dirigenti ma, soprattutto, il commissario tecnico Parreira ed i giocatori, Ronaldo su tutti, non volevano neanche vederlo.
Barbosa ci ha lasciato nel 2000 nell'indifferenza generale e nella indigenza più totale.
Telè Santana percorse un sentiero parallelo, per così dire, perchè, parimenti, non gli si è mai perdonato la disfatta del Sarrìa quando, contro tutte le previsioni, il Brasile dovette inchinarsi all'Italia di Bearzot in quella che fu, allegoricamente, la vera finale di quella edizione dei campionati del mondo.
Io sono nato nel 1966 e dei vari Brasili che hanno disputato le kermesse continentali ho pochi, e scarni, ricordi fino, almeno, al 1970. D'altro canto è, oggettivamente, alquanto problematica la ricerca delle proiezioni integrali degli incontri della Seleçao prima del 1970 e persino sul web si rinvengono, esclusivamente, meri e sporadici frammenti inerenti le segnature nelle finali con la Svezia, nel 1958, e con la Cecoslovacchia nel 1962.
Della finale giocata all'Azteca, nel 1970, contro di noi preservo, gelosamente, una videocassetta che mi ha fornito qualche barlume su come giocasse quel Brasile. Ma un incontro, per quanto espressione del gotha del calcio mondiale di quell'anno, è assolutamente insufficiente per avere una idea consona di una compagine per cui il mio primo Brasile fu quello che difese, quattro anni dopo a Monaco, quel titolo mondiale conseguito in Messico.
E fu, oggettivamente, un Brasile da porre nel dimenticatoio.
Nella semifinale disputata contro l'Olanda i brasiliani diedero adito ad un calcio violento e cattivo prendendo di mira, più che il pallone e la porta di Jongbloed, le gambe di Cruyjff e di Nesekens. Fu una partita, dunque, di calci più che di calcio ed, in più di una occasione, degenerò in vere e proprie risse.
Annichiliti, sic et simpliciter, dalla compagine olandese i brasiliani uscirono di scena nel peggiore dei modi possibili. E per me che, all'epoca, avevo appena otto anni, fu una delusione immensa.
Ma quel mondiale, lo capii solamente anni dopo, segnò l'inizio di una vera e propria crisi di identità - calcistica beninteso - di tutto il sudamerica. E per cercare di comprenderne, al fondo, le motivazioni occorre fare una piccola digressione sul modo di concepire il gioco del futebol in sudamerica ed in Europa.
Il football, come sappiamo, nasce in Inghilterra e si connota, nel Regno Unito, di una valenza molto fisica. Schematicamente il concetto di base del modo di intendere il gioco del calcio in Gran Bretagna era quello di sfruttare la stazza fisica dei giocatori, possente, e di impostare gli schemi di gioco su alcuni elementari, ma efficacissimi, schemi che contemplassero il gioco aereo, la progressione sulle fasce laterali ed i cross all'interno dell'area di rigore avversaria.
Il calcio sudamericano, invece, nasce su presupposti molto diversi cause il clima torrido, i rettangoli di gioco - in terra più che in erba quando non, addirittura, in sabbia - ed il pallone - generalmente costituito da una caterva di stracci annodati fra loro - che favorirono la nascita e lo sviluppo di un futebol, come lo chiamavano e chiamano tuttora in quelle latitudini, assai più cadenzato. Il possesso, poi, di fondamentali più che eccellenti favorì un gioco che si sviluppava, essenzialmente, per linee orizzontali con improvvise verticalizzazioni ed accelerazioni che puntavano sull'uno contro uno e sulla creazione, quindi, di una superiorità numerica nelle aree nevralgiche del rettangolo di gioco.
E, schematicamente, l'essenza stessa del calcio sudamericano è rimasta inalterata per oltre ottanta anni. I mondiali di Monaco rappresentarono, davvero, la consacrazione di un nuova modalità di intendere e di giocare il calcio perchè la nazionale olandese, mutuando quanto di meglio aveva espresso la sua più celeberrima e competitiva rappresentativa nazionale ovvero l'Ajax di Amsterdam, espresse quel che, poi, venne definito come calcio totale.
Nel calcio totale la iperspecializzazione dei ruoli veniva offuscata dal giocatore nuovo, nel senso nietzschiano del termine, che, all'occorrenza, doveva essere in grado di svolgere mansioni diversificate. Se, ad esempio, Tarcisio Burgnich, uno dei migliori difensori della storia della nostra nazionale, è stato un francobollatore di prima grandezza era, altresì, vero che non superava mai la metà campo laddove, di contro, Ruud Krol ovvero Wim Surbieer solevano sovrapporsi, sulle fasce, agli esterni di centrocampo divenendo ali aggiunte e creando, nelle zone nevralgiche del campo là dove si svolgeva l'azione, una costante superiorità numerica. Per non parlare, poi, di Jan Jongbloed, il portiere degli orange, cha in fase di possesso palla stazionava, costantemente, fuori dalla sua area di rigore pronto, all'occorrenza, a svolgere funzioni di battitore libero aggiunto.
L'Olanda, inoltre, esasperò la tattica del fuorigioco impostando una distanza molto serrata fra le linee e restringendo, a dismisura, gli spazi nei quali gli avversari solevano destreggiarsi. Se, prima, lo spazio fra la linea difensiva e quella offensiva soleva essere, mediamente, di quaranta metri ed oltre adesso, di contro, non superava, nella fase difensiva, i venti metri. E se le compagini europee riuscivano, in qualche maniera, ad opporre alla fisicità del calcio olandese la propria fiscità quello sudamericano rimase, all'opposto, completamente inerme.
La partita più bella della compagine di Rinus Michels fu il debutto contro i due volte campioni del mondo uruguagi. I sudamericani dettero vita ad una esibizione malinconica e furono completamente in balia delle furie orange che li surclassarono dal primo all'ultimo minuto. Il risultato finale, 2 a 0 per l'Olanda, fu ampiamente bugiardo. I giocatori sudamericani venivano aggrediti, financo, nella loro area di rigore e furono costretti, sovente, ad affidarsi ai rilanci lunghi del loro portiere nel tentativo di affrancarsi dall'asfissiante pressing degli olandesi.
Questo incontro fu una sorta di anteprima fra quello che si disputò, il 3 luglio del 1974, a Dortmund fra l'Olanda, appunto, ed il Brasile. Le squadre erano annoverate in un minigirone a quattro che contemplava, oltre alle dianzi citate compagini, la Germania Est e l'Argentina. Alla vigilia del big match entrambe si presentarono a punteggo pieno (4 punti ciascuna) in virtù di due successi conseguiti ai danni della Germania Orientale e della rappresentativa biancoceleste ma gli olandesi avevano, dalla loro, una migliore differenza reti frutto di una goleada ai danni dell'Argentina (4 a 0) e del successo all'inglese (2 a 0, appunto) conseguito ai danni dei tedeschi dell'Est laddove i sudamericani avevano faticato, e non poco aggiungo, contro entrambe le rappresentative rimediando due striminziti successi di misura.
Ciò significava, dunque, che i brasiliani avevano a disposizione un solo risultato su tre - la vittoria - perchè in caso di pareggio sarebbero stati estromessi dalla finalissima. Il commissario tecnico Zagallo cerò, in qualche maniera, di impostare la partita ma il ritmo vertiginoso impresso dalla squadra di Michels li mise, repentinamente, alle corde. Ciò nonostante, profittando di uno svarione difensivo della non sempre impeccabile retroguardia olandese, il Brasile andò vicininissimo all'1 a 0 ma un mezzo miracolo di Jonglobed impedì ai sudamericani di passare, immeritatamente va detto, in vantaggio. Lo scampato pericolo indusse l'Olanda, che fino a quel momento aveva lasciato il pallino del gioco in mano agli avversari, a prendere le redini dell'incontro in maniera più decisa e cominciò a macinare gioco. Il primo tempo si chiuse a reti bianche ma, dopo cinque minuti della ripresa, gli olandesi trovarono uno splendido gol di Neeskens ed ipotecarono l'accesso alla finale. A quel punto Zagallo & co. persero, decisamente, la tramontana e cominciarono a mirare alle gambe degli avversari. Naturalmente chi ne pagò maggiormente le spese furono i fuoriclasse Neeskens e Cruyjff i quali, però, lungi dal lasciarsi intimidire risposero colpo su colpo perchè, avvezzi a subire dei trattamenti speciali dagli avversari nella loro militanza europea, non tirarono indietro la gamba neanche in una occasione. Il secondo tempo fu, così, reiteratamente spezzettato ed assurse, al ruolo di involontario protagonista, il signor Kurt Tschenscher - l'arbitro - che ebbe il suo straordinario nel cercare di tenere in pugno la partita. L'espulsione comminata all'84' a Luis Pereira per doppia ammonizione a seguito dell'ennesimo calcio rifilato a, mi pare, Haan sancì il mesto commiato della rappresentativa campione del mondo uscente, di tutto un movimento e di un certo modo di intendere il gioco del calcio.
L'approdo della Seleçao alla finalina del terzo e quarto posto, dove dovette inchinarsi persino alla Polonia, sancì il fallimento di una spedizione disastrosa. La federazione brasiliana affidò, dunque, la direzione tecnica della rappresentativa nazionale a Claudio Coutinho la cui guida fu connotata da una irresolutezza di fondo senza precedenti visto che in ogni incontro, dico ogni incontro, disputato dalla Nazionale carioca nella fase finale in Argentina il selezionatore brasiliano modificava, almeno, un paio di giocatori del suo schieramento.
All'inzio puntò sull'astro nascente Zico salvo, poi ricredersi e dirottare le sue scelte, di volta in volta, su Chicao, Dirceu, Roberto Dinamite, Ze Sergio lasciando inalterato, unicamenete, l'assetto difensivo col risultato di privare la sua compagine di una qual sorta di identità.
Quel Brasile era, insopportabilmente, lento e noioso e fu un tentativo, mal riuscito in verità, di conciliare le due visioni del calcio coniugando, ad un tempo, la tradizione sudamericana alle innovazioni europee.
Se, sulla carta, il progetto di Coutinho poteva essere una soluzione che, in qualche modo, salvava capra (la tradizione) e cavoli (il vento nuovo che spirava sul calcio internazionale) si rivelò, in concreto, un mezzo disastro. Dico mezzo perchè quel Brasile approdò, comunque, alla finalina e rischiò di arrivare, senza meno, financo alla finalissima contro l'Olanda se la sua estromissione, per mera differenza reti nei confronti dell'Argentina padrona di casa, non fosse stata sancita dal prezzolamento della compagine peruviana che mentre con i verdeoro dettero l'anima, incassando comunque tre gol, contro i padroni di casa, viceversa, mostrarono, all'inizio della ripresa, una sospetta arrendevolezza ; se al termine della prima frazione di gioco, infatti, i peruviani erano sotto di due gol nel giro dei primi venti minuti del secondo tempo incassarono, allegramente direi, tre palloni senza colpo ferire chiudendo la loro ignobile kermesse giocando a tennis e lasciando agli avversari il primo set (0 a 6).
Fu una farsa senza precedenti atta a consentire l'approdo della nazionale padrona di casa alla finalissima contro l'Olanda che fu piegata solamente nei tempi supplementari (3 ad 1) complice una direzione arbitrale, affidata all'italiano Gonella ampiamente lodato dai nostri telecronisti e giornalisti sportivi, che definire, semplicemente, casalinga è un eufemismo e che avallò, a posteriori, le sacrosante ragioni di Johann Cruyjff e Paul Breitner i quali, dopo aver contribuito a far staccare il biglietto per Buenos Aires alle loro rappresentative nazionali, decisero volontariamente di dare forfait, per ragioni squisitamente politiche, alla fase finale.
Cruyjff, che nel 1978 aveva appena 31 anni ed era nel pieno della sua maturità agonistica, perse, così, l'ultima occasione per fregiarsi del titolo più prestigioso che gli sarebbe, poi, sempre mancato nel suo palmares ovvero quello di campione del mondo dopo aver vinto, con la sua squadra di club, tutto quello che c'era da vincere.
Il Brasile, comunque, non solo non riuscì ad approdare alla finale ma, oggettivamente, fu una squallida controfigura di sè stesso. Erano, dunque, passati otto anni dall'affermazione di Città del Messico senza che il calcio carioca fosse riuscito a ritrovare una sua identità a differenza, invece, dell'Argentina la quale, scevra dall'incombente peso di una tradizione soffocante di tre coppe del mondo, impresse una svolta europeista al suo movimento puntando, in occasione di quella kermesse, su giocatori nuovi dalle spiccate attitudini europee, Osvaldo Ardiles in primis.
Va anche detto, però, che Coutinho pagò, oltre alla sua, anche l'irresolutezza dei vertici del movimento brasiliano i quali dopo il fallimento della spedizione in Germania provarono ad imprimere un cambio di marcia nella direzione tecnica sin dai vivai facendo pervenire preparatori atletici dal vecchio continente cercando di amalgamare la valenza della tecnica di base, eccelsa, ad una condizione fisica moderna ma scontradosi, inevitabilmente, con quella tradizione, dianzi menzionata, quasi secolare che contrassegnava, sin dalla più tenera età, il modo di giocare e di concepire il futebol.
E va anche rimarcata, del resto, la mera constatazione che, in quegli anni, persino in Brasile, il che è quanto dire, mancò un ricambio generazionale adeguato. Il trionfo in Messico fu il degno epilogo di una generazione di calciatori - Tostão, Clodoaldo, Gérson, Carlos Alberto e, naturalmente, Pelè - su cui si inserirono, alla grande, gli emergenti Jairzinho e Rivelino i quali, però, non riuscirono a sobbarcarsi il peso, quattro anni dopo, della spedizione in Germania. La pretesa di Rivelino di indossare, nel 1974 a Monaco, la maglia ed il numero di Pelè, quel famigerato dieci, rappresentò, simbolicamente, il tramonto del calcio sudamericano.
I fallimenti reiterati in otto anni di competizioni ufficiali indussero, così, i dirigenti del calcio brasiliano a ritornare sui propri passi e ad affidare la direzione della Seleçao ad un tecnico tradizionalista e dalle idee chiare il quale, fino a quel momento almeno, non aveva mai rivestito alcun ruolo all'interno della federazione e che, però, si era particolarmente distinto per aver conseguito reiterati successi alla guida della Fluminense, dell'Atletico Mineiro e del Gremio.
Il suo nome era, appunto, Telè Santana.
La lunga militanza sulle panchine di svariate rappresentative di club aveva maturato, nel fututo commissario tecnico della Seleçao, la convinzione, profonda, che soltanto ritornando sui propri passi e puntanto, dunque, sulla tecnica di base e su un gioco cadenzato, tipicamente sudamericano dunque, il Brasile avrebbe potuto ritrovare sè stesso coniugando però, nel contempo, un deciso miglioramento nella fase di non possesso palla e del posizionamento sul rettangolo di gioco. Fu una deduzione logica indovinata perchè la nazionale brasiliana era, senza meno, temibilissima quando riusciva a gestire il possesso della palla ma era, altresì, estremamente vulnerabile quando il pallone lo gestivano gli avversari. La assoluta inadeguatezza, storica direi, dei suoi difensori la diceva lunga, del resto, su come si intendesse il calcio in Brasile per cui, tatticamente, la fase difensiva era sempre stata una lacuna gavissima di tutto il movimento carioca. Il presupposto, ideologico, che aveva portato, nei lustri, a trascurare la fase di non possesso palla nascondeva una presunzione di fondo, assai malcelata del resto, tipica dei sudamericani in virtù della quale, a prescindere per così dire, i più forti del mondo restavano, in ogni caso, sempre loro laddove quello squisitamente teorico era che un possesso palla maggiormente prolungato nell'arco dei novanta minuti avrebbe, in ogni caso, costituito quel quid decisivo in grado di fare la differenza fedele riflesso della loro concezione del futebol in virtù della quale vince chi riesce a segnare un gol in più dell'avversario.
Fin quando la discrasia fra i valori tecnici restò elevata ed il tasso fisico si mantenne in certi range, il Brasile riuscì ad occultare, in un modo o nell'altro, questo suo gap ; ma l'avvento del calcio totale olandese, coniugato ad un tasso tecnico elevatissimo sovrapponibile, quando non addirittura superiore, a quello sudamericano, mise a nudo tutta l'arretratezza tattica dei verdeoro che pagarono un dazio elevatissimo al gioco nuovo ed assai più remunerativo delle compagini europee.
Santana, quindi, perpetuando il suo operato nel solco della migliore tradizione brasiliana curò, con maniacale precisione, proprio la fase di non possesso palla perchè consapevole, più di ogni altro, che il divario dei valori tecnici, su scala planetaria, andava repentinamente assottigliandosi e che la valenza della disposizione in campo di una compagine, soprattutto a certi livelli agonistici, poteva fare la differenza.
Vedremo, nella prossima nota a latere, di evidenziare, per sommi capi, le differenze - e, nel contempo, le analogie - che connotarono il Brasile dell'82 e quello del '70.
Le affinità fra il Brasile di Zagallo del 1970 e quello di Santana dell'82, apparentemente notevoli, concernono, espressamente, la fase di possesso palla. La presenza, in entrambe le squadre, di calciatori dall'altissimo tasso tecnico indusse Zagallo, prima, e Santana, poi, a cercare di sfruttare al meglio questa attitudine per cui entrambe le compagini schierarono, in fase offensiva, gli esterni di centrocampo, quando non addirittura quelli difensivi, a ridosso delle linee laterali delimitanti il rettangolo di gioco poichè, in questo modo, si contribuiva ad allargare lo schieramento difensivo avversario in quanto costringeva almeno uno degli esterni rivali a coprire quella zona di campo.
L'allargamento della disposizione - centrale o di retroguardia - avversaria favoriva, così, gli inserimenti per vie centrali dei centrocampisti brasiliani che potevano, quindi, partendo da dietro ed in progressione, forare agevolmente le linee e diventare temibilissimi. Nella fase offensiva, dunque, accanto alle punte il Brasile soleva accompagnare la manovra con, almeno, l'inserimento di un altro giocatore della linea mediana. Presidiare, comunque, le fasce laterali consentiva quelle manovre di aggiramento della difesa avversaria che precludevano a dei cross calibrati dalla linea di fondo e, perciò, pericolosissimi per i difensori avversari.
Il motivo è, squisitamente, legato alle leggi della fisica poichè la forza che si sprigiona da un impatto fra due corpi che procedono in direzioni uguali e contrarie è doppia rispetto alla risultante fra quello di due masse di cui una delle quali, però, inerte. Un cross tagliato ed a rientrare, quindi, può essere, rispetto ad un altro scoccato dalla trequarti, foriero di pericoli maggiori per una retroguardia tant'è che gli esterni brasiliani furono fra i primi che svilupparono la consuetudinarietà ad effettuare dei traversoni tagliati, appunto, in virtù del possesso di fondamentali più che eccelsi.
L'attitudine, inoltre, spiccatissima di saltare l'uomo creava, spesso e volentieri, quelle situazioni di superiorità numerica che costringevano i difensori a scalare le marcature creando, dal lato opposto, un vuoto su cui solevano inserirsi gli esterni sudamericani. Per sfruttare al meglio, dunque, la plusvalenza tecnica dei giocatori era necessario creare quei presupposti tattici volti a creare il maggior numero possibile di spazi.
E gli spazi si costruiscono, essenzialmente, in due modi : saltando l'avversario diretto con un dribbling secco ovvero con il movimento senza palla.
Il Brasile del 1958, ad esempio, sfruttava allo spasimo la fenomenale tecnica di Garrincha che, sull'out destro, saltava con estrema facilità i difensori avversari i quali, costretti a scalare da sinistra verso destra, creavano, loro malgrado, essi stessi degli spazi nella zona centrale della loro linea di difesa nei quali si inserivano, dalle retrovie, i centrocampisti brasiliani, Pelè in testa.
Il Brasile del 1970, invece, faceva poca leva sugli esterni Jairzinho - un'ala che, all'occorrenza, assumeva il ruolo nevralgico di prima punta - e Rivelino - giocatore dotato di tecnica finissima ma lento alquanto - per cui Zagallo sfruttava, al meglio, la caratteristica di non disporre di una punta statica di riferimento ma di un centroavanti di movimento, ovvero Tostão, che, con i suoi movimenti verso la trequarti, e quindi fra le linee della difesa e della mediana avversaria, portava a spasso il suo diretto marcatore creando quegli spazi nei quali, fulminei, si inserivano i già citati Jairzinho e Rivelino oltre, naturalmente, all'immenso Pelè.
Il Brasile del 1982, di contro, aveva un riferimento costante nel suo centroavanti Serginho, un ariete molto forte fisicamente e nel gioco aereo, ma sfruttava gli spazi creati, ad arte, dai suoi centrocampisti ed, in primis, da Eder.
Eder era, sulla carta, una ala di punta ma, in realtà, era un giocatore estremamente eclettico pronto a creare spazi ed, all'occorrenza, a saltare l'uomo ed a puntare verso la porta.
La forza, però, del Brasile di Santana era il centrocampo ; sulla linea mediana Santana schierava Falcao, Cerezo, Eder e, alternativamente, Zico e Socrates in una disposizione romboidale al cui vertice difensivo si posiziona Falcao che raccoglieva i disimpegni della linea difensiva della squadra e soleva costruire la manovra. Cerezo stazionava, prevalentemente, sul vertice destro di suddetto rombo giovandosi, in fase offensiva, delle sovrapposizioni di Leandro, l'esterno difensivo destro carioca. Socrates, invece, era libero di spaziare lungo tutta l'area della mediana partendo da dietro, leggermente decentrato a sinistra, ma proponendosi, sovente, come seconda quando non, addirittura, come prima punta.
Quando il capitano avanzava a coprire lo spazio lasciato vuoto rientrava Zico che stazionava, prevalentemente, sulla trequarti a ridosso di Serginho in posizione, talora, di trequartista talaltra, invece, di seconda punta. Eder, a sinistra, faceva la spola, per così dire, tra la mediana e la prima linea collocandosi, stabilmente, sul vertice sinistro salvo tagliare verso il centro o, addirittura, al vertice opposto.
Il centrocampo carioca, dunque, si connotava per una mobilità estenuante che non dava modo agli avversari di identificare dei punti di riferimento costanti tenendo di conto che tutto il reparto era, per così dire, sovrapponibile.
Se Falcao rivestiva il ruolo di centromediano metodista in virtù della sua eccellente capacità di vedere il gioco e di preservare le giuste distanze fra le linee, all'occorrenza anche Cerezo poteva svolgere funzioni analoghe visto che nell'Atletico Mineiro, la sua squadra di club, soleva giocare proprio davanti alla difesa ed in posizione centrale.
Per non parlare, poi, di Socrates, uno dei giocatori più tecnici di tutti i tempi mai espressi, in assoluto, dal futebol sudamericano, che poteva giocare da centromediano, da interno, da esterno e, addirittura, da prima punta. Il Brasile del 1970, invece, aveva il fulcro del centrocampo nel solo Gerson che svolgeva, quindi, la funzione classica del regista. Ma se il centrocampo di Zagallo era vulnerabilissimo in fase di non possesso palla, in quanto del tutto privo di reali filtri a metà campo, quello di Santana era, all'opposto, decisamente ermetico perchè pur non disponendo di interdittori puri - Tardelli, Oriali o Marini per capirci - sfruttava, al meglio, le capacità dei suoi giocatori - Falcao e Cerezo in primis - di leggere, un attimo prima degli altri, lo sviluppo del gioco consentendo loro di collocarsi, sempre, nelle aree nevralgiche del terreno di gioco in anticipo ottimizzando, al massimo dunque, una sorta di innato senso di posizionamento tipico, per capirci, dei grandi liberi della tradizione nostrana, Picchi e Scirea su tutti.
Il segreto dell'equilibrio tattico della squadra di Santana dipendeva, quindi, in ultima analisi, proprio dai due centrali di centrocampo perchè se Falcao stazionava, stabilmente, davanti alla difesa nella classica posizione di centromediano metodista, il commissario tecnico carioca sfruttava, al meglio delle sue caratteristiche, proprio Toninho Cerezo il quale, nella fase offensiva, si proponeva come esterno ma, in quella difensiva, serrava gli spazi intercorrenti fra lui ed il fuoriclasse della Roma facendo, per così dire, l'elastico.
La maniacale attenzione di Santana per il movimento senza palla, tipico se vogliamo di molti commissari tecnici europei, invece di snaturare esaltò proprio le potenzialità tipiche del calcio sudamericano di quella compagine la quale, in siffatta guisa, riusciva, preservando la sua identità, ad essere davvero completitiva e ad altissimi livelli.
Se, come ho scritto altrove, la inadeguatezza tattica dei brasiliani veniva ampiamente compensata da una plusvalenza tecnica adesso, invece, non era più possibile eludere da una consona impostazione della fase difensiva perchè i valori planetari andavano, e assai repentinamente aggiungo, assottigliandosi.
E se, ancora nel 1974, la Jugoslavia poteva rifilare nove gol allo Zaire oggi, per converso, piegare di misura il Cameroon era assai più problematico. L'allargamento degli spazi, in fase offensiva, ed il restringimento dei medesimi, in quella difensiva, assumeva, così, la connotazione distintiva della Seleçao di Telè Santana ; la disposizione, inoltre, della compagine verdeoro a copertura di tutte le zone del campo rendeva, oltremodo, alquanto problematica la ricerca, da parte degli avversari, di quegli spazi nei quali affondare le loro incursioni.
D'altro canto se, negli spazi stretti, il Brasile era, oltremodo, temibile - in virtù della presenza di giocatori come Zico, Socrates ed Eder in grado, appena fuori dall'area, di perforare con soluzioni dalla media distanza le retroguardie avversarie - negli spazi larghi diventava, sic et simpliciter, devastante perchè in grado, in qualunque momento, di ribaltare il fronte del gioco trasformando, celermente, una fase difensiva in offensiva e, con tre-quattro passaggi, di arrivare nell'area di rigore avversaria.
Pensiamo, per un istante, ai due gol rifilati dalla Seleçao alla malcapitata Unione Sovietica che, pure, aveva avuto la ventura di passare in vantaggio profittando di una mezza incertezza del portiere sudamericano Valdir Peres ; furono due soluzioni, una più bella dell'altra sotto un profilo squisitamente tecnico, dalla media distanza di Socrates - il gol dell' 1 a 1 - e di Eder - il gol del 2 ad 1 finale - che siglò una sofferta, ma meritata, vittoria della compagine verdeoro al suo debutto in Spagna.
E pensiamo, speculativamente, al terzo gol conto la Scozia la quale, protesa in avanti nel disperato tentativo di rimediare lo svantaggio, si fece sorprendere da tre - dico tre ! - passaggi : Falcao a Scorates, Socrates a Serginho, e Serginho ad Eder che concluse, splendidamente, a rete. Insomma anche quando la selezione brasiliana veniva compressa nella sua metà campo aveva la possibilità di colpire, in maniera letale, gli avversari con delle ripartenze davvero brucianti.
Ma la cosa che, credo, colpì maggiormente tutti gli astanti, inclusi i non addetti ai lavori quindi, fu la innata eleganza con la quale si esprimeva questa squadra. La Seleçao di Santana aveva una incommensurabile connotazione felina ; il suo gioco cadenzato, lento, caratterizzato dalla tessitura di una qual sorta di ragnatela attraverso passaggi brevi per linee orizzontali, le conferivano una aria apparente docile e distratta quasi sorniona che diventava, all'istante, letale quando con una invenzione dei suoi fuoriclasse, ovvero con una soluzione da fuori o con una ripartenza fulminea, colpiva in maniera devastante l'avversario.
Chi ha avuto la ventura di condividere la propria esistenza con un felino sa di che cosa sto parlando.
La Seleçao debuttò nella coppa del mondo il 14 giugno dell'82 contro l'Unione Sovietica. Fu un incontro sofferto per i verdeoro perchè si trovarono, inaspettatamente, sotto di un gol al 34' del primo tempo per una incertezza del portiere Valdir Peres su una velleitaria conclusione dalla distanza di Bal.
D'altro canto la preparazione fisica dei sovietici era molto più avanti di quella brasiliana per cui, nel corso dei primi quarantacinque minuti, l'Unione Sovietica vinse ed il Brasile non convinse. Ma nella ripresa i carioca cominciarono a macinare gioco facendo correre, a vuoto, gli avversari e cominciarono a logorarli. Il vantaggio, però, consentiva ai sovietici di chiudere gli spazi e puntare sulle ripartenze dei velocissimi Bal e Daraselia che fecero passare non pochi gattacapi ai difensori carioca. D'altro canto gli esterni sudamericani, ancora a corto di preparazione, non riuscivano a porre in essere quelle manovre di aggiramento necessarie a mettere in ambasce la retroguardia russa per cui Santana inserì Paulo Isidoro, attaccante di fascia, al posto di uno spento Dirceu nel tentativo di vivacizzare un sin troppo statico fronte offensivo. A quel punto salì in cattedra il capitano, Socrates, che prese per mano la squadra, in palese affanno fisico, e presa la palla sulla trequarti sul versante sinistro tagliò, per linee orizzontali, la linea mediana sovietica da manca a destra ed, a ridosso dell'area di rigore, fece partire una staffilata arcuata che si insaccò nell'angolo opposto, sotto il set della porta dell'incolpevole Dassayev. Quel gol fu una sorta di liberazione psicologica. Da quel momento, eravamo al 75', in poi, infatti, la compagine verdeoro si sbloccò e tredici minuti dopo un'altra conclusione spettacolosa dalla distanza di Eder ribaltò il risultato sancendo il definitivo 2 ad 1.
Fu una vittoria, come ho scritto dianzi, sofferta ma meritata nonchè necessario viatico per i carioca che, da quel momento in poi, dettero vita ad un crescendo rossiniano contro la Scozia, la Nuova Zelanda e l'Argentina campione del mondo uscente. La Scozia, che trovò al suo primo vero affondo un fantastico gol di Narey, fu annientata dalla reazione, superba, della squadra di Santana che rifilò ai britannici, in successione, una quaterna.
Ma la partita che, maggiormente, mi impressionò nella prima fase, allora come oggi, fu la affermazione contro la matricola Nuova Zelanda. Che i sudamericani regolassero, senza eccessivi patemi, la pratica neozeolandese era nella norma. Ma la modalità con la quale la liquidarono assolutamente no. I brasiliani giocarono in surplace, al piccolo trotto, salvo imprimere impreviste accelerazioni che consentirono loro, in poco più di tre passaggi, di trovare la porta avversaria. La Nuova Zelanda sembrava un povero sparring-partner mestamente rassegnato a svolgere un ruolo da mero comprimario, mesto preludio all'esibizione dei campioni del mondo uscenti, l'Argentina di Maradona, completamente annichilita dalla formazione di Telè Santana.
La squadra di Menotti era reduce dalla sconfitta patita contro di noi il 29 giugno al termine di un incontro nel quale, tatticamente, il nostro commissario tecnico Bearzot lesse la partita come solo un valido stratega era in grado di poter fare. Nelle note inerenti la figura di Bearzot scrissi, in proposito, che avocando la circonvenzione di incapace - leggi Menotti - un giudice avrebbe potuto revocare, a tavolino, il risultato e costringere i ventidue a rigiocare, ad armi pari per così dire, l'incontro. Ma se è vero, come è vero, che noi, nel secondo tempo, dominammo tatticamente l'Argentina, i brasiliani la annientarono sic et simpliciter. La storica rivalità, inoltre, fra le due compagini sudamericane ammantò l'incontro anche di una valenza extra-sportiva visto che i verderoro avevano, ancora, il dente avvelenato per le modalità con le quali furono esclusi dala finale di Buenos Aires quattro anni addietro.
Ma, a onor del vero, se il commissario tecnico argentino fu il principale artefice della sconfitta dei campioni del mondo uscenti contro gli azzurri le sue responsabilità, nell'ambito dell'incontro con i brasiliani, furono assai più lievi perchè, davvero, non ci fu proprio partita alcuna. Con il loro gioco intessuto di trame per linee orizzontali, i verdeoro sfiacchirono la resistenza dei biancocelesti che corsero a vuoto per quasi un'ora dell'incontro. E allorquando Maradona, l'unico della comitiva, prendeva palla cercando di superare l'uomo per creare superiorità numerica, una piccola gabbia estemporanea si erigeva attorno al fuoriclasse argentino che, vistosi solo e smarrito nelle maglie pressanti dei verdeoro, si incaponì oltremodo cercando di vincere la partita da solo laddove Zico, per converso, arretrando il suo baricentro sulla linea dei centrocampisti consentì i reiterati inserimenti di Falcao, Socrates, Cerezo, Leandro e Junior. Il brasiliano, meno appariscente, fu il vero artefice del successo carica perchè vinse l'incontro marginalizzandosi, apparentemente, dal fulcro del gioco.
Quando vidi quell'incontro capii, solo allora, quel che diceva Santana quando, a domanda su quale dei due astri del football sudamericano fosse il più grande, rispose dicendo, testualmente, che :

"Zico può vincere una partita senza mai scoccare un tiro in porta e senza mai entrare nell'area di rigore ; e questa è una cosa che Maradona non potrà mai fare".
Va, però, anche rimarcato che quattro anni dopo in Messico, in occasione della finalissima disputata dalla compagine biancoceleste contro la Germania, sarà proprio Maradona, giocando in maniera analoga, a favorire gli inserimenti dalle retrovie di Valdano e Burruchaga ed a risultare, così, tatticamente decisivo in quella partita e, più in generale, in quel mondiale dove fece, davvero, la differenza. Ma, nel 1982, i rapporti di forza fra i due fuoriclasse erano appannaggio del brasiliano.
Il senso di rabbia, frustrazione ed impotenza degli argentini esplose nel calcio allo stomaco rifilato, a palla lontana, da Maradona a Batista. Davvero un brutto modo di lasciare il proscenio mondiale per un giocatore che, ivi, faceva il suo debutto e per una compagine campione del mondo.
Eppure persino quel Brasile aveva alcuni punti deboli ; il primo era connaturato, geneticamente direi, ai sudamericani ovvero quello di gigioneggiare con il pallone fra i piedi solendo rispecchiarsi vanagloriosamente fra loro apportando, all'intera compagine, dei cali di tensione davvero preoccupanti. Una peculiarità, questa, davvero ostica a cedere il passo visto che, ancora oggi nel 2010, proprio questa attitudine, psicologica dunque, è stata la causa prima della estromissione della Seleçao da parte dell'Olanda ai mondiali sudafricani. Dopo essere passati in vantaggio contro gli orange, infatti, invece di chiudere l'incontro nella prima frazione di gioco i carioca presero ad assumere un contegno lezioso, quando non addirittura irritante, sicchè quando, nella ripresa, su calcio d'angolo gli olandesi pervennero al pareggio, i brasiliani persero la testa - e la spocchia - e si disunirono offrendo il fianco alle reiterate scorribande degli avversari che, lungi dal rimirarsi fra loro, infierirono, senza remora alcuna, colpendo anche una seconda volta e sancendo, così, l'estromissione dal proscenio mondiale dei brasiliani.
Il secondo, di matrice squisitamente tattico, era intrinsecamente legato, per quanto paradossale possa sembrare, proprio alla forza dei nostri avversari ovvero alla natura del tipo di gioco che esprimevano. I brasiliani non erano soliti lanciare lungo dalle retrovie per saltare il centrocampo ma tessevano la manovra partendo dalla linea difensiva e, nel contempo, si posizionavano, in fase di possesso palla, larghi sul campo nel tentativo di creare spazi. Bearzot, quindi, intuii, correttamente, che se pressati anche nella loro metà campo avremmo potuto, rubando palla, trovarli sbilanciati, proprio perchè disposti come sopra, ed avremmo potuto, noi non loro, sfruttare quelle aree di campo create, ad arte, dai sudamericani a nostro vantaggio.
Era una tattica rischiosa e, naturalmente, fisicamente assai dispendiosa ma, a conti fatti, era l'unica strategia che potesse, in qualche maniera, metterli in seria difficoltà anche perchè il nostro commissario tecnico si era, vieppiù, persuaso che impostare un incontro in chiave puramente difensiva avrebbe consentito, ai brasiliani, di poter trarre vantaggio dalla presenza, nel novero dei loro giocatori, di quegli stoccatori dalla media e lunga distanza - Eder, Socrates, Zico, lo stesso Falcao - che avevano, già in quella kermesse, castigato severamente l'Unione Sovietica ; d'altro canto cercare di chiuderli nella loro metà campo offriva il fianco alle ripartenze terrificanti dei sudamericani che, con tre passaggi, ribaltavano completamente il fronte del gioco a loro vantaggio : il terzo gol alla Scozia ovvero il secondo alla Nuova Zelanda erano lì, come severi moniti, a rammentarcelo.
La chiave di volta dell'incontro Italia-Brasile fu, in sostanza, tutta lì ; ed il secondo gol di Rossi rifilato ai sudamericani fu l'attuazione emblematica di quella strategia. Quando Valdir Peres rimette il pallone con le mani a Leandro sull'out destro, la linea difensiva carioca comincia già a schierarsi larga sul campo. Il primo giocatore che porta il pressing sull'esterno difensivo destro carioca è Graziani il quale costringe il brasiliano a dare palla, per linee orizzontali, a Toninho Cerezo il quale, a sua volta, pressato alto da Tardelli non trova niente di meglio da fare che tentare un improbabile disimpegno, ancora per linee orizzontali, verso Luisinho col risultato, nefasto, di mettere in mezzo un pallone sporco a metà strada fra lo stesso Luisinho e Junior. E mentre i due brasiliani si scambiavano un'occhiata interrogativa per stabilire chi, fra loro, doveva raccogliere quel suggerimento si inserì, fulmineo, il nostro centroavanti che rubò palla e si involò verso l'estremo carioca. Junior cercò, disperatamente, di contrastarlo ma, posizionato troppo largo sull'out sinistro della linea difensiva sudamericana, arrivò con una frazione di secondo di ritardo e fu, così, scavalcato da Rossi che, seppur in posizione leggermente decentrata, si trovò completamente solo davanti a Valdir Peres e lo trafisse con una staffilata a mezza altezza.
Nella prossima, ed ultima nota a latere, daremo una rapida scorsa a quell'incontro ed a cosa, quella partita, abbia rappresentato negli anni a venire.
Alla stregua di Italia-Germania dell'Azteca anche Italia-Brasile del Sarrìa si connotò, gioco forza, di una valenza extrasportiva che trascese, ampiamente, i meri confini di una partita di calcio ma con una sostanziale differenza ovvero che mentre i coevi di Messico '70 si resero, immediatamente, conto della portata storica di quell'incontro quelli di Spagna '82 avrebbero impiegato lustri per decodificare, correttamente, quanto era avvenuto sotto i loro occhi.
Italia-Germania fu una partita dal pathos incredibile e caratterizzata da una serie reiterata di emozioni che si concentrarono, per una qual sorta di magia, nei trenta minuti di tiempo extra come recitava la didascalia della televisione messicana che trasmetteva l'incontro via telespazio come soleva dirsi allora.
Italia-Brasile, invece, pur connotandosi di forti sensazioni sportive si ammantò di un significato allegorico molto più ampio perchè segnò, indelebilmente, il tramonto definitivo di una fortissima identità culturale, per quanto sportiva, che aveva segnato, a caratteri indelebili la storia del calcio. Ma questa consapevolezza era difficile, per non dire impossibile, poterla percepire in tempo reale, per così dire, e della portata storica di quell'evento ne avremmo avuto coscienza solamente parecchi anni dopo.
L'estromissione della nazionale carioca da quel mondiale, dove pure aveva incantato davvero tutti, indusse lo stesso Santana a porre le basi per una rifondazione di tutto il movimento brasiliano in chiave europeista tant'è che la compagine che guidò, quattro anni dopo, in Messico era una lontana parente di quella di Spagna pur annoverando alcuni calciatori che avevano preso parte alla kermesse iberica dell'82, Zico in testa.
Ma fu proprio l'ossatura della Seleçao ad essere, profondamente, rinnovata ; Santana convocò giocatori come Alemao, Edinho, Branco e Josimar che avevano nella interdizione pura un punto di forza. Era, quindi, una squadra molto più europea che faceva del pressing e della rottura del gioco altrui una sua caratteristica ; i giocatori, altamente tecnici, in grado di mutare fisionomia ad un incontro erano ridotti, ora, a tre soltanto : i veterani di Spagna Socrates e Zico e la riserva Muller. La decisione, quindi, di ammainare bandiera e di portare al soglio della Seleçao un novero di giocatori molto forti fisicamente sarà una connotazione che porterà i suoi frutti solamente nel 1994 quando, sotto la guida di Parreira, il Brasile si aggiudicò, dopo ventiquattro anni, la coppa del mondo. E se diamo una scorsa a quella compagine troviamo giocatori come Dunga, lo stesso Branco, Marcio Santos, Mazinho etc. che di brasiliano avevano, essenzialmente, la casacca verdeoro : i giocatori davvero tecnici erano, oramai, i soli Romario, Bebeto e Zinho.
Possiamo, quindi, provocatoriamente asserire che la rivoluzione del calcio totale olandese del '74 si compirà, del tutto, solamente venti anni dopo quando persino il Brasile ne mutuerà parecchie peculiarità di gioco e tattiche. Tra l'altro quella finale, giocata contro l'Italia di Arrigo Sacchi a Pasadena, fu una partita noiosissima e, tatticamente, bloccata perchè entrambe le squadre giocavano in maniera, pressocchè, identica ovvero molto corte, facendo pressing in tutte le zone del campo sui portatori di palla avversari ed applicando, reiteratamente, la trappola del fuorigioco.
Il Brasile vinse, certo, ma perse, definitivamente, la sua identità e, con la sua identità privò il calcio, in senso lato, di una parte di sè.
E' estremamente difficile cercare di spiegare il crogiuolo di sensazioni, diversissime, che provai nel 1982, al Sarrìa, e nel 1994 a Pasadena ma, ciò nondimeno, proverò a metterle su carta nella speranza di trasmettere, almeno in parte, quella sorta di dissociazione schizofrenica che mi pervase quasi trent'anni orsono.
Quando Falcao scoccò, appena fuori dall'area, quel tiro, impercettibilmente deviato da Bergomi, che scavalcò il braccio vanamente proteso di Zoff insaccandosi, beffardamente, alle spalle del nostro capitano provai, da un lato, amarezza ma, dall'altro, una qual sorta di sollievo. Io ero, naturalmente, tifosissimo degli azzurri ma per me che, già allora, amavo il calcio in sè come un valore trascendente, la consapevolezza della estromissione della Seleçao mi appariva come una qual sorta di vulnus, ovvero un punto di non ritorno.
Seppur confusamente, cioè, presagivo il rischio che il football avrebbe corso ovvero quello di globalizzarsi definitivamente assorbendo l'ultima grande cultura sportiva autoctona. Certo allora non potevo averne la medesima consapevolezza di oggi eppure, malgrado ciò, sentivo, istintivamente, che nel trionfo azzurro c'era qualcosa di dissonante. Nulla a che vedere, dunque, con Italia-Germania dell'Azteca perchè se, allora, fu una mera partita di calcio il cui esito non avrebbe avuto implicazione alcuna se non la designazione di una finalista ad un campionato del mondo, quella del Sarrìa era qualcosa di molto, ma molto, di più.
A Pasadena, invece, il Brasile di Parreira lo avvertivo come una compagine assolutamente estranea per non dire anonima.
E quando la finale ce la giocammo ai calci di rigore sperai, invano purtroppo, senza remora alcuna che fossimo noi, e noi soltanto, ad aggiudicarci quella kermesse ; ed oggi ne capisco, vieppiù, le motivazioni.
Speravo, inconsciamente, che una eventuale sconfitta della Seleçao avrebbe indotto la federazione sudamericana a ritornare sui suoi passi e ad intraprendere un percorso affatto diverso che riportasse il futebol brasiliano verso le sue origini ma, naturalmente, ero succubo delle mie illusioni.
Oggi sono pienamente consapevole che Telè Santana, alla stregua di Annibale a Zama, fu sconfitto, in primis, da quella medesima (S)toria che nei suoi insondabili itinerari aveva, in un certo qual modo, già sentenziato la fine di un'epoca che aveva contrassegnato, indelebilmente, il gioco del calcio per quasi un secolo.
Quel Brasile, stellare senza meno, non avrebbe mai potuto fregiarsi del titolo di campione del mondo perchè laddove fosse riuscito ad agguantare quel pareggio che avrebbe significato la nostra estromissione avrebbe pagato dazio con la Polonia o, magari, con la Germania nella finalissima del Santiago Bernabeu.
La (S)toria, in senso lato, non suole accomodarsi sul ciglio e mostrare indulgenza alcuna per i morosi ed il Brasile di Santana aveva una cambiale in protesto da dodici anni.
Lo scontro al Sarrìa, quindi, si è connotato di una qual sorta di valenza omerica perchè, alla stregua di Ettore, il destino dei sudamericani era già stato sancito da quell'imponderabile ed imperscrutabile fato di fronte al quale persino gli dei dovevano inchinarsi. E quel Brasile, la più fulgida e meravigliosa espressione del football che io abbia mai visto su un campo di calcio, in certi frangenti trasudava, davvero, qualcosa di divino.
Il terzo gol all'Argentina, il più bello di tutti i campionati del mondo di Spagna e, senza meno, uno dei più belli di tutti i tempi, è latore di un qualche cosa di mistico, quasi di sovrannaturale persino, financo in quella lieve dissonanza che costringe Toninho Cerezo a fare qualche metro a ritroso per recuperare il pallone ed appoggiarlo, a ridosso della lunetta di centrocampo, a Junior. Le linee che, con la palla, disegnano sul rettangolo di gioco i giocatori sudamericani, in particolar modo il triangolo Junior, Zico, Junior - semplicemente perfetto anche da un punto di vista puramente geometrico -, non possono non indurmi a pensare, a sentire più che altro, una qual sorta di presenza sovrannaturale che, in quei frangenti, si è come dilettata a dare mostra di sè suggerendoci che, anche in una mera partita di calcio, si può scorgere la perfezione assoluta e che un miracolo, nel senso escatologico del termine, può estrinsecarsi dalle cose più insulse e banali come, ad esempio, da un calcio tirato ad un pallone.
Con il Brasile di Santana se ne è andata anche una parte di me.
E questa sera, a ridosso del nuovo anno che bussa alle mie porte, non posso non sentire il peso degli anni che passano con il rammarico, e la consapevolezza, di aver perduto per sempre qualche cosa che mi apparteneva proprio in quel torrido pomeriggio del 5 luglio del 1982.
Addio Telè.
Mi piace pensare che, dovunque tu sia adesso, ti stia dilettando ad allestire una squadra che, scevra dall'incombenza di un mero risultato, regali agli astanti quella gioia e quelle emozioni che, tu solo, sei riuscito a donarci in quel campionato del mondo.