SUNN IL MITE NON EFFETTUA ALCUN MONITORAGGIO O ANALISI DEI DATI DEGLI UTENTI

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venerdì 5 febbraio 2010

Ecco che fine fanno i soldi della cooperazione internazionale


E' crollato dopo due settimane esatte dall'inaugurazione del 13 gennaio scorso, avvenuta alla presenza del ministro degli Esteri italiano, Franco Frattini, che suggellava con la sua presenza l'ingente impegno italiano in questo mega progetto. Si tratta del Gilgel Gibe II, il tunnel di 26 chilometri costruito per generare energia sfruttando la differenza di altitudine fra il bacino della Gilgel Gibe I e il fiume Gibe. Siamo nel cuore dell'Etiopia, nella valle del fiume Omo, un paradiso che sta per sparire, ingoiato dalla rapacità di governi e grandi interessi, che nelle acque cristalline dell'importante fiume ci vedono solo energia e tanti soldi. Dietro a questo misero flop, infatti, c'è un intreccio di interessi e business a nove cifre, che occorre analizzare passo passo, per arrivarne a capo.
Il bacino dell'Omo e i suoi affluenti, da 15 anni, sono oggetto di una morbosa attenzione non solo delle istituzioni etiopi, ma anche italiane e quindi europee, con i fondi delle quali sono già nati non solo l'impianto idroelettrico dai piedi d'argilla, ma anche una diga a cui il tunnel si collegava. E in ponte ce n'è una terza, ossia il più grande progetto idroelettrico mai realizzato nel paese africano, che è già in via di costruzione.
A aprire i battenti del business energetico nel paese africano è stata, dunque, la costruzione della Gilgel Gibe I, la diga medio-grande che prende il nome dal fiume che confluendo nel Gibe dà vita con il Gojeb all'Omo, il quale per seicento chilometri irriga una regione dalla biodiversità eccezionale (l'Unesco ha dichiarato la bassa valle dell'Omo Patrimonio dell'Umanità). A ruota è stato quindi messo su il Gilgel Gibe II e infine sta svilppandosi la Gilgel Gibe III, mega diga in via di costruzione dal 2006, che prevede un salto di 240 metri per una potenza di 1870 Mw. Costo: 1,4 miliardi di euro.

E, se per la prima costruzione, a farne le spese sono state diecimila persone, sfollate a forza da quello che adesso è il bacino idroelettrico della Gilgel Gibe I, per il progetto da mille e una notte a rimetterci saranno in duecentomila. Con conseguenze facilmente prevedibili, viste le condizioni di vita che già stanno sopportando i primi sfollati. A raccontarcele sono i responsabili della Campagna per la riforma della Banca Mondiale, costola di Mani Tese, che da tempo seguono la vicenda, con escursioni sul luogo e rigorosi studi di impatto ambientale. Perché la Crbm è coinvolta? Perché ognuno di questi progetti ha visto il coinvolgimento diretto o indiretto della Banca Mondiale, della Banca europea per gli investimenti e dei finanziamenti della cooperazione internazionale. Anche italiana.

"Le comunità coinvolte hanno subito un graduale impoverimento - raccontano - Le famiglie sono state insediate in una zona semi-paludosa poco fertile e con appezzamenti di terra inferiori a quelli che prima possedevano. L'aumento della densità di popolazione ha creato un conflitto con le comunità residenti per la gestione dei pascoli, dato che per la loro scarsità, numerose famiglie hanno perso fino all'80 percento del bestiame. Il tutto nella totale mancanza di servizi di base. Nonostante le abitazioni siano sovrastate dai cavi dell'alta tensione, non hanno luce né acqua corrente. Gli accordi parlavano di nuove scuole, che invece non ci sono. Si sono limitati a ristrutturare le vecchie, che ora devono gestire fino a 1.100 studenti. E molti vivono a due ore di cammino. Inoltre il bacino ha inondato la strada asfaltata che collegava la città di Jimma alla capitale, isolando i villaggi e costringendo i mezzi di trasporto ad aggirare il bacino su un percorso sterrato di quasi 40 Km".
Incombenti le malattie. "La creazione del bacino ha incrementato l'incidenza della malaria e di altre malattie trasmissibili, come l'Hiv. La presenza di migliaia di lavoratori provenienti da tutto il Paese ha aumentato la prostituzione e, dato che la popolazione non è stata sottoposta ai controlli sanitari periodici previsti nelle misure di mitigazione, il virus si è diffuso a dismisura".
Ingenti i danni ambientali. "La diga non rilascia il flusso minimo previsto per garantire la sopravvivenza dell'ecosistema. Si passa dall'assenza di ogni rilascio durante la stagione secca, al riempimento fino al limite eseguito durante la stagione delle piogge per sfruttarne al massimo la potenza, per poi procedere con rilasci di emergenza a protezione dell'infrastruttura. Si tratta di una gestione irresponsabile che provoca scompensi, molto pericolosi. Nell'estate del 2006, nei distretti di Dashenech e Nyangatom, lungo il fiume Omo, un'alluvione ha provocato la morte di 364 persone, la distruzione di 15 villaggi e 15.000 profughi".
A rendere tutto ancora più grave c'è la discutibilità dei metodi usati per ottenere i permessi necessari, che in alcuni casi non sono nemmeno arrivati in tempo. Come il permesso ambientale per la Gilgel Gibe III, emesso nel 2008, nonostante i lavori fossero già in stato di avanzamento. Ad opera di chi? Della italianissima Salini Costruttori Spa, l'unica e la sola che da sempre lavora ai progetti nella Valle, grazie a gare d'appalto mai avvenute. Ma il Bel Paese è implicato nel business idroelettrico etiope anche per i 220 milioni di euro che il Comitato direzionale della Direzione generale cooperazione allo sviluppo (Dgcs) del ministero degli Affari Esteri (Mae) ha versato per la realizzazione dell'impianto appena franato Gilgel Gibe II, unito a 505 mila euro donati per l'invio di un esperto italiano che monitorasse il progetto. "Che di per sé - precisa Caterina Amicucci, della Crbm - sarebbe pure un progetto valido, se non fosse per le dubbie commistioni che ci stanno dietro e per l'assenza di studi adeguati che hanno comportato un ritardo di due anni nella consegna, un rilevante aumento dei costi" e un risultato a dir poco scadente visto il crollo.
Si è trattato infatti del più grande credito d'aiuto mai erogato nella storia del fondo rotativo, ed è stato deciso basandosi su valutazioni fortemente negative dei ministeri e degli organi competenti, fra cui il Nucleo tecnico di valutazione della Dgcs. Che viene quasi del tutto sbaragliato subito dopo l'approvazione del credito. La quale avviene, comunque, a contratto già firmato tra la Salini e il governo etiope, "contravvenendo a tutti gli standard nazionali e internazionali sulla trasparenza e la concorrenza". Era l'ottobre 2004. E il governo italiano stava giusto discutendo la cancellazione dei 332,35 milioni di euro di debito dell'Etiopia, che venne poi ratificata nel gennaio 2005. Ossia, tre mesi dopo averla reindebitata di una cifra di poco inferiore: quei 220 milioni stanziati per Gilgel Gibe II.
Anche per la numero III, l'Etiopia si è rivolta all'Italia. Era il luglio 2007. Richiesta: 250milioni di euro. Per ora nessuna risposta. "La richiesta ufficiale delle autorità etiopi - precisa Amicucci - è accompagnata da una costante e capillare azione di lobby della Salini sui funzionari e i diplomatici del ministero. Dopo il cambio di governo a metà 2008 si resta in attesa degli eventi". E non dimentichiamo che dal marzo 2006 al gennaio 2007 questo prestito è stato indagato anche dalla magistratura, che poi ha archiviato il caso.

A finanziare la Gilgel Gibe II è accorsa anche la Banca europea per gli Investimenti, che ha sborsato 50 milioni di euro. Eppure, ben sapeva che non era avvenuta una gara d'appalto per l'intero lavoro. La Salini ha infatti preso il lavoro senza gare, e poi ha fatto dei bandi per i lavori scaturiti dall'indotto. Ed è qui che è intervenuta la Bei, finanziando quindi una componente del progetto che è andata in gara e aggirando, comunque, le direttive europee sul procurement. Si è dunque disinteressata "degli standard internazionali su trasparenza e concorrenza", che invece hanno convinto la Banca mondiale a non entrare nell'operazione.
E ora, stesso copione e medesimi attori per la Gilgel Gibe III?
Fonte: Peacereporter
Stella Spinelli