SUNN IL MITE NON EFFETTUA ALCUN MONITORAGGIO O ANALISI DEI DATI DEGLI UTENTI

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mercoledì 31 marzo 2010

Le replicazioni degli esperimenti di elettrocuzione di Milgram dimostrano che il 38% delle persone non tortureranno gli altri se gli viene ordinato


by Mike Adams, the Health Ranger, NaturalNews Editor

translation. Luca Giammarco

titolo originale: "Replication of Milgram's Shocking Experiments Proves 70 Percent of People will Torture Others if Ordered"
(NaturalNews) Gli esperimenti di Milgram, risalenti ai primi anni '60, sono uno studio classico ( ma scioccante ) che dimostra la “pecoraggine” della gente in ogni dove.
Negli esperimenti – che sono stati replicati innumerevoli volte durante il corso del tempo e presso diverse culture, etnie e fasce di età – i soggetti si sono impegnati volentieri nella somministrazione di scariche elettriche estremamente dolorose ad altri esseri umani per nessun altro motivo se non quello di aver ricevuto un ordine da una figura d'apparente autorità.
[ I soggetti che nello studio assumono il ruolo dei carnefici ( “insegnanti” ) - in realtà i veri bersagli dell'esperimento- vengono accompagnati in una stanza e posti al controllo di un pannello, sul quale sono presenti vari bottoni. Viene detto loro che ad ogni pulsante, contraddistinto da un numero, corrisponde una scarica elettrica d'intensità crescente; da 15 a 450 volts. Dopodiché viene somministrata loro una scarica elettrica di 45volt, già abbastanza dolorosa, e li si informa che le scariche inferte agli “allievi” possono arrivare sino a 450volt.

Lo scopo del test dichiarato ai soggetti è quello di valutare gli effetti prodotti dalle punizioni sull'apprendimento.

In un primo momento “ l'insegnante” agisce in libertà, poi viene via via istigato a punire “l'allievo” poco dotato.

I soggetti che devono subire le scariche elettriche vengono, nel fattempo addestrati ad una simulazione: si siedono su di una finta sedia elettrica e in base agli ordini impartiti fanno finta di subire gli effetti delle varie elettrocuzioni. ndt ]

Questi studi hanno dimostrato da tempo che la mentalità di circa il 70% [ nei test di Yale del 1963 il 62% per la precisione, ndt] della popolazione è plasmata sul “ fare quel che gli viene detto”. Solo il 30% [ il 38% , ndt] dei soggetti studiati si sono rifiutati di torturare altri esseri umani quando gli è stato ordinato.
Adesso, questo famoso studio è stato replicato alla Santa Clara University in California. […]
I soggetti che “somministravano” le scariche elettriche, come di consueto in molti esperimenti psicologici, venivano informati che stavano semplicemente prendendo parte ad un esperimento su di un soggetto terzo ( la persona da sottoporre ad elettrocuzione), e che dovevano somministrare scariche elettriche alla detta persona se rispondeva in maniera non corretta alle domande poste. Nel frattempo, “ la figura di apparente autorità” ( uno dei veri ricercatori esecutori dell'esperimento) avrebbe comandato la somministrazione di scariche elettriche a livelli sempre più dolorosi, partendo da in basso voltaggio e aumentando il voltaggio ben al di là dei 150volt ( che può essere letale ).
La vera ragione per cui molte persone sono disposte a fare tutto ciò che gli viene detto
La cosa incredibile di questo esperimento è la sorprendente disponibilità di molte persone a infliggere scosse di oltre 150volts a vittime che si contorcono dal dolore sotto i loro occhi, urlando e implorando pietà.
Usando esclusivamente l'applicazione di una autorità verbale, questi “istruttori” continuano a torturare e a causare, apparentemente, grandi pene e sofferenze ad un altro essere umano.
Per molti anni, gli psicologi hanno dibattuto sul fatto che gli studi originali fossero in qualche modo viziati. Gli esseri umani non possono essere così crudeli e ingenui. Ma ora la replicazione dell' esperimento tronca qualsiasi discussione sul soggetto e ci costringe a confrontarci con una sgradevole realtà: La maggior parte degli esseri umani di qualsivoglia età, etnia, religione, cultura o professione torturerà, arrecherà danni anche mortali ad altri esseri umani se comandato a farlo.
Perché è importante comprendere ciò? Perché questo studio spiega l'effetto “sheeple” [ termine che deriva dalla fusione della parola sheep=pecora con la parola people=gente, sta a intendere quindi “pecoraggine”, automatismo gregario, una categoria di persone che accettano , senza se e senza ma, i comandi di un altro. Ndt ] che domina la società odierna. Perché i consumatori obbediscono così ciecamente alle autorità apparenti? Perché fanno ciò che viene loro detto anche se quello che gli viene ordinato va contro il senso comune e la stessa etica individuale?
fine prima parte

fonte:NaturalNews.com

lunedì 29 marzo 2010

Paghiamo il debito col debito...

domenica 28 marzo 2010

Una piccola digressione, l'ostracismo a Totò, il suo qualunquismo, l'intellighenzia di sinistra parte seconda

Totò non fu l’unico artista che, in quegli anni e in quelli a venire, patì un ostracismo comminatogli dai vertici della neonata televisione. Ci furono, invero, anche altri personaggi del mondo dello spettacolo che caddero sotto la scure di attacchi censori a tutto campo.
Dario Fo e Franca Rame, ad esempio, furono banditi dal piccolo schermo per reiterati e quanto mai “inopportuni” accenni e riferimenti ad alcune coeve vicende sociali e politiche in concomitanza di alcune edizioni di “Canzonissima” dei quali erano i conduttori. Uno degli episodi che indusse l’azienda a prendere un provvedimento di tal genere fu uno specifico riferimento dell’attore alle morti bianche sul lavoro. Curioso notare come questo tema sia, poi, diventato una sorta di leit-motiv che, a scadenze programmate, viene periodicamente riproposto dalle confederazioni sindacali, dalle organizzazioni partitiche e persino, recentemente, dal capo dello stato. E, parimenti, curioso risulta, paragonato a quello di quaranta anni orsono, l’atteggiamento dei vertici dell’informazione pubblica – ed, oggi, anche privata – che mentre, ieri, in virtù di un indirizzo anche pedagogico tendeva ad offuscare determinate notizie viceversa, oggi, contribuisce ad alimentarle conferendole un morboso pathos con edizioni roboanti, servizi speciali ed “approfondimenti” in seconda serata salvo, poi, apporre una assordante sordina e contribuirne, repentinamente, alla rimozione per dare in pasto, alla opinione pubblica, un nuovo scandalo di mala sanità, un nuovo stupro di un extra comunitario – meglio se romeno – un nuovo caso di pedofilia per, poi, ciclicamente, ritornare sulle morti bianche osservando, così,strettamente la falsariga del linguaggio pubblicitario che modifica, periodicamente, l’oggetto del desiderio che fa da corollario al prodotto. Per alcuni partiti politici storicamente legati al mondo del lavoro, poi, le morti sul lavoro sono uno occasione ghiotta per rifarsi il maquillage e conquistare un pò di visibilità mediatica. Per qualche segretario politico con minor scrupoli, infine, è anche una ghiotta occasione per recuperare qualche consenso candidando qualche operaio superstite nelle proprie liste. In ogni caso sia Fo, che la Rame, ripiegarono sulla loro compagnia e sulla loro attività teatrale anche perché la loro militanza politica contribuì a preservarli anche artisticamente. Se furono boicottati sul piccolo schermo, dove ritornarono qualche lustro più tardi in occasione della messa in onda del programma televisivo “Mistero buffo”, la longa manus del partito, in qualche maniera, contribuì a preservarne l’attività teatrale consentendo loro di poter avere libero accesso ai teatri di mezza Italia. Dario Fo e Franca Rame patirono, quindi, una censura di matrice politica ad opera di alcuni settori che si richiamavano, politicamente, alle aree più conservatrici della Democrazia Cristiana.
Mina Mazzini, invece, fu epurata dalla televisione di stato per la sua “scandalosa” relazione con l’attore Corrado Pani da cui ebbe anche un figlio – Massimiliano Mazzini – che il padre, all’epoca già coniugato, poté riconoscere solamente molti anni più tardi riuscendo a conferirgli il proprio cognome ma riuscì, in virtù di un talento vocale semplicemente straordinario, a ritagliarsi un suo spazio nel mondo della musica – intensificò la sua attività canora riprendendo la via delle tournee – per poi, di lì a poco, essere richiamata e rientrare nuovamente in Rai. L’ostracismo comminato a Mina fu, quindi, di matrice etica, non politica, e fu, in qualche maniera, immediatamente rimosso. E’ probabile che, in questa specifica circostanza, anche i vertici delle gerarchie ecclesiastiche abbiano fatto sentire la propria voce di biasimo per il comportamento, moralmente, assai poco ortodosso dell’artista.
Lelio Luttazzi e Walter Chiari, invece, furono vittime di un fumus persecuzionis ante litteram ad opera di alcuni giudici che, sulla base di accuse rivelatesi assolutamente inconsistenti ad opera di presunti e, quanto mai, improbabili e credibili collaboratori di giustizia, non esitarono un istante, in cambio di qualche spicciolo di notorietà, a disporre la traduzione in arresto immediata dei due artisti prelevati sotto l’occhio morboso, ed impietoso, delle telecamere del servizio pubblico.
I rotocalchi dell’epoca non esitarono un attimo a riprendere, con il tele obiettivo, alcune istantanee di Walter Chiari, smagrito e con lo sguardo scavato, abulico ed assente, durante l’ora d’aria che pubblicarono immediatamente senza scrupolo alcuno dando in pasto, ad una opinione pubblica già famelica che andava perdendo una qual sorta di innocenza, una crudele, e sadica, rappresentazione della verità. Del resto quegli stessi rotocalchi non avevano esitato, parimenti, un momento a fare la medesima operazione di sciacallaggio mediatico in occasione del decorso terminale della malattia che colpì papa Pacelli qualche anno prima. Furono prove tecniche di trasmissione che si rivelarono molto utili qualche lustro più tardi in occasione dell’inchiesta “Mani pulite” che fu contrassegnata, sotto un aspetto meramente informativo, da uno sciacallaggio senza pari. Luttazzi, musicista di rara sensibilità, riuscì, in qualche maniera, ad uscirne relativamente indenne e, dopo esser stato prosciolto da ogni accusa, riprese a fare un po’ di televisione salvo, poi, ritirarsi nella sua Trieste rifugiandosi nella sua attività di concertista amareggiato e sconcertato per l’assurdo linciaggio mediatico cui venne reiteratamente sottoposto in tutti quegli anni. Ma Walter Chiari, invece, che era nato, per così dire, con la televisione pagò un prezzo assurdo. L’arresto e la detenzione al penitenziario di Regina Coeli lasciarono un segno talmente indelebile nel fisico e nel morale dell’uomo Walter Annicchiarico da cui l’attore non si riprese mai più.
Questi tre esempi che abbiamo ripercorso in un lasso di tempo di una decina d’anni mostrano come l’ostracismo possa seguire vie diverse e, talora, drammatiche. Quello di Totò, invece, fu contrassegnato da una triplice direttiva di stampo artistico, politico ed etico. Del resto, in un’ottica prettamente artistica, ancora oggi risulta improbo catalogare, in senso ortodosso, molta della produzione di Totò nella categoria dei lungometraggi e questo perché più che realizzazioni compiute – con tanto di sceneggiatura, montaggio e quant’altro – le sue pellicole erano, per così dire, una summa di gags scollacciate tra loro assolutamente prive di dialoghi consistenti e che si reggevano, stentatamente, ad un copione maldestro. Se, ad esempio, provassimo a scorporare dal film “Totò, Peppino e la malafemmina” le scene nelle quali recitano i due mattatori il rimanente sarebbe un prodotto di ben infima qualità. E questa “incisione” operata nella stragrande maggioranza dei suoi film produrrebbe il medesimo effetto. Sotto un profilo squisitamente tecnico, dunque, la critica aveva modo di potersi destreggiare senza problemi di sorta proprio perché la maggior parte delle pellicole girate da Totò prestavano il fianco a tutta una serie di osservazioni ed appunti. A cominciare, ad esempio, proprio dai titoli delle pellicole che lo vedevano protagonista contrassegnate, troppe volte, dal suo nome d’arte. La carriera cinematografica di Totò si dipana in un arco temporale di ben sei lustri dal 1937 – il suo primo lungometraggio, “Fermo con le mani” è, appunto, di quell’anno – al 1967 ma, solamente, nel dopoguerra la sua produzione assumerà un ritmo decisamente frenetico e commerciale. Se andassimo a dare una rapida scorsa ai titoli dei film interpretati dall’attore potremmo notare, subito, come il suo nome campeggiasse in moltissimi, decisamente troppi, titoli delle pellicole che lo videro protagonista : Totò, Peppino e la malafemmina, Totò Lemokò, Totò contro i quattro, Totò, Peppino e i fuorilegge, Totò al giro d’Italia, Totò, lascia o raddoppia ?, Totò e Peppino divisi a Berlino, Totòtruffa ’62, Totò e Cleopatra, Totò contro Maciste, Totò sceicco, Totò all’inferno, solo per citarne qualcheduno ; questa connotazione era, naturalmente, una mera operazione commerciale perché il suo nome, impresso a caratteri cubitali sulle locandine, era un irresistibile richiamo che induceva frotte di spettatori ad affollare le sale di proiezione per poterlo vedere in azione epperò contribuiva a marginalizzarlo dalla considerazione del gotha cinematografico ed a fornire pretesti ulteriori per fomentare la campagna di aparthaidizzazione fomentata dalla critica. Le sceneggiature, d’altronde, non erano che stralci di bozze messe su alla rinfusa e sulle quali l’attore aveva ampia facoltà d’intervento come abbiamo già visto, ad esempio, nel lungometraggio “Totò, Peppino e la malafemmina” circa la stesura della lettera che nulla, o quasi, serbava del copione originario. Le inquadrature lamentavano, troppo spesso, una statica rigidità della cinepresa denotando una fissità nella quale la mano del regista era, spesso e volentieri, latitante.
I montaggi erano, parimenti, alquanto raffazzonati anzi, talora, del tutto assenti. La fotografia, inoltre, denunciava un pressappochismo sconcertante priva com’era di dettagli, particolari e sfumature. I dialoghi, sui quali si incardinava la struttura della pellicola, ad eccezione – e, va detto, non sempre – di quelli che lo vedevano protagonista, erano, spesso, privi di consistenza e di pregevolezza artistica. Le atmosfere che si respiravano in quei lungometraggi denunciavano delle cadute di pathos, alle volte, decisamente imbarazzanti. Con buona pace dei protagonisti e, anche qui non sempre, dei co-protagonisti, il resto della pellicola era contrassegnata da comparse decisamente goffe ed inadeguate. C’erano, insomma, tutti gli elementi per catalogare queste pellicole come prodotti di scarso valore qualitativo eppure, ciò nonostante, quei lungometraggi riuscivano ad incardinarsi in una struttura filmica proprio in virtù della immensa vis recitativa che propugnava Totò il quale riusciva a conferirne una parvenza filmica fungendo da cosmetico connettivo cicatrizzante tutte le smagliature del prodotto. Queste considerazioni erano di appannaggio anche della critica cinematografica ma soltanto dopo quella “improvvida” sortita al varietà “Il musichiere” di cui sopra furono poste in risalto tralasciando, in maniera disonesta e del tutto faziosa, quanto di pregevole e, artisticamente parlando, di spessore l’attore aveva, già allora, profuso in opere di qualità indiscussa ed, altresì, di minor calibro. Curioso, per non dire altro, notare come, ad esempio, la ferocia con la quale i critici si scagliarono contro Totò non fosse, parimenti, riservata, dagli stessi, a Peppino De Filippo, ad Aroldo Tieri, a Nino Taranto, a Mario Castellani, ad Isa Barzizza, a Sophia Loren, ad Aldo Fabrizi, a Luigi Pavese che, pure, avevano accompagnato spesso e volentieri l’attore nelle sue produzioni. E, parimenti, molto curiosa, per non dire sospetta, la retroattività dei biasimi e delle ingiurie comminategli quasi come se, fino a quel momento, nessuno di loro si fosse avveduto di che cosa Totò avesse prodotto fino a quel momento. Fu una operazione vergognosa ed ignobile espletata con il tacito consenso dei redattori di quotidiani, specializzati e non, e con l’indiretto avallo conferito dall’ostracismo comminato, dalla televisione di stato, a Totò a cui fu preclusa la partecipazione – riservata ad altri attori con asfissiante cadenza – ai varietà di intrattenimento televisivi che cominciavano a fungere, in quegli anni, da propellenti promozionali alle pellicole sull’orlo delle uscite, nelle sale cinematografiche del bel paese, in prima visione. Questa operazione, inoltre, ebbe l’avallo anche di quelle strutture e di quelle fondazioni culturali intrinsecamente legate al partito comunista la cui influenza, già allora, era estremamente pregnante sulla sedicente intellighenzia del paese. Ma l’ostracismo comminato a Totò fu, altresì, corroborato anche da quella parte più conservatrice della cultura cattolica che condannava, senza remore, la vita privata dell’uomo Antonio De Curtis reo, ai loro occhi, di aver ratificato, de facto, il suo concubinaggio, in quegli anni, con l’attrice Franca Faldini una donna bellissima e di una sensibilità umana, prima ancora che artistica, fuori dal comune che fu, dapprima, compagna di lavoro e, poi, compagna di vita dell’attore.
Nel link allegato, tra i vari interventi, c’è una testimonianza, in particolare, molto toccante riportata a Maurizio Costanzo proprio dalla Faldini di cui non anticipo assolutamente nulla perché mi parrebbe, oltremodo, a dir poco irriguardoso cercare di apporre un mio commento ovvero una mia osservazione ad una vicenda così intensa e così intima che ha visto protagonisti i due attori se non quella – sociologica – che questo accorato racconto profuso in un talk show riesce a far trasudare, in poche battute, quella tetra ed asfissiante atmosfera che si respirava in quegli anni e che ha contribuito a soffocare, prima ancora dell’artista, l’uomo Antonio De Curtis. La scarna crudezza con la quale Franca Faldini riporta quell’episodio mi ha fatto accapponare la pelle. Totò, del resto, era perfettamente consapevole di questa cortina di ferro ricamatagli attorno volta ad emarginarlo dal contesto artistico e sociale del paese ed, amaramente, ne fece menzione, più volte, in una di quelle frasi passate, per ironia della sorte, nella storia della cinematografia : “Poi dice che uno si butta a sinistra ! Poi dice che uno si butta a destra ! poi dice che uno si butta al centro ! Non sai dove ti devi buttare !”. Questa locuzione, alla luce di quanto esposto sopra e di quello che ascolterete nel link in allegato, si colora di una tinteggiatura talmente amara che, oggi, io non riesco proprio più a riderne. Totò, quindi, è vittima di un triplice ostracismo sul piano umano, politico ed artistico. Una censura, potremmo dire, di matrice cattocomunista da cui riuscirà a districarsi in virtù, unicamente, della sua immensa vis recitandi che gli consentì di non naufragare nel dimenticatoio
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sabato 27 marzo 2010

Il mistero del sacrificio o l'uomo è ciò che mangia



( NaturalNews) Ricercatori dell' Università di California, San Francisco, hanno scoperto che gli acidi grassi omega-3 possiedono ulteriori effetti benefici oltre a quelli noti per il mantenimento della salute del cuore. Uno studio pubblicato sul Journal of the American Medical Association, rivela che pazienti con elevati livelli di acidi grassi omega-3 nel sangue subiscono un rallentamento della riduzione dei loro telomeri, ciò indica il fatto che gli acidi grassi aiutano a rallentare il processo di invecchiamento.



Lo studio dei telomeri e del ruolo che svolgono nel processo di invecchiamento è un soggetto divenuto popolare negli ultimi anni. Gli scienziati hanno scoperto che i telomeri, che agiscono come un tappo di protezione sulle cellule, si riducono gradualmente nel tempo durante la divisione e l'autoriparazione cellulare, provocando l'invecchiamento della persona. I ricercatori stanno studiando vari composti, inclusi gli omega-3, che sembrano rallentare il processo di riduzione e anche invertirne la tendenza.



Ramin Farzaneh-Far, un cardiologo clinico, autore dello studio, ha esaminato 608 pazienti affetti da problemi cardiaci e blocchi artero-coronarici. Durante un periodo di cinque anni, coloro che avevano i più alti livelli di omega-3 nel sangue manifestavano un minor accorciamento dei telomeri rispetto a quelli con livelli più bassi di tali acidi grassi.



I ricercatori si sono concentrati principalmente sugli omega-3 derivati dal consumo diretto di pesce, successivamente dal consumo di vegetali come semi di lino e noci. Lo studio non ha affrontato fonti specifiche di omega-3, sia estratte direttamente da pesci o vegetali che sotto forma di integratori.



John LaPuma, un medico esperto nutrizionista di Santa Barbara, California, sostiene che la miglior fonte di omega-3 consista nell'assunzione diretta del pesce. Egli basa le sue asserzioni sulla breve ricerca condotta sulla fonte ittica degli omega-3, ma sembra ragionevole supporre che che gli omega-3 derivanti da altre fonti possano apportare benefici similari a quelli usati nello studio.

Lo studio dei ricercatori afferma che non si è completamente certi su come funzionano i telomeri nei confronti dell'invecchiamento, ma, si è appurato che giocano un ruolo fondamentale nel suddetto processo. Altri ricercatori hanno paragonato i telomeri ai rivestimenti finali in plastica dei lacci da scarpe che impediscono alla stringa di disfarsi, asserendo che i telomeri provvedono alla integrità cellulare.



Il Dr. Farzaneh-Far ha anche spiegato che i telomeri corti spesso sono indice della comparsa di alcuni disturbi, incluse malattie cardiovascolari e problemi cardiaci. Se i telomeri siano semplicemente degli indicatori di questi problemi, o ne rappresentino la causa è un questione ancora aperta. Necessitano ulteriori ricerche di questi processi per acquisire una maggiore e più precisa comprensione di come i telomeri lavorano nell'invecchiamento cellulare.


Fonte: NaturalNews
Link utili: TheWallStreetJournal

venerdì 26 marzo 2010

Platone ed internet, parte prima, il social network


Parlare di rivoluzione è sempre stato un tema molto spinoso e molto delicato. Troppo spesso si è ricorso, in maniera del tutto gratuita ed inappropriata, a questo termine connotandolo ad avvenimenti la cui portata storica si è, poi, di fatto rilevata irrilevante o, peggio ancora, per occultare campagne espansionistiche, genocidi, abusi di potere ovvero violazione di diritti umani. Penso, ad esempio, alla rivoluzione culturale cinese che, di culturale intendo, aveva assai poco e che è stata contrassegnata da un costo sociale altissimo in termini di vite umane, di torture, di imprigionamenti, di umiliazioni pubbliche.
Oppure ai moti rivoluzionari che furono i prodromi di quelle guerre di indipendenza culminate con la proclamazione del regno d’Italia nel XIX secolo, meri espedienti terminologici ed agiografici volti a conferire una giustificazione etica, politica e storica ad una bieca campagna di annessione, operata dallo stato sabaudo, dei vari regni, principati e granducati che, non più tardi di cento cinquanta anni orsono, costituivano la spina dorsale dell’assetto geopolitico della penisola.
Eppure, con tutte le cautele del caso nonché con gli accorgimenti che la pregnanza semantica suggerisce, ritengo che, in questi ultimi decenni, stiamo assistendo, fra le tante, ad una vera e propria rivoluzione la cui portata è di difficile valutazione ma che, già oggi e ancor più in futuro, sarà destinata ad incidere enormemente nel nostro modo di essere e di raffrontarci con la realtà. L’abbattimento dei costi di rivendita al dettaglio del personal computer nonché il concomitante ammodernamento della rete telefonica e l’introduzione della banda larga hanno creato i presupposti per un epocale mutamento tecnologico e culturale, ossia, l’avvento della rete e, quindi, di internet. E che cosa c’entri Platone con la rete, avremo modo di scoprirlo man mano che la stesura di questo trafiletto vedrà la luce.
Anzi suddetta stesura prende le mosse proprio da un post presente sul social network facebook condiviso da svariati utenti che invitava ad aderire ad un gruppo nato per mobilitare, on line, un cospicuo numero di utenti ai fini di protestare contro un sedicente disegno di legge volto ad imbavagliare la libertà di espressione presente sul web. Purtroppo ho cominciato a guardare con estrema diffidenza tutti questi gruppi che sorgono, quasi, per germinazione spontanea poiché molti fondatori mirano – sulla base di presupposti demagogici – a raggiungere un numero considerevole di membri per essere appetibili dagli inserzionisti pubblicitari. Penso, ad esempio, a quei gruppi che portano, a latere, didascalie tipo “servono 1.000.000 di iscritti” e/o similari come se l’adesione virtuale, anche di un milione di persone, possa servire a mutare realmente qualche cosa. Ed è la stessa logica che sottende alla creazione di gruppi provocatori che istigano alla misoginia o all’odio etnico. Nello specifico, poi, ho potuto constatare come, attraverso un meccanismo tradizionalmente peculiare di tutti i social network che è quello della condivisione, questa notizia abbia avuto una divulgazione repentina. Chi, come lo scrivente, utilizza facebook sa, a grandi linee, di cosa parlo. Ma ritengo, vieppiù, utile cercare di svolgere una elaborazione analitica su un social network poiché è interessante cercare di capirne, in poche e schematiche battute, il meccanismo di funzionamento in quanto il medesimo è, pur con qualche variabile, quello principale con il quale, attraverso il web, si propalano le notizie.
Facebook è una sorta di diario virtuale nel quale ognuno riporta sul profilo suo proprio, rimessogli dal sistema, svariatissime cose : dalle ricette di cucina alle fotografie del matrimonio, dai video musicali ai trafiletti dei quotidiani ; ed il profilo è, all’atto della iscrizione, di appannaggio esclusivo dell’iscritto. Il software, però, consente, previa richiesta ed accettazione, di poter allacciare delle amicizie tra i vari utenti ed è questo il nodo sul quale si struttura il social network perché dal momento in cui un utente A rilascia la sua amicizia all’utente B entrambi possono vedere, sulla propria home page ed in tempo reale, cosa l’altro ha pubblicato sul proprio profilo anche con un effetto retroattivo. A questo meccanismo è, inoltre, incardinato quello della condivisione che è, poi, il ganglio della diffusione delle notizie su facebook e, a grandi linee, sull’intera rete. Se l’utente A posta, mettiamo, una fotografia l’utente B può vederla sulla sua home page. Se all’utente B questa immagine piace costui può, attraverso la funzione condividi, inserirla, ex novo, nel suo profilo come se la avesse, cioè, pubblicata lui stesso anche se, in realtà la sua pubblicazione non è altro che una mera ripetizione di quella già fatta dall’utente A. Il software, quindi, pubblicherà sulle home page di entrambi gli utenti la stessa icona per cui anche A saprà che, ora, B la ha, appunto, condivisa. Adesso, però, non soltanto A avrà sulla sua home page la notifica della pubblicazione, da parte di B, di quella medesima istantanea ma anche tutti quegli amici di B – mettiamo, C,D,E ed F – che sono, certo, tutti amici di B ma non tutti, necessariamente, amici anche di A. Se, poi, l’utente C troverà di suo gradimento quanto postato – tecnicamente condiviso – da B potrà, a sua volta, rimetterlo in condivisione in maniera tale da consentire che tutti i suoi amici – che non sono, necessariamente, soltanto quelli di B – possano trovarlo pubblicato sulla loro home page e via discorrendo. Per certi versi la condivisione ricorda un pò una reazione nucleare a catena. Ed è su questa reazione virtuale che si propalano, repentinamente, le notizie su facebook e, pur con svariate modalità, anche su internet. La modalità di accesso alla funzione della condivisione è semplice ed immediato : sotto ogni post pubblicato, il sistema rimette tre voci che rimandano a tre differenti opzioni ossia commenta, mi piace e condividi. Cliccando sulla voce commenta si apre una finestra nella quale un utente può apporre, appunto, un commento ; cliccando sulla voce mi piace il sistema notifica, con una piccola icona raffigurante un pollice volto verso l’alto, il gradimento espresso da un utente su quel post ; cliccando, infine, sulla voce condividi il sistema ne consente, appunto, la condivisione. Questo meccanismo è stata elaborato e programmato in maniera tale da rendere semplice l’interazione tra utenti, certo, ma anche – anzi, direi soprattutto – per suscitare una emulazione immediata – non è richiesta, ad esempio l’apposizione di una password ovvero di un codice di accesso che, nei fatti, ne pregiudicherebbe la diffusione – in quanto l’obiettivo recondito è quello di configurare, col tempo, una stringente correlazione sempre più sincronica tra pubblicazione e condivisione ed il cui automatismo sta assumendo contorno di prassi talmente diffusa da indurre, progressivamente, un utente ad assumere la funzione di mero ed inconsapevole vettore.
Amicizie e condivisioni costituiscono, dunque, la pietra angolare su cui poggia tutto il sistema. Un celere monitoraggio va fatto, vieppiù, anche sui meccanismi che determinano le richieste e le elargizioni di amicizie su di un social network. Le motivazioni sono le più disparate, come si può immediatamente intuire, ma seguono delle direttive predefinite. Lo scrivente, ad esempio, annovera, nella propria lista contatti, novantaquattro persone – un numero, va detto, decisamente esiguo – strutturate secondo alcune specifiche falsarighe. Sette di loro – il 7,44 % – sono miei ex compagni di scuola che ho ritrovato sulla rete ; cinque – il 5,31 % – sono persone che ho effettivamente conosciuto in ambito lavorativo e con cui ho continuato ad avere contatti ; dieci – il 10,63 % – sono miei parenti ; altri dieci – il 10,63 % – sono persone che, personalmente, non conosco ma con le quali ho avuto modo di interfacciarmi ripetutamente nel blog del giornalista Gad Lerner ; diciassette – il 18,08 % – sono, invece, quelle amicizie indotte dal sistema e/o suggeritemi dai miei contatti e/o con le quali mi sono interfacciato sul social network ; e quarantacinque – il 47,87 % –, sono, infine, quelle persone che, effettivamente, conosco e frequento anche nella mia quotidianità.
Quindi, volendo fare una tabella ed una classificazione statistica possiamo dire che lo scrivente annovera, nella sua lista contatti, una percentuale schiacciante – il 71,25 % – di persone che ha, di fatto, conosciuto mentre soltanto il 28,75 è costituito da utenti con i quali non ha mai avuto modo di intraprendere una relazione reale. Questa statistica per un social network è un vero e proprio flop produttivo perché, di fatto, la finalità perseguita dai suoi creatori è quella di creare il maggior numero possibile di reti virtuali interconnesse. Ma per un utente recalcitrante ed ancorato a certe remore nella condivisione dei propri spazi virtuali ce ne sono molti altri che, viceversa, tali remore non se le pongono affatto e condividono, allegramente, tutto quel che postano con migliaia di naviganti con i quali, al di fuori del software, non hanno mai avuto alcun contatto. Assistiamo, quindi, nella maggior parte dei casi, ad una induzione anomala di utilizzo del programma che spinge un iscritto ad allacciare un numero sempre crescente di nodi telematici – una amicizia virtuale determina la creazione di un nodo, appunto – che vengono annoverati in una serie sterminata di casistiche ad uso e consumo degli inserzionisti che, sulla base di analisi e meta analisi, possono inserire – a pagamento, si intende – i propri spazi pubblicitari volti ad una potenziale, nonché mirata, utenza di consumatori. Questo, a grandi linee, si chiama micro marketing ed è il propellente economico sul quale si regge facebook.
Il micro marketing, però, non si basa unicamente sul novero dei contatti allacciati da un utente – questo è, invero, solamente un parametro e, in fin dei conti, neanche il più pregnante – ma poggia le sue analisi, invece, sul novero dei gruppi o delle pagine alle quali un navigante è iscritto. Facebook, infatti, consente la creazione di gruppi e/o pagine nelle quali gli utenti possono iscriversi e/o diventarne fans. Se un iscritto, ad esempio, ha una specifica predilezione per le automobili è molto probabile che, una volta acquisita una sufficiente padronanza dell’uso del programma, comincerà a cercare delle pagine e/o dei gruppi appositi dove potrà interagire con altri utenti che condividono la stessa passione. Il fantomatico gruppo e/o pagina tenderà ad annoverare, quindi, un numero sempre crescente di iscritti e/o fans accomunati, quindi, dall’amore per le autovetture. Il sistema elabora, ogni settimana, tutta una serie di dati molto interessanti – il novero degli iscritti, la interazione che espletano sul gruppo e/o pagina, il gradimento che esprimono su quanto ivi postato etc. – che costituiscono una analisi asettica dell’andamento e della evoluzione di quello spazio virtuale. Su questa analisi asettica si inserisce il marketing che sviluppa tutta una serie di meta analisi volte a capirne la potenzialità, il trend, l’incidenza suscitata sugli iscritti e/o fans e quant’altro. Queste meta analisi di micro marketing sono estremamente preziose perché tendono alla massima ottimizzazione degli investimenti pubblicitari che un inserzionista intende effettuare sul web. Restando nell’ambito dell’esempio sopra riportato, se io fossi un rivenditore di automobili di Vercelli potrei richiedere, agli amministratori di facebook, tutta una serie di informazioni atte a conoscere se, sul social network, sono presenti gruppi e/o pagine attinenti al settore delle automobili. Dopo aver svolto una prima disamina, potrei, vieppiù, chiedere al sistema quanti di questi gruppi superano i cinquemila iscritti e/o fans, quali e quante percentuali di interazioni sono ivi presenti – la percentuale di interazione è un parametro funzionale che raggruppa il numero di accessi che questi gruppi e/o pagine ricevono in una settimana ed il numero dei post e/o commenti che vi vengono apposti – nonché le percentuali di gradimento ivi espresse nonché, ancora, la dislocazione geografica dei vari iscritti e/o fans. Dopo questa seconda disamina, potrei, già adesso, essere in possesso di un numero sufficientemente esaustivo di informazioni tali da potermi indurre a prendere la decisione di inserire una mia inserzione pubblicitaria in uno, e non in un altro, di questi gruppi e/o pagine – mettiamo il gruppo X – perché, ad esempio, pur avendo un numero più basso di iscritti rispetto al gruppo Y, è caratterizzato da una percentuale di interazione più elevata e perché, magari, la dislocazione geografica dei suoi iscritti è caratterizzata, poniamo, da un cospicuo numero di persone residenti in Piemonte. E’ evidente, a questo punto, di come la mia inserzione sia, e di gran lunga, assai più mirata rispetto, mettiamo, ad uno spot pubblicitario su una televisione commerciale nazionale o regionale. A differenza dei tradizionali veicoli promozionali che hanno caratterizzato la pubblicità dal dopoguerra ad oggi – i cartelloni, i periodici, i quotidiani, la radio e la televisione – internet offre, ad un inserzionista, una capillarizzazione di informazioni talmente esaustiva ed a costi – ancora – contenuti che, di fatto, già adesso sta cominciando a drenare, ai media tradizionali, una grossa utenza pubblicitaria. Il mercato pubblicitario, quindi, segue un trend, per quanto lento, molto chiaro e lineare. Internet non soppianterà mai del tutto i soggetti già presenti nello scenario pubblicistico ma assumerà, in virtù della sua connotazione interattiva, un ruolo preminente ; non a caso – infatti – la televisione, la radio e gli stessi quotidiani stanno cercando di rendere il proprio linguaggio quanto più compartecipativo possibile – la pay tv on demand, ad esempio, o i podcast delle trasmissioni radiofoniche – nel tentativo di emulare, nei limiti loro concessi oggi dalla tecnologia disponibile, l’interazione presente sul web.
Tornando alla nostra analisi, invece, sui meccanismi di interazione tra gli utenti ci sono, però, altre casistiche molto interessanti che vengono elaborate da fondazioni in qualche modo strettamente correlate ai partiti politici.

Tutti i movimenti ed i partiti hanno fatto della ricerca e della gestione del consenso, in ogni epoca storica, una endemica peculiarità della propria azione politica. Checché si possa pensare, persino i grandi dittatori del novecento ne hanno sempre tenuto debito conto poichè consapevoli che, laddove il consenso si incrini, la gestione sociale e politica di un paese ne sarebbe risultata estremamente problematica e, finanziariamente, dispendiosa. La storia recente del nostro paese è stata contrassegnata, per un ventennio, da un totalitarismo di matrice fascista. Eppure persino in uno stato totalitario – schematizzo ed esemplifico altrimenti mi toccherebbe scomodare Hannah Arendt, Renzo De Felice e Denis Mack Smith e, in questa sede, non mi sembra proprio il caso – la gestione del consenso era una delle principali preoccupazioni del regime. Le adunate oceaniche che facevano da corollario ai comizi che Mussolini tenne, in ogni parte dello stivale, durante il ventennio erano necessarie per consolidare un afflato sempre più intimo tra il fascismo e la società italiana. Il duce, beninteso, tenne comizi anche prima della instaurazione dello stato totalitario ma, ad una analisi minuziosa, possiamo notare come la maggioranza di questi si organizzarono dopo che il fascismo ebbe preso il potere quando cioè, almeno in linea teorica, avrebbe potuto non curarsi punto della adesione delle masse al regime. Questa connotazione temporale è solo, apparentemente, una anomalia. In realtà gli stati totalitari – se non vogliono diventare dei meri stati di polizia – necessitano di un sostegno popolare come, e più, di una democrazia rappresentativa proprio perché, di fatto, ne precludono la organizzazione e la rappresentazione politica ad altri soggetti. Il ritmo frenetico che il capo del fascismo impartì ai “discorsi” che tenne in Italia in tutti quegli anni e che caratterizzarono enormemente il regime rientravano in una ottica molto più ampia di organizzazione e gestione del consenso – dalla formazione all’interno del PNF di varie correnti, al rapporto con la monarchia, alle relazioni con la Santa Sede – ma furono collettori dalla forza propulsiva molto forte. Coloro i quali, tuttora, considerano il totalitarismo – ed il fascismo – alla stregua di uno stato di polizia ovvero di un regime come quello cileno oppure, peggio, come quello argentino lo fanno per ignoranza o per malafede. Il consenso può essere raffigurato, metaforicamente, da una oblunga scansia vuota disposta in senso trasversale ad un osservatore nella quale possiamo subito identificare i due estremi – sinistra e destra – correlati, tra loro, da uno spazio centrale. In una ottica dimensionale, dunque, uno stato totalitario deve, per quanto possibile, occupare tutto lo spazio disponibile cercando di abbracciare, con le proprie propaggini, anche le ali estreme. In una ottica politica, quindi, questo si traduce in un organismo unico al cui interno, però, devono convivere, necessariamente, una serie di correnti centripete volte ad occupare il maggior spazio possibile ma tenute insieme dall’organigramma di una struttura partitica monolitica al cui vertice si pone il capo dell’esecutivo. Il Partito nazionale fascista non esulava da questa connotazione ed era caratterizzato, infatti, dalla coesistenza, al suo interno, di variegate correnti di pensiero ed annoverava, tra le sue fila, esponenti rappresentativi delle varie componenti sociali del paese. Accanto, ad esempio, al ras Roberto Farinacci – un fascista della prima ora ed uno dei più beceri squadristi che la storia recente del paese annoveri nonchè bieco esponente di quella retriva borghesia agraria da cui il fascismo delle origini pure prese le mosse – c’era Dino Grandi che era un convinto fautore dello stato liberale e nutriva spiccate simpatie per il primo ministro della corona britannica e, più in generale, per il Regno Unito. I quadri gerarchici del partito, inoltre, annoveravano, fra gli altri, anche il conte Galeazzo Ciano che, solo in seguito, ascese ai vertici del regime – anche in virtù del matrimonio contratto con la primogenita del duce, Edda Mussolini – ma che era, altresì, un rappresentante della aristocrazia nobiliare tradizionalmente legata alla corona di casa Savoia. Anche il mondo accademico fu reclutato – e rappresentato, dunque – dal regime svolgendo un ruolo vitale sia nel ridisegnare l’architettura costituzionale del paese – può sembrare paradossale ma il fascismo, a differenza di quanto si possa pensare, fu molto attento sia all’aspetto formale che a quello strutturale della carta costituzionale laddove uno stato di polizia si sarebbe limitato, sic et simpliciter, a sospendere le garanzie sociali e politiche del paese – che nello stendere una serie di riforme di carattere sociale e legislativo. I nomi che, maggiormente, ricorrono son quelli del napoletano Alfredo Rocco, docente di diritto commerciale e di codice di procedura civile, il quale ridisegnò e dette il proprio nome al nuovo codice di procedura penale ; ed il filosofo Giovani Gentile la cui riforma omonima contrassegnò l’istruzione primaria e secondaria del paese. Nel partito, quindi, allignavano personalità, sensibilità, ideologie ed istanze anche molto diverse tra loro che, però, trovavano composizione in quella che era la struttura corporativa dello stato totalitario. La politica sociale ed economica perseguita dal regime fu ad ampio raggio – e non poteva, in questa ottica, non esserlo – e fu contrassegnata anche da una particolare attenzione verso quello che sarebbe stato, di lì a poco, vaticinato come “stato sociale” e che, oggi, ha assunto la denominazione anglosassone di "welfare" tant’è che quella che, ancora oggi, viene definita come “destra sociale” prende le mosse proprio da quelle correnti. Le prime legislazioni che tutelavano i disabili – definiti, allora, con una cruda locuzione di matrice ottocentesca che era mutilati – e gli invalidati sul lavoro sono una prerogativa del ventennio. La previdenza pubblica – mi verrebbe da dire, oggi, “questa sconosciuta” – fu introdotta dal regime fascista. Nella struttura corporativa dello stato totalitario, quindi, coesistevano sia le istanze delle borghesie – da quelle tradizionali agrarie e metropolitane a quelle finanziarie che andavano assumendo, proprio in quegli anni, una maggiore consistenza e visibilità – che quelle dei lavoratori che avevano dei propri organi di rappresentanza sindacali. Il regime, quindi, cercava – per quanto gli era possibile – di includere al suo interno tutte le istanze socioeconomiche di un paese nel quale si andava prefigurando, seppure in uno stato ancora embrionale, uno scenario tipico delle società industriali più avanzate dove ad una economia tradizionale, imperniata sulla produzione di beni, si andava affiancando una nuova economia imperniata sulla produzione di servizi con la ascesa conseguente, a livello sociale, di quello che, oggi, viene definito come terziario. Uno sviluppo economico ancorato ad una fase pre – ovvero neo – industriale è stato, storicamente, lo scenario politico dove hanno allignato tutti i totalitarismi, di destra e di sinistra, del secolo scorso – con la sola eccezione, parziale, della Germania – perché a questa transizione non si accompagnano, contestualmente, una immediata palingenesi e disomogeneità sociale. Sviluppo economico, palingenesi e disomogeneità sociale sono, come si può facilmente intuire, tre fattori strettamente correlati ed incardinati fra loro perché ad una mutazione delle strutture produttive corrisponde una mutazione del tessuto sociale. Un paese nel quale lo sviluppo economico è allo stadio di cui sopra sarà contraddistinto da un tasso di disomogeneità sociale statico perché gli operatori economici e le figure professionali che si affermeranno saranno caratterizzati da un basso profilo tecnico e saranno, vieppiù, relativamente esigui tali da non incidere profondamente nel tessuto sociale preesistente in cui si andranno ad innestare. Questo profilo socioeconomico è, quindi, terreno fertile per la instaurazione e l’affermazione di un sistema politico totalitario proprio perché il basso tasso di disomogeneità sociale ivi presente consente ad una struttura partitica monolitica di riempire tutti gli spazi di organizzazione e gestione del consenso – anche a scapito di altri soggetti partitici a cui, nei fatti, ne precludono la rappresentanza – proprio perché relativamente esigui. Un paese, invece, nel quale lo sviluppo economico è già in una fase industriale – ovvero post-industriale – sarà contrassegnato da un tasso di disomogeneità sociale molto dinamico perché gli operatori economici e le figure professionali saranno caratterizzati da un profilo tecnico molto alto – quando non, addirittura, iperspecializzato – e costituiranno una cospicua fetta della società tali da incidere in maniera determinante nel tessuto sociale in cui si innesteranno. In questo scenario così articolato, frammentato e complesso, un totalitarismo risulta palesemente inadeguato a coprire gli spazi di cui sopra ed a dare una rappresentanza ed una risposta politica alle istanze di un tessuto sociale altamente variegato e disomogeneo. In una ottica dimensionale potremmo, dunque, dire che la scansia di cui sopra si è allargata a dismisura per cui un solo soggetto politico, per quanto omnicomprensivo, non è più in grado di poterla riempire adeguatamente. In una ottica politica, quindi, urge il ricorso ad una forma di gestione e rappresentazione del consenso diversa capace di dare istanze a tutte le varie componenti della società ed è, quindi, palese che debba essere delegata a un numero più ampio di soggetti donde il ricorso ad una forma politica più avanzata che è quella della democrazia rappresentativa. Sopra accennavo al fatto che la storia ci ha mostrato come tutti gli stati totalitari abbiano allignato là dove il panorama economico e sociale – Italia e Spagna su tutte – era ancora agli albori se non, come in Cina ed, in parte, anche in Unione Sovietica ancora legato ad un assetto sociale di stampo parafeudale, di una trasformazione industriale e non, come preconizzato da Marx, in quei paesi contrassegnati da uno sviluppo industriale avanzato. Ed alla luce delle considerazioni che ho, dianzi, esposto alcune motivazioni, anche sotto un profilo squisitamente sociologico e politologico, sembrano, oggi, più nitide. Marx, prigioniero degli schematismi mentali hegeliani, incorse in tre gravissimi errori di prospettiva. Il primo – dettato da una deficienza terminologica e da una scarsa e raffazzonata conoscenza degli studi di politologia – fu quello di non aver inquadrato la “dittatura del proletariato” in una categoria politica più ampia che era quella dello "totalitarismo" anche se, va detto, a sua attenuante va messo in conto che le terminologie attinenti furono elaborate e coniate solamente all’alba del secolo successivo ; pur tuttavia lo scenario politico che egli preconizzava era, parimenti, proprio quello di una struttura politico-partitica similare. Il secondo – diretta emanazione del primo – fu quello di non aver intuito che il totalitarismo – quello che, ripeto, Marx identificava come “dittatura del proletariato” – non sarebbe stato, necessariamente, connotato da un solo colore politico e da una sola classe sociale ma che avrebbe potuto, per converso, essere contrassegnato da una matrice sociale e politica di segno opposto. Ed il terzo, ed in assoluto il più grave, fu quello di un grossolano errore di valutazione della complessa dinamicità dei processi storici e sociali schematizzati in una mera ottica hegeliana capovolta che della rigorosità sociologica e storiografica non avevano assolutamente nulla ridotte, com’erano – sulla falsariga della dinamica tesi-antitesi e sintesi – a mere contrapposizioni dialettiche e traslate, quindi, da un’ottica scientifica positivista a quella di una anacronistica speculazione filosofica di matrice ottocentesca. Niente male, direi, per colui il quale si fregiava di essere il propugnatore di un “socialismo scientifico” in antitesi con quello che connotò, con superbia e sprezzo, “utopistico”. I suoi auspici, e quelli dei suoi epigoni “àuguri”, furono sconfessati, ancor prima che dalla storia, dalle sue miopi premesse. Lo scrivente, all’epoca dei fatti ancora studente liceale, ricorda che rimase alquanto perplesso, per non dire basito, quando lesse il preludio del “Manifesto del partito comunista” steso da Marx ed Engels nel 1848 nel quale si riportava la seguente dicitura : “La storia di ogni società esistita fino a questo momento, è storia di lotte di classi. Liberi e schiavi, patrizi e plebei, baroni e servi della gleba, membri delle corporazioni e garzoni, in breve, oppressori e oppressi, furono continuamente in reciproco contrasto, e condussero una lotta ininterrotta, ora latente ora aperta; lotta che ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”. Quella volgare, nonché grossolana, riduzione della variegata e complessa storia della Roma repubblicana, di cui ero alquanto ferrato, stereotipata in una mera contrapposizione tra “liberi e schiavi”, “patrizi e plebei” ed “oppressori e oppressi” denotava una tale approssimazione, per non dire ignoranza, che mi fece cascare le braccia. Eppure, già allora, l’insigne storiografo danese, nonché futuro premio nobel, Theodor Mommsen teneva docenze universitarie nelle quali prefigurava, in maniera dettagliata, uno scenario storico della Roma repubblicana assai diverso e, decisamente, assai più complesso delle patetiche schematizzazioni marxiste. Se, inoltre, mettiamo di conto che l’opera omnia del Mommsen, “Storia di Roma”, ancora oggi considerato un “caposaldo”, ancorché datato, della storiografia classica dell’Urbe, vide la luce tra il 1854 ed il 1856, che Karl Marx si spense nel 1883 e che, in tutti quegli anni, l’economista tedesco non ebbe mai modo di rivisitare “neanche una” delle sue premesse storiche, sociologiche e filosofiche mi viene da pensare che, se pure c’era, Marx era molto “distratto”. Questa sua “distrazione” fu una caratteristica molto diffusa, e molto perniciosa, che permeò, largamente, il pensiero e le ideologie di quei movimenti e di quei partiti che si ispireranno proprio al marxismo e, cosa ancor più grave, che ancora sottende, nel 2010, ad un certo modo – assiomatico – di pensare e di interpretare i cambiamenti economici ed i conflitti sociali dell’età contemporanea. Eppure, agli inizi del secolo scorso, qualche scomodo “eterodosso”, all’interno del partito comunista italiano, alcune di queste problematiche se le cominciava già a porre. Antonio Gramsci, nei suoi “Quaderni”, prese ad analizzare le motivazioni per le quali le preconizzazioni marxiste avevano clamorosamente fallito nella interpretazione politica e storica degli avvenimenti incorsi in Italia e del perché, al posto della dittatura del proletariato, si fosse instaurato un regime di destra. Quel che non poteva intravedere il filosofo sardo, coevo di quegli avvenimenti, era che il fascismo, letto come categoria politica del totalitarismo, sarebbe stato, per ironia della sorte, persino confacente alle analisi di Marx – inquadrate in una prospettiva più ampia e scevra da zavorre ideologiche – pur se contrassegnato da una matrice politica di segno opposto. Ma poiché anche Gramsci era “prigioniero” degli schematismi hegeliani e della omonima dialettica inquadrò i conflitti sociali e politici del suo tempo in una dicotomia imperniata – anche allora ! – sulle categorie politiche fascismo-comunismo e non riuscì ad inquadrare, in una più ampia ed esaustiva prospettiva, le motivazioni profonde che sottesero alla instaurazione e, soprattutto, al consolidamento del regime nonché alla adesione, entusiasta e convinta, proprio di quelle masse operaie e contadine che avrebbero dovuto fungere da insormontabile baluardo alla instaurazione del regime fascista nochè essere, al contempo, motore propulsore di un altro tipo di sviluppo storico. Qualche spunto, comunque, lo individuò proprio nella complessità della società italiana e delle politiche sociali del regime che avevano depotenziato, assorbito e metabolizzato certe pulsioni e certe istanze provenienti dal mondo del lavoro trasfigurandole ad uso e consumo del regime. Purtroppo Gramsci non riuscì mai del tutto ad affrancarsi dall’ortodossia del pensiero marxista e pur individuando, nelle sue indagini, alcuni spunti preziosi non aveva ancora quelle categorie del pensiero – oggi diremmo quelle “parole” – tali da poter gettare le basi, sin da allora, per una rilettura, in chiave “moderna” del pensiero e della ideologia comunista. Inutile dire che queste riflessioni, potenzialmente “eversive”, restarono lettera morta all’interno del partito, sia allora che negli anni a venire tant’è che, tuttora, molti – troppi – esponenti politici o militanti di sinistra si imbevono delle parole di Gramsci – meglio, di qualche “aforisma” pescato qua e là sul web – senza aver mai avuto modo né di leggerlo né, tantomeno, di comprenderlo. Se lo avessero fatto, probabilmente, comincerebbero a capire “chi”, e "perché", aveva un reale interesse a farlo marcire nelle prigioni fasciste. Insomma se Marx era molto distratto e Togliatti “non si era avveduto” delle problematiche teoriche, socioeconomiche e politiche che Antonio Gramsci, già allora, andava ponendo qualcun altro, invece, prestava molta attenzione a tutti questi aspetti. Era, ovviamente, il capo del fascismo. Questo aspetto non deve lasciare sconcertato o disorientato il lettore ; non bisogna dimenticare che Mussolini, prima di divenire il capo del fascismo, era stato un socialista rivoluzionario per cui certe teorie le conosceva sin troppo bene. Anche in questa ottica, quindi, vanno inquadrate le immense opere di bonifica intraprese dal fascismo durante il ventennio. Non si trattava, cioè, soltanto di dare a braccianti e coloni un appezzamento di terra ma, altresì, di depotenziare il fenomeno della urbanizzazione crescente ai fini di staticizzare una situazione socioeconomica estremamente favorevole all’avvento ed, in prospettiva, al consolidamento del fascismo. Il mio auspicio, in merito alle considerazioni di cui sopra, è che una lettura attenta e rigorosa degli avvenimenti storici faccia da monito a tutti coloro che, allegramente, parlano – oggi – di fascismo, di neo fascismo e quant’altro. Alle volte occorrerebbe mettere da parte categorie, stereotipi e parole stantie che trasudano soltanto propaganda ma che sono, ontologicamente, prive di senso ed assolutamente inadeguate nel farci comprendere gli epocali mutamenti storici, politici, sociali ed economici che stiamo vivendo.
Tornando, adesso, alla gestione del consenso in età contemporanea ed al rapporto che si sta instaurando anche sul web, possiamo, subito, dire che la rivoluzione tecnologica degli ultimi decenni ha messo a disposizione, come mai prima d’ora, un bagaglio cognitivo straordinariamente ricco e pregnante per tutti coloro i quali operano o studiano le forme, le rappresentazioni e la gestione del consenso. Anche facebook rientra in queste casistiche poiché uno dei movens che sottende alla creazione di nodi virtuali tra utenti è, alla stregua della vita reale, l’orientamento politico degli iscritti. Se l’utente X è, politicamente, orientato verso lo schieramento di centrodestra è molto probabile che, nel novero dei suoi contatti, ci siano altri utenti parimenti orientati. Questi contatti possono, vieppiù, integrarsi a seguito di iscrizioni a gruppi ovvero a pagine di matrici espressamente politiche che rientrano nell’alveo di quegli schieramenti partitici inducendo l’utente ad arricchire la sua agenda di amicizie indotte a seguito di interazioni virtuali. Abbiamo visto, sopra, che le funzioni amicizia e condivisione vanno di pari passo perché, potenzialmente, ogni amicizia è strettamente incardinata ad una condivisione. Nella prassi quotidiana di un social network, quindi, accade che se l’utente X ha, mettiamo, allacciato trenta nodi virtuali – contatti – nella propria rubrica sulla falsariga di una comunione politica quando si affaccerà sul software e sarà indirizzato, automaticamente, verso la propria home page troverà ivi esposto, in ordine cronologico, quanto postato da tutti i suoi amici. Se trenta di loro sono correlati alla sua home page sulla base di affinità politiche rinverrà, con molta probabilità, una serie di post che avranno, come oggetto, proprio la militanza politica. E, su questa base, con alta incidenza probabilistica, rischierà di leggere, a più riprese, sempre il medesimo post che i suoi contatti hanno ritenuto consono reiterare, attraverso la condivisione, sul web. Quel post, quindi, alla stregua di un spot pubblicitario, gli sarà riproposto svariate volte suscitando una dinamica emulativa in virtù della quale anche l’utente X sarà, adesso, indotto a condividerlo ed a postarlo, a sua volta, sulla propria home page senza, magari, tentare – prima della condivisione – di analizzarne, criticamente, il contenuto ma, unicamente, in virtù del fatto che i suoi contatti hanno ritenuto opportuno diffonderlo inducendolo, così, ad effettuare una scelta consapevole ma del tutto acritica. E’ un meccanismo molto pernicioso perché, col tempo, tende, vieppiù, a configurarsi come del tutto automatico. L’automazione di una condivisione sulla base di una icona con, in allegato, un mero titolo riassuntivo ad effetto è diventata, alla stregua di un titolo cubitale esposto su un quotidiano, una prassi talmente diffusa sui social network che porta, progressivamente, un utente a smarrire la propria capacità analitica ed a diventare un mero vettore inconsapevole.
Il meccanismo della condivisione, poi, è studiato in maniera tale – un pò come il linguaggio del web – da suscitare emulazione, e quindi diffusione, attraverso le icone ossia mediante una fotografia o un’anteprima di un filmato. La condivisione di un post di un utente basato, unicamente, su una mera stesura è raro e poco efficace poiché, visivamente, non carpisce e non stimola l’interesse di un navigante. Molto più immediato e semplice, invece, catturare la sua attenzione attraverso una icona in quanto una immagine è, sotto un profilo squisitamente ontologico, assolutamente esaustiva e non necessita di alcun corollario in quanto il suo scopo non è quello di indurre un osservatore a svolgere un processo di analisi bensì di suscitargli una mera associazione sillogica indotta.


mercoledì 24 marzo 2010

Il pesce puzza dalla testa, ma anche le viscere fanno un bel fetore





Il dissesto idrogeologico italiano non è un mistero.
Siamo stati alcuni giorni in provincia di Rieti, nella zona di quello che dovrebbe essere il parco naturale di Fara Sabina; i due paesi che abbiamo avuto modo di visitare ( Poggio Catino e Poggio Mirteto ) stanno franando... O meglio, segni evidenti dell'erosione del territorio, e veri e propri eventi franosi, appaiono ove si è operato un disboscamento scriteriato.
Tutti dovrebbero sapere che la tenuta di un terreno pendente è in gran parte dovuta all'azione frenante/drenante delle radici delle piante, specialmente degli alberi...
ma abbiamo visto con i nostri occhi, lungo le strade
quelle non ancora franate-
per Poggio Catino/Poggio Mirteto, uomini intenti a tagliare alberi, sui clivi in prossimità del manto stradale, che già mostrava in più punti chiari segni di un fronte franoso in movimento ( sassi, terreno e microfrane sulla carreggiata). 
I suddetti alberi venivano poi tagliati e messi in vendita, pochi metri più avanti, come legna da ardere...

Capiamo bene che la cupidigia umana non ha mai avuto scrupoli e confini...
quello che non va è il silenzio assenso delle comunità locali, che tutti i giorni sono i testimoni viventi dello scempio del territorio...
Certo è che tutto gioverà alla solita appaltanza post calamità.

martedì 23 marzo 2010

Vitamin D better than vaccines at preventing flu, report claims


From The Times
March 15, 2010
Oliver Gillie
Translation: Luca Giammarco

Vitamin D could cut the risk of flu infection in children by half, the report claims(Richard Cannon/The Times)

La vitamina D consentirebbe di ridurre notevolmente il rischio di infezioni influenzali, afferma uno studio condotto in una università giapponese.

Il rischio per i bambini di soffrire forme influenzali può essere notevolmente ridotto mediante assunzione di vitamina D, questa è la scoperta di un gruppo di ricercatori giapponesi. La scoperta ha implicazioni dirette nelle forme di infezioni influenzali, dato che la vitamina D, che il nostro corpo produce naturalmente quando ci esponiamo direttamente alla luce solare, non ha controindicazioni significative, ha costi ridotti e può essere molto più efficace di vaccini e antivirali.

Solo un bambino su dieci, dai 6 ai 15 anni, sottoposto alla “vitamina del raggio di sole”, durante un test clinico, ha preso l'influenza; la percentuale di uno su cinque si riscontra alla sola somministrazione di un placebo. Mitsuyoshi Urashima, il medico giapponese che ha condotto il test, dichiara al “The Times” che la vitamina D è più efficace dei vaccini nella prevenzione dell'influenza.

La vitamina D ha avuto effetti maggiori se il confronto escludeva bambini che assumevano già vitamina D, al di fuori dell'esperimento. Si è dimostrato che l'esposizione ai raggi solari riduce il rischio influenzale di un terzo.

Complessivamente, 354 bambini hanno partecipato al test, che è stato eseguito durante l'inverno 2008/2009, prima dell' epidemia d' influenza suina. Si è riscontrato che la vitamina D protegge contro l'influenza A, che ha causato un'epidemia lo scorso anno, ma non contro la meno comune influenza B.

Link utili:
La ricerca, double blind, randomizzata e integralmente controllata scientificamente, è stata condotta da medici e scienziati della “ Jikei University School of Medicine di Tokio, Giappone.

I bambini assumevano una dose giornaliera di 1200 Ius ( unità internazionali) di vitamina D per un periodo di tre mesi. Durante il primo mese i bambini assuntori di vitamina si ammalavano allo stesso modo di quelli assumenti placebo. Ma, dal secondo mese, quando il livello vitaminico nel sangue dei bambini era più alto, l'efficacia della vitamina è stato chiaro.

Lo scienziato giapponese, scrivendo sull' American Journal of Clinical Nutrition, afferma che gli antivirali zanamivir e oseltamivir riducono il rischio influenzale dell' 8% nei bambini esposti all'infezione, rispetto al 50% di riduzione evidente di quelli trattati con vitamina D.

Gli antivirali sono anche troppo costosi e forse molto tossici per essere somministrati massivamente sulla popolazione, senza parlare degli ulteriori benefici della vitamina D. L'esposizione ai raggi solari [ e la relativa produzione di vitamina D] non solo previene le fratture ossee ma riduce anche il rischio di cancro, disturbi cardiovascolari, diabete e altre patologie incluse varie infezioni batteriche e virali.

Il giapponese sostiene una teoria secondo la quale i bassi livelli di vitamina D nel sangue, durante il periodo invernale, sono direttamente connessi ai picchi influenzali che avvengono fra dicembre e marzo.

La vitamina D attiva il nostro sistema immunitario, consentendo al corpo di produrre diverse proteine come la defensina e la catelicidina che spingono l'attività cellulare e disattivano i virus.

Il dottor Urashima afferma: “ La vitamina D e il vaccino lavorano con due diversi meccanismi. La vitamina D rafforza il sistema immunitario innato mentre il vaccino aumenta l'immunità acquisita. Quindi non c'è bisogno di selezionare un solo sistema di prevenzione, possiamo anche applicare entrambe le metodologie, penso.”

Il dr. Jhon Oxford, professore di virologia al Queen Mary School of Medicine, Londra, sostiene: “ Questo è uno studio preciso, notificato da scienziati, è concorde all'andamento stagionale dell'influenza. Vi è un crescente background di affermati scienziati che rende credibile la storia della vitamina D. Ma questi studi necessitano di una replicazione. Se saranno confermati potremmo pensare di utilizzare la vitamina D assieme alle vaccinazioni.”

domenica 21 marzo 2010

Finalmente è martedì



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Finalmente è martedì
Omaggio a F. Truffaut



Era un luglio strano quello deL 3991, iLtempo non era più lo stesso daL 1991.
Fu proprio allora che, a causa della guerra coL pianeta Kari, iL sincronismo geotermico ebbe una decisiva battuta.

C'era un caldo appiccicoso come la gingomma sotto una
scarpa, nell'ufficio, aL piano terzo di uno stabile sito aL centro della città gRossa.
Io appunto, mi trovavo proprio lì.

L' agenzia investigativa Fanny', di cui ero titolare, non vedeva clienti da mesi; a dire iL vero non ne aveva mai visti.
La segretaria che avevo assunto, per tirare su qualche spicciolo, si era messa a dare lezioni di dattilografia e stenografia in ufficio. Potevo così allietare i miei pomeriggi di attesa guardando le forme delle donne che riempivano l' aria di odori e fragranze, umori e voci.
Alla mattina, invece, affittavo lo studio ad un maestro di piano; la notte..?!

Quella notte,non potrei mai scordarla, la notte deL 2¶ luglio 3991.
Girovagavo fra le finestre di casa recitando appassionatamente iL monologo amletico, quando, all' improvviso una luce di stella in movimento si avvicinò aL pianeta, e, s' intravide una lucente nuvola distendersi sulle case...
Solo un istante dopo sentii squillare iL telefono.
Una voce assurda, come quando siete in collegamento via satellite e vi arrivano le voci sdoppiate; una voce con centomila echi mi offriva un incarico...un'inchiesta provinciale.

"Vorrei sapere chi ha ucciso RauL Mordini".

"Ucciso???":
Dissi, imbambolato ancora dall' effetto di quell' improvviso bagliore notturno.

"Senti,
non so chi tu sia,...
ma, fare scherzi telefonici così idioti, a quest'ora della notte poi,..".

"Lei è un investigatore privato?";

"Mi si dice quello che devo fare, e lo faccio..."

"Non vuole assumersi quest' incarico? Sono disposto a pagare iL disturbo per iL tempo perso".

La possibilità di arrotondare, anzi di incassare qualsiasi forma di sostentamento, mi constrinse a considerare che non si trattasse di una presa in giro.

"Ho bisogno d'un anticipo, eppoi tutti sanno che Mordini si è suicidato, sarebbe un 'inchiesta inutile..."

"Se attiva iL suo conto a presa domiciliare, fra tre
minuti, arriverà iL suo anticipo".

Mi accesi una sigaretta, guardavo l' output della mia banca domiciliare con occhi sognanti; non erano trascorsi che cinque miseri secondi che suonò iL campanello d' ingresso.
C'erano cinque agenti della Kripo ad attendermi.

"Salve, quaL buon vento?",
abbozzai un sorriso.

"Non avremmo un mandato, ma, vorremo entrare..."

"Capisco. IL pianerottolo è troppo stretto",
dissi loro spalancandola porta.

"Ha ricevuto una telefonata circa due minuti fa..."

"un matto che voleva condividere con qualcuno la sua insonnia".

Lo sportello cassa era desolatamente spento e vuoto.

"Sarebbe in grado di riconoscere la voce?"

"La linea era disturbata come una goccia d' acqua nell' olio bollente...non so altro"

"Sarebbe così gentile da seguirci aLblocco Q?",
mi fece quello che di loro sembrava iLpiù alto in grado.

"Lasciatemi inforcare un pantalone e arrivo".

La macchina correva mollemente verso iLblocco Q, dove c' erano gli uffici deL DFQ: dislocamento forze di quartiere.
IL commissario Feliciano de Petro sembrava tirato fuori daL letto a forza di sganassoni.

"Lei è più giovane di me, quindi non mi arrabbierò. Sbattetelo in cella";
furono le sole laconiche parole che gli sentii pronunciare ñuell' alba.

IL mattino dopo, neL mio ufficio, come in ogni qualsiasi mattino feriale, Floriana, la mia segretaria, varcò la soglia dell' agenzia e mise su iL caffè.
Guardandosi attorno si accorse che c'era qualcosa di storto; sullo sportello di cassa automatica vi
erano, ordinatamente allineate, le più prestigiose tessere di prelievo illimitato deL pianeta.
"Cosa ci fanno e perchè sono qui?", si chiese con aria vagamente assorta.
Mentre cercava di collegare gli avvenimenti fu interrotta da un click! IL registratore a bobine acceso durante la notte per registrare iL mio monologo si era spento all' eusarimento deL nastro.

-REWIND-

-STOP-

-PLAy-

Così Flory, riuscì ad ascoltare una telefonata in cui io parlavo coL vuoto. Sembrava una conversazione incompleta, come l' applauso di una sola mano; insomma un copione per due voci recitato da un solo attore, da un'unica parte
...Eppoi c'era la visita deL DFQ...

"Conosco Feliciano de Petro, ero la sua segretaria¬ una volta ho dovuto dargli uno schiaffo, era l' unico modo per fargli togliere le mani daL reggiseno. Non gli è bastato: mi sono dovuta licenziare, per venire a dare lezioni di dattilografia in questo desolante ufficio.
e adesso è sparito pure iLprincipale".

"Petrus..?"

"ah,sei tu,cara Flory..."

"PetrusBonekampf"...

a queste parole iL sudetto Feliciano entrò in una trance ipnotica;

"Ai tuoi ordini..."


"Ho tutto iL diritto di fare una telefonata", imprecai daL cubicolo di isolamento mentre si avvicinava Feliciano de Petro;
a guardarlo bene era profondamente cambiato.Mi disse:

"Si alzi e mi segua".

Le strade notturne pullulano di vita, credetemi; provateci. IL coprifuoco è infranto in ogni angolo della terra.

IL tempo di biascicare questi pensieri e fui introdotto in una stanza, nell' agenzia, nella mia agenzia.
Lì c'era Flory ,ci aspettava. Aveva fra le mani le tessere di prelievo illimitato.

"Certo non potrai andare tu a ritirare soldi con queste",
mi disse indicandole silici di credito.

"Stammi bene a sentire, fra quindici minuti scade iL trance ipnotico a Feliciano ed io ho un urgente bisogno di rimetterlo a nanna, così tutto gli sembrerà solo un sogno. Non ti permetterà di riscuotere un solo nichelino...capisci?"

"Flory...
se non ci fossi bisognerebbe inventarti!"

"Che incarico ti hanno affidato?".

"Mah, stronzate, volevano che trovassi chi ha ucciso RauL Mordini...”

ma io non voglio tornare aL DFQ,.."

"Chi ti ha dato l' incarico, non c'erano voci sulla registrazione interfonica?"

"Da quello che ne so,potrebbe essere qualcuno che viene da un altro pianeta..."

"E' tardi adesso, ciao";
sorridendo mi mise K.O colpendomi con una riproduzione della torre Eiffel, dritto sulla testa.
Mi risvegliai in cella con un bernoccolo enorme, non riuscivo a capire se la mia situazione fosse eccitante o desolante...Flory...
mi avrebbe tirato fuori di lì? O stava semplicemente facendo un buon affare?

-Blocco DFQ, in un cubicolo di cemento. Le pareti sono bizzarre, a volte delle visioni, dove le porte d'ingresso sembrano solo affrescate intorno aL corpo cemento-

Flory osservava le due immagini giunte assieme aL malloppo.
Una era un' articolo sull' arma deLpresunto suicidio, la stessa che fu ritrovata accanto a Luigi Tenco,
la famosa PPK: pistola della polizia kriminale. L' altra mostrava lo zar Boris Vodka che salutava romanamente la stampa.

"Sicuramente non faranno l' autopsia di Mordini per stabilire iL calibro deL proiettile...ma quell' altro lì, cosa c'entrava? Quale Cesare deL kaiser stava ossequiando?, perchè non riusciva a controllare iL suo mignolo che non si stagliava netto aL cielo
con le altre dita?"


"Dunque, tutto cominciò quando Boris, da ragazzino, rivelò aL fratello BilL la cosa più terribile che lui potesse sentirsi dire: iL colpevole di un vecchio giallo.
Da allora i rapporti si interruppero e Boris era diventato un accanito alcolista.
Ma...
Mordini, cosa c'entra?".

Flory si svegliò dalle idee nebbiose dei pensieri e prese a guardare gli avventori deL bar dell' angolo.
Poi ripiombò nelle precedenti elucubrazioni.

"RauL Mordini era mancino, perchè doveva spararsi alla tempia destra, tenendo un cuscino appoggiato alla fronte con l' altra mano?

e perchè tutto ebbe inizio con Moro Aldo, Moro,...Moro,mi ricorda qualcosa...una barca; iL Moro di Venezia!
Che nome...,Moro è stato ucciso, iL Moro di Venezia?
Mordini dunque era a conoscenza dei fatti accaduti a Moro, conosceva tutti i fabbricanti di sintyax-bang, tutti i distributori di armi particolari e poteva scoprire tutto...
Mordini era suL punto di fare un grosso affare:
l' acquisto della chimica russa.
Forse nei suoi ultimi giorni aveva fatto uno sgarro,
o era un testimone troppo prezioso da lasciare in
vita...,mi piacerebbe sapere le dinamiche balistiche di queL proiettile che ha in corpo,..a chi avrebbe potuto dar fastidio...
Oddio! Non saremo mica in un' epoca di guerre industriali?
Eggià iL lento incedere prende iL sopratacco, la guerra civile,la guerra mondiale,la guerra industriale!".



La custodia cautelare era scaduta e così, un martedì, finalmente,
Petrus si decise a rimettermi aL mondo. Con la barba di sei mesi sembravo un altro e la portineria elettronica stava per fulminarmi;
per fortuna le mie impronte digitali in gattabuia non erano cambiate.

Di Flory nessuna traccia, le uniche sue nuove erano quattro parole scarabocchiate su una cartolina, proveniva da Hammamet.
Diceva:" Sono sulla pista giusta, baci".
Quella furbastra era in vacanza con le tessere dei miei clienti ormai perduti.

-Null' altro nella posta elettronica, se non bollette e ingiunzioni-

Avevo bisogno di qualcosa di forte,neL congelatore c'erano ancora i miei budini all' embrione umano, superproteici, neL formato bigusto maschio-femmina; una vera libidine.

a proposito di libidine, erano sei mesi che non toccavo una donna vera; in cella solo autodafé con gli ologrammi virtuali, poca roba.

Proverò a dar lezioni di investigazione...

di RauL Mordini neanche più se ne ricordava nessuno.


questo racconto è frutto di pura fantasia
ogni riferimento a persone e fatti e' puramente casuale